martedì 28 febbraio 2017

Segnala(la)libro #7

Titolo: La sovrana lettrice
Autore: Alan Bennett

A una cena ufficiale, circostanza che generalmente non si presta a un disinvolto scambio di idee, la regina d’Inghilterra chiede al presidente francese se ha mai letto Jean Genet. Ora, se il personaggio pubblico noto per avere emesso, nella sua carriera, il minor numero di parole rischia una domanda del genere, qualcosa deve essere successo. E in effetti è successo qualcosa di semplice, ma dalle conseguenze incalcolabili: per puro accidente, la sovrana a scoperto quegli oggetti strani che sono i libri, non può più farne a meno e cerca di trasmettere il virus della lettura a chiunque incontri sul suo cammino. Con quali ripercussioni sul suo entourage, sui sudditi, sui servizi di sicurezza e soprattutto sui lettori lo scoprirà solo chi arriverà all’ultima pagina, anzi all’ultima riga. Perché oltre alla irrefrenabili risate questa storia ci regala un sopraffino colpo di scena – uno di quei lampi di genio che ci fanno capire come mai Alan Bennett sia considerato un grande maestro del comico e del teatro contemporaneo.

Premetto che ho un debole per l’Inghilterra e gli inglesi. Non tanto per la letteratura, non faccio mai caso alla nazionalità di un autore, a meno che non scopra che il libro è strettamente legato alla sua cultura.
No, mi piace l’Inghilterra perché mi piacciono alcuni piccoli dettagli. Mi piace l’idea di un cottage in campagna, della sala da tè piena di alzatine con biscotti e pasticcini, mi piace il loro accento e la metropolitana di Londra (così comprensibile rispetto ad altre!), mi piace che lì il teatro non costi uno sproposito e che gli anziani londinesi posseggano così tanta dimestichezza con la tecnologia (mai visti così tanti vecchietti con lo smartphone come a Londra). Insomma, mi piace l’Inghilterra così come piace a qualcuno che non ci vive.
Detto questo, un po’ la famiglia reale mi lascia perplessa. Non capisco questo amore per loro, probabilmente perché non sono inglese. Ammetto di ridacchiare sempre un po’ di gusto quando qualcuno fa delle battutine rivolte a loro, ma non è per cattiveria. Ho raggiunto un grado di simpatia tale per la figura bonaria e totalmente innocua e di facciata che è la regina (almeno come appare al giorno d'oggi), che ormai mi sono presa certe libertà e la chiamo “La Betty”.

Non leggo spesso libri che parlano di libri perché ho paura di scoprire romanzi stucchevoli, smielati – perché è come divento io quando parlo di libri, e una parte di me si odia perché percepisco l’imbarazzo nell’interlocutore. L’ultimo che ho letto deve essere stato un paio di anni fa e ricordo che era carino, ma non abbastanza da recensirlo ad esempio, e con una morale più che mai buonista.
Unire i libri agli inglesi, e più che mai alla regina, è stato un guilty pelasure. Ho già letto Alan Bennett e sapevo più o meno a che cosa andavo incontro, infatti il libro non mi ha delusa.
Perché qualcuno dovrebbe leggerlo? Be’, anche se non amate l’Inghilterra, “La sovrana lettrice” è leggero e divertente, ma offre anche degli spunti di riflessione. In maniera esagerata e paradossale, ci mostra come un libro può cambiarci la vita, e ci fa riflettere anche su alcune caratteristiche della lettura: leggere è importante perché solo così ci abituiamo a pensare, confrontare, farci delle domande. La lettura, che pure può sembrare un atto statico, è il primo passo per l’azione.
La Betty lo sa. Leggere è stata forse l’azione più sovversiva che abbia mai fatto.

martedì 21 febbraio 2017

Fra me e me

Non guardo moltissima tv, nella maggior parte dei casi la accendo quando stiro/stendo/attento alla mia massa grassa facendo addominali, quindi non la guardo che per qualche minuto, e nemmeno tutti i giorni. È stato proprio un caso, quindi, che trovassi su La5 un documentario sugli autori irlandesi.
Ovviamente si è parlato anche di Joyce e della tecnica del flusso di coscienza e, anche se non ne so moltissimo, immagino che si possa definire un monologo interiore estremizzato.
Ho iniziato a pensare a questa tecnica e da qui è nato il post.

Prima di tutto, perché un autore dovrebbe usare il monologo interiore?
A mio parere è un modo per far conoscere meglio il protagonista. Questa tecnica esplora i suoi pensieri ma non solo, ci dà una visione del suo carattere per mezzo di molti fattori. Ad esempio il modo in cui parla a sé stesso, un linguaggio che sicuramente è più colloquiale, più svelto di come invece parla con gli altri. L'autore può anche farci capire cosa il personaggio pensa di sé stesso, come si considera, se ha dei problemi o è relativamente in pace con la sua vita. Capiamo di più sulla sua psiche, cosa che può essere utile anche ai fini della trama ma, oltre a questo, arricchisce il personaggio.
Un altro modo in cui il monologo interiore può esserci utile è per spezzare la narrazione, in una scena descrittiva ad esempio. Se usata con ingegno può essere un puntello ad una scena d’azione, in cui alternare azione e pensiero frenetico del personaggio che si trova a rischio. L’arma risulta comunque a doppio taglio, perché spezzare la narrazione troppo spesso può renderla frammentaria, difficile da seguire, quindi penso che sia una tecnica da usare con parsimonia.
Non amo dover lasciare ‘in sospeso’ ogni due minuti ciò che accade per conoscere il pensiero del protagonista, quindi penso che si debba usare solo se necessario.

Una delle cose più interessanti del monologo interiore, cui ho pensato scrivendo questo post, è la sua versatilità. Può essere usato in moltissimi modi e dare quindi il taglio che preferiamo ad un romanzo. Il più classico dei metodi prevede una frase rifinita, un pensiero del protagonista confezionato per renderlo fruibile al lettore, di solito scritto in corsivo o fra virgolette, ma il documentario su Joyce mi ha fatta riflettere.
Il monologo interiore più onesto, se vogliamo, è quello che viene utilizzato in “Finnegan’s wake”, una sfilza di parole, pensieri, canzoni, immagini una dietro l’altra senza un apparente ordine logico, ma che costituiscono in effetti i nostri pensieri. Non esiste, in realtà, un modo concreto per illustrare un ragionamento, e questo significa che un autore può sbizzarrirsi per cercare di metterlo su carta.
Si tratta di un modo estremo, che poco ha a che vedere con la narrativa e molto con la letteratura, a mio parere, quindi ho deciso di restare dell'idea di conciliare un pensiero ad una frase comprensibile da un ipotetico lettore.
Potremmo comunque interrompere la narrazione all'improvviso e scrivere una sorta di mini flusso di coscienza, ignorando le regole grammaticali più elementari per dare l’idea di un pensiero volatile, appena percepito,
sarà chiaro?, forse dovrei cercare qualche esempio sui libri o chi legge non capirà, questo post è confuso lo dovrei rileggere, oddio ma quando mi ci metto? E prima lo finisco e poi lo rileggo o lo rileggo subito? Libri, libri in cui cercare esempi... oddio un sacco dei miei libri sono ancora negli scatoloni, come faccio?
Questo solo per farvi un esempio, e non molto distante dalla realtà.
Un metodo che non interrompe la narrazione è quello di rendere il pensiero del personaggio un personaggio stesso, il che introduce anche un discorso riguardo alla doppia personalità, che l’autore può utilizzare come meglio crede, ovviamente in un romanzo che vi si adatta, o per un personaggio che necessita di questa sfumatura. Ad esempio Gollum nel Signore degli anelli parla con Smeagol, ma altro non è che un monologo interiore. Un altro esempio è quello del protagonista del film “The lady in the van”, adattamento di un’opera teatrale di Alan Bennett, in cui l’autore stesso parla con un altro sé, poiché divide l’uomo dallo scrittore.

Questi sono i modi che conosco io per usare il monologo interiore. Forse ce ne sono altri, nel caso sarei molto curiosa di conoscerli!
E voi, come lettori e/o come scrittori, che ne pensate di questa tecnica? Vi piace o vi infastidisce trovarla in un romanzo? La usate o cercate di evitarla a tutti i costi?


mercoledì 15 febbraio 2017

I miserabili vol. I - Victor Hugo

Avevo la mezza idea di leggere questo romanzo e scrivere una recensione come faccio di solito, poi mi sono fermata. Ho tre volumi di fronte a me e già il primo mi ha dato del filo da torcere. Gli altri due sono più lunghi.
Ho deciso di intervallare la lettura dei volumi con altri libri, che fossero il più lontano possibile dai classici. Non che non abbia apprezzato “I miserabili”, al contrario, ma ho bisogno di respiro fra una miseria e l’altra.


Monsignor Benvenue è Vescovo in una piccola cittadina di campagna. Avrebbe la possibilità di arricchirsi e vivere da nobile, ma preferisce donare tutto ai poveri e tenere per sé solo lo stretto indispensabile. Non c’è persona che egli non perdoni, è benvoluto da tutti e la sua porta è sempre aperta. Le uniche ricchezze che ha sono dei bei candelabri, che usa per far luce all’ora di cena, e delle posate d’argento.
Una sera giunge alla sua porta un uomo stanco e affamato che dice di chiamarsi Jean Valjean. Egli è stato appena liberato dai lavori forzati, cui era stato costretto diciannove anni prima per furto con scasso. La pena si è poi allungata dati i numerosi tentativi di fuga dell’uomo, che voleva tornare dalla sua famiglia. Aveva tentato di rubare per la sorella e i suoi figli, che morivano di fame.
Jean Valjean mangia alla tavola del Monsignore, beve il suo vino e si corica sul letto che gli è stato offerto, stupito dalla bontà dell’uomo. Nel paese infatti nessuno, né l’hotel né la taverna, avevano voluto ospitarlo, nonostante avesse il denaro per pagare. Nella notte, guidato dalla rabbia, Jean Valjean si approfitta dell’ospitalità del Vescovo e ruba i candelieri e l’argenteria ma, quando viene catturato e portato di fronte a Monsignor Benvenue, questi si comporta come se egli avesse fatto dono di quegli oggetti a Jean Valjean. Questi rimane colpito dalla bontà del Vescovo e giura a sé stesso di diventare pio e benevolo come lui.

Fantine è una ragazza bella e giovane, che ha consacrato il suo amore all’uomo sbagliato. Rimasta incinta e abbandonata, Fantine lascia Parigi e decide di tornare alla sua città natale, che nel frattempo ha avuto una rinascita economica grazie ad un uomo che ha investito nelle fabbriche, ha avuto successo e in seguito è stato nominato sindaco.
La ragazza sa che una figlia avuta fuori dal matrimonio le impedirà di trovare lavoro, così decide di lasciare la piccola Cosette ad una coppia, i Thenardier, che hanno una taverna nel paese vicino. In cambio di una grossa quantità di denaro questi accettano, promettendo di trattare bene Cosette.
Il segreto di Fantine viene presto scoperto e lei viene licenziata. Cerca di guadagnarsi da vivere in altri modi, mentre i Thernardier continuano a chiederle denaro. Fantine vende ad un barbiere i suoi bei capelli biondi, poi si fa cavare i denti bianchi, e infine decide di vendere sé stessa e diventa una prostituta.

Nella cittadina abita un poliziotto inflessibile, che ha dubbi sul sindaco della città. Quest’ultimo è generoso, coraggioso, aiuta i poveri e anche coloro che non lo hanno in simpatia. Il poliziotto Javert non ha comunque torto, perché il sindaco non è altri che Jean Valjean, che nasconde la sua identità e cerca di adempiere alla promessa fatta a sé stesso.
Scoperta la storia tragica di Fantine il sindaco cerca di aiutarla ma, nel frattempo, viene a sapere che un uomo, arrestato con l’accusa di furto, è da molti creduto Jean Valjean e per questo la sua pena verrà prolungata. Dopo molti dubbi il sindaco decide di salvare l’innocente e rivela la sua vera identità, ma non riesce a salvare Fantine, che muore a causa di un male che la affliggeva da tempo. L’uomo aveva promesso di riportarle la piccola Cosette, che i Thenardier tenevano in uno stato di miseria, ma viene arrestato e condannato all’ergastolo e ai lavori forzati.

Passano diversi anni ma Jean Valjean non si è dato per vinto. Ha la coscienza pulita perché ha fatto ciò che è giusto e sa che la pena è immeritata, inflitta solo perché il suo nome gli porta discredito, anche se la sua anima è cambiata. Non starà quindi alle leggi del mondo in cui vive. Finge la sua morte, recupera del denaro che aveva nascosto tempo prima, e salva Cosette dalla tirannia dei Thenardier.
I due raggiungono Parigi, cercando di lasciarsi alle spalle il loro passato.


Ad essere onesti, non credevo di potermi appassionare così tanto ad un autore che conosco così poco. A scuola non ho studiato Hugo, nonostante sia uno dei più importanti romantici della letteratura, e tutte le informazioni che ho reperito sono frutto di una ricerca su internet, fatta più per curiosità che per necessità. Da quel poco che ho letto però ho capito come mai Hugo si sia avvicinato a certi temi, il perché delle digressioni politiche, e ho anche avuto modo di apprezzare la figura storica che è stato. Ho scoperto che oltre ad essere stato un letterato è stato anche politico, filantropo e una figura di riferimento per gli artisti e per il popolo. Da come ne parlo avrete capito che mi sta simpatico.
Le sue idee sono meglio riflesse in questo romanzo senza troppi giri di parole, idee che potremmo analizzare anche oggi e trovare attuali; forse proprio per questo ho apprezzato il romanzo. I personaggi devono affrontare una società che gli è nemica, devono combatterla e quasi mai ne usciranno vincitori.
Potremmo trovare moltissime analogie fra ciò che succedeva all’epoca in cui si svolge il romanzo e alcune situazioni dei giorni nostri e questo è indice di una scrittura a mio parere molto intelligente, che può diventare universale in quanto tratta un tema che non smetterà mai di esistere. Da non confondere con una scrittura lungimirante, perché la storia e i suoi meccanismi sono strettamente legati alla sua epoca e non volutamente guarda al futuro, al contrario a me sembra che abbia guardato al passato e abbia trovato un punto di incontro – molto infausto, non c’è che dire – che unisce tutte le epoche.

“I miserabili” presenta le ingiustizie di cui il povero, l’ignorante e anche lo sfortunato sono vittima. Racconta come povertà e paura possono rendere un uomo audace al punto da compiere cattive azioni che, se punite, renderanno la persona ancor più rancorosa, se accettate o ignorate, più spavalda e pericolosa.
Hugo non difende queste persone ma condanna la società che li mette nelle condizioni di dover compiere atti estremi per sopravvivere, denuncia poi come questi vengono allontanati dalle persone, di modo che per loro diventi impossibile guadagnarsi da vivere – vedi il protagonista, Jean Valjean. Così si viene a creare un circolo vizioso, in cui coloro che una volta hanno commesso un crimine sono portati a rifarlo, ancora e ancora, e a subire la stessa punizione all’infinito, che sia la condanna penale o morale – o entrambe. Allo stesso modo denuncia lo sfruttamento dei più ingenui e indifesi, condanna la cecità dell’uomo, la sua fame di odio, perché un redento che ha pagato per i suoi errori e cerca di rimediare verrà sempre visto e perseguitato, perché la gente non dimentica la malvagità e la ripaga con altra malvagità, mentre al contrario dimentica in fretta la benevolenza.
Non si pensi però che l’autore difenda a spada tratta questi personaggi, egli riconosce che esiste una fetta di persone malvagie, che nonostante la possibilità di vivere nell’onestà scelgono la via più buia per avidità, o per semplice cattiveria – come i Thernardier – e questi li condanna come le peggiori persone.

Aldilà di queste sopraelencate, che possono essere opinioni, ciò che rende “I miserabili” un libro vicino a chiunque è l’analisi dell’animo umano. Forse la parola analisi non rende bene l’idea, fa pensare ad un processo unicamente scientifico, ma non è solo quello. Hugo studia la persona tramite i suoi personaggi, ne rivela ogni sfumatura, dalla più oscura alla più radiosa. Lo fa in modo così preciso che in un primo momento ci viene da pensare che si tratti sì di una ricerca accademica, la materia trattata però rende l’analisi instabile, imprevedibile, sorprendente – nel bene e nel male.
Questo è quello che rende il libro intramontabile, perché forse oggi la società è diversa e non è diffusa come allora la necessità di rubare perché si ha fame, di ingannare perché si ha paura, di essere malvagi perché non si ha altra scelta. Oggi abbiamo altri mali, ma rimaniamo persone così come Hugo ci ha descritti.

martedì 7 febbraio 2017

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AVVENURA
Tutti i lettori hanno un genere che preferiscono, e anche gli autori. Infatti molto spesso si parla di un autore affermato come «uno scrittore di thriller» o, «un’autrice di libri di fantascienza». Però se ripenso a ciò che ho scritto io e che mi piace scrivere, non saprei collocarmi in un nessun genere. Ho scritto racconti horror, thriller, una storia ambientata in un presente distopico e, una volta, un racconto con ambientazione storica. Amo cambiare genere, così come amo provare nuovi ristoranti e visitare sempre una città diversa.
Mi piace cambiare e non voglio inserirmi in nessuna categoria. Ma mi chiedo, sarà una cosa buona?

Trovare un genere che piace e su cui preferiamo scrivere la maggior parte dei racconti o romanzi che abbiamo in mente ha i suoi vantaggi. Si imparano più in fretta gli stilemi, quali sono e come usarli, quali sono i più apprezzati e quali sono diventati scontati. Si può avere più consapevolezza di ciò che stiamo scrivendo, capire se è un lavoro originale o se ricalca i vecchi classici del genere. Però in questo modo un autore rischia, con il tempo, di ripetersi. Non possiamo pretendere che tutti i romanzi siano meravigliosi se le tematiche, i personaggi, le situazioni – che per forza di cosa devono seguire le linee guida del genere che ha scelto – sono simili fra loro.
Scrivendo questo post ho pensato a quale sarebbe ‘il male minore’: rischiare di ripetersi o non avere una completa visione del genere che si sceglie? Alla fine mi sono arresa perché questa è una di quelle domande che non hanno risposta. O meglio, che hanno quella riposta detestabile che si applica per molti – troppi – casi: dipende.
Dipende da cosa vogliamo come autori.
FANTASY
A meno di non essere dei geni tutti dobbiamo applicarci e impegnarci. Avere un genere di riferimento su cui basarsi e costruire solide fondamenta per la propria scrittura è il modo più sicuro, veloce e semplice per farlo. Se vogliamo diventare il prossimo autore di punta di una casa editrice, allora probabilmente dovremmo trovare un nostro genere, studiarlo a dovere e applicarci quasi esclusivamente a quello per eccellere e ottenere dei risultati. Se non ci interessa poi così tanto pubblicare, o non vogliamo farlo il prima possibile, o ancora siamo una di quelle rarissime persone che scrivono per sé stesse e sono contente così, allora non c’è obbligo di trovare una collocazione. Possiamo permetterci di sperimentare, il che ci dà la possibilità di conoscere un po’ tutto – ma badate, un po’ meno.

Il discorso mi spinge verso una domanda. So che cosa sto facendo, ma che cosa è mio desiderio fare? Quali sono le mie priorità nella scrittura, che cosa voglio da me stessa come autrice?
Ammetto che mi piacerebbe poter rendere questa passione se non un lavoro che porta guadagno, almeno una parte del mio lavoro, dargli una sede più centrale nella mia vita. Ma non voglio forzarmi, non voglio che diventi una missione, voglio che sia un obiettivo. Darò alla mia scrittura lo spazio e i tempi che gli ci vogliono per maturare. In questo momento è ancora in una fase esplorativa, deve conoscere il mondo e capire qual è il suo posto. Quindi ora va così: sperimento, viaggio, conosco, e forse un giorno mi fermerò sull’isolotto che ho trovato più bello.

HORROR