domenica 24 agosto 2014

Parco Natura Viva

   A voi un piccolo show fotografico del “ParcoNatura Viva”, un parco faunistico bellissimo in cui sono andata qualche giorno fa (vi ho messo anche il link al sito, se cliccate sul nome, nel caso vogliate darci un’occhiata).
   Ci sono due parchi, il primo, più piccolo, è quello in modalità safari, visitabile in macchina. Se per caso arrivate in treno potete affittare lì una macchina e fare il giro del parco. Il secondo si visita a piedi, ed è come uno zoo normalissimo, tranne per il fatto che è il più grande che abbia mai visto o visitato! Persino più grande dello zoo di Londra (che comunque era molto bello, anche per il solo fatto di essere a Londra – sì sono di parte!) e più grande del parco delle Cornelle!
   Purtroppo la mia macchina fotografica mi ha bluffato la sera prima di partire perché ha fatto finta di essere del tutto carica, quando invece la carica stava per esaurirsi, quindi ho potuto fare pochissime foto, ma ecco a voi, fra quelle che ho fatto, le mie preferite:





Questo ora è il desktop del mio pc!

Qui non siamo più al safari.
In questo spazio c'erano anche i rinoceronti, ma erano in quel momento invisibili, probabilmente nascosti all'ombra o appallottolati a forma di roccia.
Questi sono i piccoli Timon!
Dal vivo sono carinissimi! Viene voglia di rubarne uno...
Lui si era messo in posa in mezzo alla cornice di rami proprio per me
(o almeno, così mi piace pensare).

Okay, questa foto è sleale, l'orso andino è tutto sfocato, lo so.
L'ho messa perché è involontariamente venuta artistica, e molto bella!
L'orso mi guardava, e io ho fatto la foto con il massimo della zoom,
la macchina fotografica però ha dovuto pensare
"Oh, la Patty non vede l'ora di fotografare quelle belle foglie verdi,
mettiamole bene a fuoco!"

giovedì 21 agosto 2014

Papà Gambalunga - Jean Webster

   Prima di leggere questo libro, se qualcuno mi avesse detto che poteva proiettarmi nel passato per una giornata, a quando avevo cinque anni, avrei risposto subito di sì. Sarei stata curiosa di rivivere una giornata tipo della mia infanzia con il senno di poi, per ricordare che cosa facevo e com’erano le cose una decina di anni fa, quando a me tutto sembrava grande – le persone erano tutte alte, le stanze tutte grandi e quella zia ora sempre musona e acida, solare e divertente. Sarebbe curioso rivedere tutto con una consapevolezza più adulta, no?
   Lo pensavo, ma ho cambiato idea.
   Se me lo domandassero ora, risponderei di no senza riserve! È più bello lasciare le nostre passioni infantili nella bruma dorata e poco dettagliata cui appartengono ora, anche solo per non rischiare di rimanere delusi dalla realtà. Se non indaghiamo oltre, potremmo ad ogni momento pescare uno qualsiasi di quei ricordi e godercelo appieno, senza vederne gli spigoli e gli angoli bui.
   Sono decisamente andata a immergermi in un angolo buio, leggendo questo libro, ma ho imparato la lezione e credo che da ora in po’ non mi fionderò a bomba su tutti i classici da cui hanno preso spunto per i cartoni animati che guardavo da bambina.
  Come ad esempio “Papà Gambalunga”.
 
 
   Uno dei ricordi che ci portiamo dietro di più a lungo sono i programmi che guardavamo da piccoli.
   Mia madre mi racconta ancora oggi con occhi rapiti di quando guardava i Flinestones o ascoltava per radio i racconti a puntate. Io ricordo che uno dei cardini della mia giornata era guardare i cartoni animati prima di andare a scuola (o litigarmi il telecomando con mio papà che voleva vedere il telegiornale. Vinceva sempre lui, anche se io cercavo di convincerlo dicendo «Ma succedono solo cose brutte!» Chissà perché la cosa non lo tangeva).
   Per questo motivo, immagino, quando sono venuta a sapere che “Papà Gambalunga” era in realtà un romanzo ne sono stata elettrizzata. Non appena ne ho avuta in mano una copia ho iniziato a leggerla, chiedendomi come avevo fatto a non scoprirlo prima.
 
   Dire che sono rimasta delusa da questo libro è un eufemismo. Non è che io sia delusa, si è delusi quando non va come ci si aspetta. Questo libro non va e basta! Tanto per capirci, non ho nemmeno bisogno di raccontarvi la trama, perché a parte due avvenimenti all’inizio e alla fine del libro, non succede proprio un cavolo!
   Una forma epistolare disordinata e decisamente infantile è stata scelta per il romanzo. Dovrebbe semplicemente essere una lettera al mese, e questo mi porta a pensare che ogni capitolo sia formato da una lettera, che racconta cos’è accaduto nei trenta giorni passati e basta. Invece no, forse non era abbastanza divertente da scrivere, in quel modo! È come se ogni lettera venisse cominciata e ripresa ogni tre o quattro giorni, con aggiornamenti sulle date e postille. Più che delle lettere sembrano un diario. A questo punto, mi dico, sarebbe stato molto meglio un diario: almeno avrebbe avuto senso!
 
Jean Webster
 
   Jerusha Abbott è una delle orfanelle più grandi al John Grier’s Institute, studia e aiuta all’orfanotrofio. I suoi risultati scolastici vengono notati da un misterioso benefattore dell’orfanotrofio, che si propone di pagarle la retta dell’università in cambio di suo notizie ogni mese.
   Jerusha inizia così a scrivere le lettere, raccontando come va la vita universitaria. Il nomignolo che sceglie per il suo benefattore è Papà Gambalunga, poiché di lui ha visto solo la sua ombra stagliarsi sulla parete al tramontare del sole, e le gambe dell’uomo erano particolarmente allungate.
   Dopo quattro anni di serena università, Jerusha – che alla terza o quarta lettera cambia nome in Judy, non si sa perché – non sembra aver maturato alcuno spessore come personaggio. È piatta e prevedibile, nelle sue lettere passa tutto il tempo a raccontare di cosa fa con le sue amiche nell’istituto e con altri amici durante le vacanze estive. Non accade nulla di rilevante fino alla fine, quando un suo caro amico di cui parla spesso la chiede in sposa. Jerusha rifiuta, senza nemmeno sapere il perché, dato che anche lei è infatuata dell’uomo, e scrive a Papà Gambalunga per chiedere consiglio. È allora che scopre che Papà Gambalunga è l’uomo di cui è innamorata.
   Fine.
 
   Quando mi sono lamentata della piattezza del romanzo, mia mamma mi ha sgridata e mi ha detto: «Non stai pensando quadirmensionalmente Patty!»
   A suo parere Judy e Papà Gambalunga non potevano stare assieme senza dare scandalo, perché lui era una sorta di tutore, per questo lui ha tenuto la sua identità segreta.
   Insomma, mi sta bene, ma anche se il libro è ambientato in un epoca in cui tutte le cose divertenti erano proibite, anticristiane o scandalose, non significa che non debba succedere assolutamente nulla!
   Allora, tanto per essere chiari – credo che sia la prima volta che lo dico – non leggete questo libro. Dico sul serio. Non leggetelo. Sarebbe una perdita di tempo, di denaro e arrecherebbe solo quel malessere impotente di cui siamo vittime noi lettori seriali: la sensazione che sia tutto sbagliato, ma noi non possiamo farci nulla!
 
Judy Abbott
come voglio ricordarla:
nel cartone animato!
 

giovedì 7 agosto 2014

Shining - Stephen King

   “Shining” è uno di quei titoli che senti in continuazione, e ogni volta che lo senti ti dici: «Dovrei leggerlo, prima o poi.» Invece non lo leggi mai finché qualcuno non te lo mette fra le mani, perché quando vai in libreria, deciso a comprarlo, «oh!, guarda le offerte: tutti i libri a cinque euro!», e quando li ritrovi tutti quei libri a cinque euro? In fondo, “Shining” lo vendono tutti. La stessa cosa accade con il film, o per lo meno la stessa cosa è accaduta a me. Ogni volta che beccavo il film in seconda serata morivo di sonno, e gli interminabili minuti in cui il bambino si fa kilometri di hotel in triciclo nel silenzio più totale non aiutano affatto (come d’altronde nemmeno i primi piani di un Jack Nicholson allucinato).
   Non avrei mai letto “Shining” se qualcuno non avesse deciso di disfarsi di qualche libro e il mio fidanzato non me ne avesse portati a casa una dozzina. Le braccia cariche e gli occhi tondi scintillanti (solo perché la maggior parte erano firmati Stephen King), come se avesse trovato un cagnolino per strada e lo avesse raccolto. Faceva la faccia tenera – perché sa che non abbiamo più scaffali da riempire – e chiedeva: «Possiamo tenerli? Per favooore
 

   Ebbene, è stato uno di quei casi in cui, terminato di leggere, ho pensato: «Be’, almeno era gratis.»
 
   Devo ammettere forse di essermi fatta un po’ troppe aspettative riguardo a questo libro, ben sapendo che l’azione doveva essere limitata visto che parliamo di tre persone isolate dalla neve per sei mesi! Ma non è corretto da parte mia essere così severa, perché ci sono state parti che mi sono piaciute molto.
 
 
   Jack Torrance è un aspirante scrittore, ex alcolista, che ha perso il lavoro da insegnante perché, preso dalla collera, ha picchiato uno dei suoi studenti. L’unico lavoro che riesce a rimediare è quello all’Overlook Hotel, un albergo in montagna che rimane chiuso per la stagione invernale poiché inagibile a causa della neve, che lo isola da ogni cittadina vicina. Il suo compito di guardiano è quello di scaldare a turno tutte le aree dell’albergo e occuparsi della caldaia, abbassando la pressione tre o quattro volte al giorno per impedire che scoppi. Così Jack Torrance e famiglia, la bella moglie Wendy e il piccolo Danny di soli cinque anni, si trasferiscono all’Overlook Hotel.
   Presto i nuovi inquilini scoprono che l’albergo ha un passato oscuro. Molti delitti vi si sono consumati, fra omicidi e suicidi, e l’albergo è diventato un luogo malvagio. Impregnato del male e della morte stessa, desidera trascinare sempre più persone tra le fila dei suoi fantasmi e il piccolo Danny è un candidato ideale grazie al dono che possiede, lo shining.
   Lo shining permette a Danny di leggere nel pensiero, di avere visioni del futuro e di comunicare con altri che hanno il suo stesso potere, anche a miglia di distanza. Crede di essere l’unico prima di incontrare Dick Halloran, il cuoco dell’Overlook, che mentre illustra a Wendy il funzionamento della cucina vede in Danny lo shining e gli confessa di averlo anche lui.
   A metà Dicembre una delle tante nevicate della stagione si rivela quella decisiva. Rinchiude la famiglia Torrance nell’Overlook Hotel, e allora l’albergo scatena la sua invettiva contro di loro. Le siepi innevate del giardino, a forma di cane e di leone, li attaccano per poi tornare immobili come semplici arbusti, facendo credere a Jack di essere impazzito. Le feste di capodanni passati si risvegliano nei saloni da ballo e lasciano strascichi di coriandoli e festoni come se si fossero tenuto la sera prima. Fantasmi di morti si alzano e cercano di strangolare Danny, oppure con lusinghe e inganni, tentano di convincere Jack a uccidere i suoi cari.
   Confuso e ammaliato dal potere dell’Overlook, Jack Torrance si convince che l’unica colpevole della sua vita andata a rotoli è Wendy, che gli ha impedito di affermarsi come scrittore, che lo ha spinto all’alcolismo, che gli mette contro suo figlio Danny. Deve ammazzarla. E con lei, anche il bambino, secondo fautore della sua sconfitta. Dopotutto, l’hotel non vuole loro, ma lui, è lui quello importante. Ma per dimostrare di essere all’altezza deve ucciderli. Loro non amano l’Overlook come lo ama lui, loro volevano andarsene quando Danny ha iniziato ad avere le visioni. La pagheranno cara per quello, Jack li ucciderà e farà bella figura con il direttore dell’albergo.
   Ormai folle, l’uomo li attacca, ma Danny ha chiesto aiuto a Dick Halloran grazie ai suoi poteri telepatici. Questi li raggiunge dall’altra parte del paese e li porta fuori dall’hotel appena prima che questo esploda a causa della caldaia, che Jack aveva trascurato.
 
Ecco cosa intendevo prima con "facce allucinate".
   Se verso la fine il libro diventa incalzante, mi spiace dire che per le duecento e passa pagine prima, è terribilmente lento. Ho saltato alcune parti a piè pari riprendendo la lettura poco più avanti, e non me ne sono affatto pentita. Mi è piaciuto molto come sono stati delineati i personaggi e la conclusione è perfetta.
   L’unica pecca è che è uno di quei libri che non rileggerei mai. Sì, carino, ma tutto qui.
   Non fraintendetemi, sono sicura che sia un classico dell’horror e magari anche uno dei lavori meglio riusciti di King, ma forse non è il libro che fa per me.