lunedì 28 agosto 2017

Praga

Ogni tanto vi ammorbo con dei post diversi dal solito, questo potrebbe persino essere utile! A voi un piccolo prontuario di informazioni su una delle più belle città che io abbia mai visitato e che ho visto per la prima volta quest’estate: Praga!
Se avete in programma un viaggio e non sapete quale meta scegliere, vi consiglio Praga. Se un giorno il Diavolo vi tenterà e vorrete spendere quel gruzzolo che giace lì per cose importanti come la pensione, andate a Praga. Ne varrà la pena, e forse scoprirete che volete passare lì, dopotutto, gli anni della pensione.

Il cimitero ebraico
Prima cosa da sapere su Praga, è molto piccola e i mezzi di trasporto sono sì utili ma, a volte, superflui. Quando ho prenotato l’albergo ero preoccupata perché si trovava nella zona di Praga2, mentre la zona da visitare era a Praga1. Siccome il prezzo era buono ho pensato “Pazienza anche se è un po’ lontano, ci sono sempre i mezzi pubblici”. Una volta lì ho scoperto che le zone non sono assegnate per distanza dal centro. Tanto per farvi capire, il primo giorno a pranzo io e Il Fidanzato abbiamo visto che una delle nostre mete culinarie (la birreria U Fleku) era poco distante dall’hotel. Abbiamo deciso di andarci a piedi e, dopo mangiato, abbiamo visto che il centro era a quindici minuti di cammino da lì. Insomma, abbiamo fatto una passeggiata giusto per digerire e ci siamo ritrovati in pieno centro storico! Morale della favola? Non spaventatevi se trovate alloggi a Praga5 o Praga6, quattro fermate di metro e siete in centro.
Seconda cosa che mi ha colpita della città: il 90% degli edifici sono meravigliose costruzioni storiche! E qui si richiede una deviazione.
Per una serie di vicissitudini al mio compagno hanno regalato almeno una ventina di guide del National Geographic, quindi prima di visitare la città mi sono letta gran parte del libricino e ho scoperto che Praga è stata una delle città europee meno colpite dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, quindi tantissimi edifici risalgono all’epoca romanica o rinascimentale, mentre la maggior parte delle facciate è degli anni ‘20 o ‘30 del secolo scorso. Sono state rifatte per seguire il gusto dell’epoca, ma dato che gli edifici erano ancora in ottime condizioni, non hanno ritenuto necessario abbatterli.
Girare per le strade è bellissimo, in ogni dove ci sono palazzi con decorazioni splendide e tutte diverse!

Il palazzo reale
Ci sono due quartieri che mi sono piaciuti moltissimo, la Città vecchia (Stare Mesto) e il quartiere ebraico (Josefov).
Nella Città Vecchia l’attrazione più importante è la piazza detta appunto “della città vecchia”, nella quale potersi rilassare e dove attendere lo scoccare dell’ora dell’Orologio Astronomico, che si trova all’esterno del municipio. Già di per sé è un bellissimo orologio, ma ogni ora si aziona un meccanismo e si possono vedere i pupazzi situati ai lati e all’interno della struttura muoversi.
Attaccata a Stare Mesto c’è Mala Strana, il quartiere minore. In queste stradine ci si perde facilmente, ma va bene lo stesso perché sono tutte vie molto piccole, tortuose e pittoresche, dove si possono trovare bei negozi, bar o ristoranti. In questa zona l’ultimo giorno io e il mio compagno abbiamo scovato una caffetteria che vendeva cioccolatini artigianali. Abbiamo fatto la seconda colazione, come gli hobbit, e anche comprato dei regali commestibili!
Da qui Josefov è a due passi, ed è ricca di monumenti da visitare.
A questo punto ci tengo a precisare una cosa, ogni singola visita è a pagamento, anche quelle agli edifici sacri. Per il giro delle sinagoghe abbiamo pagato poco più di 10 € a testa. Non molto, se penso che abbiamo visitato cinque o sei sinagoghe, il cimitero ebraico (decisamente suggestivo!) e ci siamo imbattuti in un signore anziano, nella sinagoga Vecchia Nuova, che ci ha raccontato un po’ di storia. L’ha tirata per le lunghe, è vero, ma è stato comunque piacevole incontrarlo! Abbiamo scoperto che la leggenda narra che le pietre della sinagoga Vecchia Nuova sono arrivate direttamente da Gerusalemme, trasportate dagli angeli. Inoltre ci ha spiegato che la torre appena fuori dall’edifico è fornita di due orologi per un motivo ben preciso: quello più in basso era per gli ebrei, che leggono l’ora al contrario, infatti le lancette scorrono verso sinistra, invece quello più in alto era stato installato lì perché anche tutti gli altri potessero leggerlo, ed è lì situato perché si vedesse da oltre le mura del quartiere ebraico.
A Josefov pullulano ovunque rimandi alla leggenda del golem. Io ho comprato un magnete a forma di golem da attaccare al frigo, per arricchire la mia collezione di magneti da ogni parte del mondo, ma c’erano bar e ristoranti dedicati al golem e al rabbino che lo creò, Judah Loew, disegni, fumetti e quant’altro.
Vista dal Ponte Carlo
Ultima info da guida, ossia un altro posto bellissimo da visitare: il castello di Praga! La strada che porta al castello è una via in salita, tortuosa, con i marciapiedi stretti, curve che impediscono la visuale ed è piena di piccoli negozi che vendono oggetti in legno, burattini, vari gadget della città (l’oggettistica più in voga è quella con Alfons Mucha) e ristorantini. Insomma, l’ho adorata. Lungo tutta la strada il castello incombe su di noi, arroccato su un altura e, quando vi si arriva, la prima cosa che vien voglia di fare è rivolgere lo sguardo alla città sottostante, che si estende tutta ai nostri piedi (in quel momento si capisce come mai il castello sorge proprio lì, in effetti era una sistemazione strategica). In un museo che si trova nella piazza sulla quale dà anche il castello, una guardia museale molto gentile ci ha portati fino alla finestra dalla quale abbiamo potuto vedere il cambio della guardia, che viene fatto tutti i giorni ma solo a mezzogiorno. Altre cose da vedere all’interno sono di sicuro la Cattedrale di San Vito, talmente alta da far venire il torcicollo a forza di osservare le guglie più alte, il Palazzo Reale, che dimostra che l’architettura più è semplice più comunica un senso di solennità, e il mio preferito: il Vicolo d’Oro. In questa stradina gli alchimisti avevano aperto i loro negozi, alla ricerca della formula per trovare la Pietra Filosofale, oggi c’è un museo di armi e armature medioevali e ogni casetta è una ricostruzione delle case realmente esistenti, con tanto di cartello di presentazione degli abitanti.
Uscendo dal castello si può riattraversare la Moldava passando dal Ponte Carlo, che vene costruito per rimpiazzare un ponte più antico distrutto a causa di un’inondazione. Il ponte è pieno di statue di santi e la struttura è ormai annerita dal tempo, ma trovo che faccia parte del suo fascino.

Passando ora a cose diverse, qualche curiosità.
Adoro assaggiare il cibo che non conosco e da questo punto di vista a Praga mi sono trovata benissimo! Oltre a mangiare bene a prezzi modici ho assaggiato piatti che non avevo mai mangiato. I nuovi sapori stanno nelle piccole cose, non tanto nei piatti di carne, che sono una rivisitazione dei nostri stufai (il famoso gulash non è altro che quello) ma ho scoperto la una salsina bianca al rafano piccantissima e, per la seconda volta in vita mia, ho apprezzato una birra! Non amo il sapore amarognolo della maggior parte delle birre, ma quella che servono a Praga è meno amara, molto corposa, una birra scura che persino io ho bevuto più che volentieri. In ceco si chiama ‘pivo’ e viene solo 35 corone (meno dell’acqua, circa 1,30 )! Oltre a queste cose dovete assolutamente assaggiare un dolce tipico, il trdlo. Si tratta di un impasto dolce a base di farina e spezie, che viene arrotolato e cotto allo spiedo, finisce per assomigliare a un cannoncino gigantesco. Può essere servito così, oppure con qualcosa all’interno. Io l’ho preso con dentro della frutta e sopra del gelato alla crema, buonissimo!
Altre curiosità che ho notato è che le guardie museali erano tutti anziani. Non anziani come un sessantenne che si avvicina alla pensione, anziani come una persona che si è già ritirata da tempo. Non so se si tratti effettivamente di lavoratori o di un servizio per gli anziani, che comunque li tiene impegnati in un lavoro poco faticoso (c’erano sedie in ogni stanza dove potevano riposarsi), oppure se l’età per il pensionamento è molto, molto più avanzata rispetto alla nostra. Fatto sta che è una cosa che ho trovato curiosa.

Ora vi lascio, dopo questo post lunghissimo che potrebbe avervi ammorbato, ma nel caso qualcuno di voi abbia in programma un viaggio a Praga, be’… divertitevi! Avete fatto un’ottima scelta!

venerdì 18 agosto 2017

Penna alla mano #5: Scrivere di getto o pianificare?

Da un po’ volevo scrivere questo post, solo che non ero sicura se affrontare l’argomento. Oltre ad essere dibattuto è anche molto comune e non volevo scrivere l’ennesimo post sullo stesso argomento.
Ho letto spesso articoli che si chiedevano quale fosse il metodo migliore per ideare la trama di un romanzo, se progettarla tutta prima o andare avanti a ispirazione senza un progetto. Ogni autore ha un’opinione diversa in merito, ma penso che tutti ci possiamo trovare d’accordo nel dire che questa è una di quelle cose che cambia di persona in persona. Il metodo che per me è perfetto per qualcun altro può essere un totale fallimento, e viceversa.
Con i racconti brevi è semplice, la trama è poca ed è logico conoscere sin dall’inizio la fine della storia. Un romanzo richiede qualche riflessione in più sulla trama.
Quando ho scritto la mia prima storia lunga sono andata un po’ a tentoni, ma in seguito ho provato altri metodi. Mi sono resa conto che il primo, che avevo adottato per pura inesperienza, era quello che più si confaceva al mio modo di scrivere, anche se necessitava di qualche aggiustatina.

Le mie storie nascono sempre da un’idea che, molto spesso, si può riassumere in una domanda. Ad esempio mi chiedo cose come: “Che succederebbe se le nostre ombre prendessero vita?” o “E se in realtà oltre questa nebbia fittissima non ci fosse nulla? Se scendessi dall’auto e mi ritrovassi su un baratro nello spazio?”. Non penso mai che vorrei scrivere una storia di fantascienza o d’amore, o con uno stile predefinito, l’idea è sempre ridotta all’osso ed è un punto di partenza vago, da cui potrebbe nascere qualsiasi cosa.
Con queste premesse l’inizio della trama è facile da scrivere, è la necessità di ricreare un mondo o una situazione in particolare, mettere in gioco dei personaggi che possano sviluppare la problematica che mi ha interessato. In principio so che cosa deve succedere e come voglio che succeda, la maggior parte sono scene atte a inserire il lettore nella storia, a fargli conoscere i protagonisti, quindi ciò che accade non è ancora lo svolgimento centrale ma un preludio ad esso, un cominciare a intrecciare i fili, con una trama che si scorge appena.
Programmo la trama, infatti inizio a scrivere solo dopo aver messo giù qualche riga a mano su cosa voglio che accada, come voglio i personaggi e i punti fermi del romanzo, quelli su cui la storia poggia le sue basi (ossia la fatidica domanda che mi pongo prima di iniziare a scrivere). In questa fase non ho una fine del romanzo, se è per questo neanche una metà, ho ben delineato l’inizio.
Da qui inizia il lavoro più difficile, ma anche il più divertente.
Scrivo questa prima parte e so che più andrò avanti più le cose si complicheranno. Cominciano ad esserci dei vincoli nella storia, i personaggi hanno delle leve che li fanno muovere in questa o in quell’altra direzione. Devo inventare la trama in base a tutto ciò e ho dei punti fermi che ho bisogno mantenere. In questo lasso di tempo, mentre scrivo la prima parte di storia, di solito mi sono già venute in mente nuove idee su come farla continuare. A volte è un processo naturale, i personaggi hanno fatto delle scelte e ciò che segue sono le conseguenze di queste, oppure mi viene in mente qualcosa da aggiungere alla storia che darà una svolta alla trama, altre volte devo cercare la soluzione pensando a varie alternative, cercando un modo per cavare i protagonisti dallo stallo.
Dopo aver scritto l’inizio scorgo la continuazione ben chiara, ma solo a breve termine, mentre ho una vaga idea della direzione. In effetti è un po’ come guidare con la nebbia, vedi la strada subito davanti a te e sai che a cinque metri c’è un dosso, intravedi un semaforo, ma dopo? Lo scopri andando avanti.
Quando scrivo da un po’ capisco di che tipo di storia si tratta, se deve avere un finale felice, o triste, o amaro (spoiler: con me felice del tutto quasi mai, se non ci scappa il morto c’è almeno qualcosa di brutto con cui i protagonisti devono imparare a convivere, e comunque di morti ce ne sono già stati in precedenza). Il finale nel dettaglio lo scopro come il resto della trama, scrivendo, ma sapevo già di voler arrivare a quel punto. Ancora una volta mi viene utile il paragone della nebbia: conosco la meta, ma non la strada.


Ora, a voi: come scrivete la trama dei vostri romanzi? La programmate tutta in anticipo e dopo iniziate a scrivere? Oppure vi lasciate ispirare dalle sensazioni del momento? Siete un po’ simili a me, e la programmate poco alla volta? O avete ancora un altro metodo?

giovedì 10 agosto 2017

Il genio e il golem - Helene Wecker

Finalmente trovo del tempo per parlare di un romanzo che ho letto in un baleno e che ho adorato tantissimo, ma del quale non sono ancora riuscita a scrivere la recensione. Un po’ è stato per mancanza di tempo, poi per il pc che ha deciso infine di dirmi addio (vi scrivo da un nuovo pc, regalato in gran gruppone da Famiglia e Fidanzato per il compleanno), e alla fine perché sono andata in ferie e mi sono staccata da tutto.
Ma eccomi di ritorno, ed ecco che finalmente posso sbrodolare il mio aMMore per “Il genio e il golem”, di Helene Wecker.


Siamo nel 1899, in una cittadina dell’est Europa. A Jehuda Schalmaan, un ex rabbino caduto in disgrazia che si è lasciato sedurre dai segreti della quabbala, viene commissionato un golem con fattezze di donna, destinato a diventare la moglie di un giovane ereditiere di incredibile stupidità. L’uomo è infatti riuscito a perdere tutto il suo patrimonio in pochi anni, così usa gli ultimi averi per una moglie fantoccio e un biglietto di sola andata verso New York.
Il golem viene creato, imbarcato in terza classe, e lì gli viene dato il soffio della vita. Il suo padrone muore a bordo del transatlantico a causa di un’appendicite che aveva trascurato e la creatura sbarca a Staten Island, trovandosi in una città immensa, in mezzo a persone in carne e ossa. Non sa come comportarsi, dove andare, e i desideri della gente che percepisce a causa della sua natura la disorientano e la esasperano, come un mormorio in costante crescita nel cervello.
Proprio mentre la golem sta per perdere il controllo un uomo gentile la aiuta e la porta via con sé. Si tratta del vecchio Avram Meyer, un rabbino ben inserito nella comunità ebraica di New York. Intuisce che la golem non è un essere umano e, un po’ per proteggere lei, un po’ per proteggere gli abitanti della città, la prende sotto la sua ala. Le insegna come vivere, le trova un lavoro in un panificio e intanto studia un modo per darle la possibilità, se lei lo desidera, di legarsi a un nuovo padrone. La golem è infatti bombardata dai desideri di tutti gli umani, non avendo più un unico padrone da servire, e dal costante bisogno di soddisfare le più disparate necessità: la fame dei bambini per strada, il bisogno di denaro, la solitudine, la paura che avverte negli altri.
In ultimo, prima di lanciarla nella chiassosa e vivissima New York, il rabbino Meyer dà un nome alla golem: si chiamerà Chava, che significa vita.

Siamo nel quartiere turco di New York, un isolato in cui sembra di entrare in un mondo differente. Le insegne dei negozi sono scritte in turco, il profumo che aleggia nell’aria è speziato e colpisce le narici, l’inglese lascia il posto ad altre lingue e tutto ciò si mischia fino a formare una comunità piccola ma unita e forte, in cui le tradizioni vengono onorate e nessuno è mai lasciato a sé stesso.
In questo ambiente lo stagnino Boutrous Arbeleey vede comparire una creatura che, da millenni, è leggenda. Un djinn, un genio del deserto, compare nel suo negozio dopo che lui tenta di incidere un’oliera che deve riparare. L’essere non sa perché si trova lì dentro, né come ci sia arrivato, sa solamente di essere prigioniero, ma non sa dove sia né chi sia il suo aguzzino.
Restio a far parte della comunità, il genio comincia suo malgrado a inserirsi quando si rende utile in bottega forgiando piccoli gioielli in rame o argento con il solo calore delle mani. Ma la sua curiosità e la voglia di libertà sono tali che si trova a esplorare tutta New York, dai tetti in cui si rifugiano i disgraziati, ai palazzi imponenti dei ricchi, fino a giungere al quartiere ebraico.
Lì il genio, che si fa chiamare Amhad, fa un incontro che determinerà non solo la sua esistenza, ma anche quella della strana creatura che vede per la prima volta di sfuggita, e che scappa di fronte a lui. Una donna fatta di terra.


Helene Wecker
È passato un bel po’ di tempo da quando ho letto questo romanzo ma spero di riuscire a parlarne come si deve perché se lo merita. In tutta onestà, è passato talmente tanto di quel tempo che non so bene da dove cominciare.
Ero scettica all’inizio, la trama sembrava interessante ma avevo anche paura di imbattermi in un romanzo poco curato e pieno di cliché, il classico romance soprannaturale che si trova oggi e che io non amo. Lo presi in biblioteca pensando che, al massimo, lo avrei restituito di lì a poco. Invece sin dalle prime pagine rimasi affascinata e continuai a leggere.
Lo stile è scorrevole, semplice, privo di fronzoli, ma con un linguaggio concorde all’epoca in cui si trovano i protagonisti. Una delle prime cose che si notano è il lavoro di informazione che la Wecker ha eseguito, sia sulle usanze e le tradizioni delle due culture (quella musulmana e quella ebraica) dal cui folklore ha attinto, sia riguardo alla New York di fine ‘800. ‘Il genio e il golem’ trasporta in quell’epoca, in quella città.
Penso che metà di questa magia sia compiuta dall’abilità dell’autrice, ma l’altra metà è tutta dovuta alle descrizioni, ai dettagli riguardo luoghi e usanze. Con un contesto vago o un’accuratezza minore non si avrebbe avuto lo stesso risultato, la stessa sensazione di essere lì, la voglia di poter tornare indietro in quel tempo, in quel luogo. Personalmente avrei tanto voluto potermi trasportare a New York, nel 1899, per incontrare tutti i meravigliosi personaggi di questo romanzo.

Una menzione particolare va ai personaggi, perché sono tanti e tutti splendidamente raccontati.
I protagonisti hanno caratteri molto diversi ma quello che mi piace è che hanno un background, insegnamenti ed esperienze, che li hanno formati per essere così. I loro pensieri, il modo di agire e interagire con quel mondo circostante che non conoscono, dipende da questi insegnamenti, strettamente legati alla loro natura di golem e di genio. Chava ad esempio è molto attenta alle conseguenze delle sue azioni perché, percependo i desideri delle persone, capisce benissimo che ogni suo movimento, parola detta o non detta, ha delle ripercussioni sugli altri. Al contrario Ahmad è abituato a vivere libero nel deserto, è insofferente alla prigionia e non è interessato agli esseri umani, che vede come esseri inferiori e talvolta pericolosi. Per questo esplora la città, per sentirsi libero, per questo esaudisce ogni suo capriccio senza curarsi degli altri.
I personaggi di contorno poi sono molto accurati. Le loro storie vengono raccontate senza fretta, come se fossero racconti nel racconto, ma alla fine tutti i fili si intrecciano a formare una fune. Mi è piaciuto leggere soprattutto della comunità turca di Washington street, e più di tutti mi è rimasto nel cuore Mamoud Saleh, il gelataio che non può guardare le persone negli occhi.
Per quanto riguarda gli antagonisti, anche se c’è un cattivo ben definito, non me la sento di condannarlo. Anche la sua vita viene raccontata nei particolari e, quando infine si risolve uno dei misteri del romanzo, si scopre che nonostante tutto non si può avercela con lui per come ha agito. Personalmente, adoro quando questo accade. Quando l’antagonista viene dotato di desideri positivi, motivazioni concrete che vanno oltre il voler fare del male o agire perché si è pazzi, per vendetta, o per brama di potere. Certo, Yehuda Schaalman è un uomo malvagio, egoista, approfittatore, ma la vita e la situazione in cui va a trovarsi lo hanno segnato, ma chi può biasimarlo se desidera rubare un po’ di felicità?

La trama è molto lineare, almeno fino a metà libro circa. La prima parte viene usata più che altro per contestualizzare personaggi e situazioni, per farci conoscere i protagonisti, narrare le storie parallele e costruire le basi di quello che diventerà il fulcro della trama. Nonostante questo non diventa mai noiosa o prolissa. Al contrario immerge lentamente il lettore nella vicenda e lo avvolge con dolcezza.
Non vi dirò molto, perché questo è uno di quei libri che meritano di essere scoperti. Ad un tratto ogni storia comincia ad avere maggior rilevanza, fino a che non si uniscono a svelare il grande segreto che è la ragione di questo racconto, imprevedibile e brillante. Leggere ‘Il genio e il golem’ è come guardare da vicino un tappeto, seguire il percorso di ogni singolo filo, riconoscere le mille sfumature, passare le dita sulle diverse consistenze, per poi allontanarsi pian piano e scoprire il disegno che formavano.


Mentre leggevo ‘Il genio e il golem’ ero entusiasta. Ne parlavo con chiunque fosse disposto ad ascoltarmi, probabilmente ero molto noiosa perché mi dilungavo parecchio ma, evidentemente, il luccichio dei miei occhi impediva alla bontà dell’interlocutore di interrompermi. Forse ho ammorbato anche voi ma se questo è servito anche solo a mettervi la curiosità addosso, allora ne sono felice.
Consiglio caldamente la lettura di questo libro e mi dispiace che non abbia avuto qui in Italia il successo che secondo me merita. Non è scontato, non è una lettura che vuole ad ogni costo essere piacevole o accattivante, e già questi sono segni di una scrittura per ragazzi più matura di quello cui le vetrine dei negozi ci hanno abituati. È una storia che appassiona, che fa innamorare di luoghi e personaggi, fa volare con la fantasia e trasporta in un mondo speciale.