domenica 28 settembre 2014

Bon appetit!

   Sto leggendo (l’ennesimo) libro di King e, dato che è piuttosto lungo e non credo che ne arriverà presto una recensione, ho deciso di allietarvi (seh, come no!) con un post che non c’entra nulla con i libri. Un post un po’ personale.
 
  È passato poco più di un anno da quando mi sono trasferita (o, come si suol dire, sono “uscita di casa”), e sono piuttosto fiera di come stanno andando le cose.
   Non ci ho mai pensato in realtà ma, se mi fossi soffermata un attimo a ragionare quando ancora ero a casa di mia mamma, probabilmente ci avrei pensato due volte prima di sloggiare. Non ho mai fatto quasi nulla in casa, e mi sarei ritrovata a dover fare ogni cosa da sola (no, dai, non da sola: in realtà il mio fidanzato è bravo e gli piace lavare i piatti! Che fortuna!).
   Dopo un periodo di sbaraglio iniziale, in cui ho dovuto fare l’abitudine ai nuovi ritmi che richiede mandare avanti una casa, mi sono scoperta soddisfatta.
   A volte penso che poteva andare malissimo: pile di piatti da lavare ogni mattina al risveglio, la cesta dei panni sporchi che trabocca, il frigo pieno di pizze surgelate e pasti pronti! Invece no, nulla di tutto questo si è avverato per fortuna, e io ho trovato qualcosa che mi piace fare.
  Non crediate che sia una di quelle persone sadiche a cui piace tenere la casa! Non ci trovo nulla di emozionante nei panni swiffer e negli sgrassatori, no no!
   Ho scoperto che oltre a mangiare... mi piace cucinare.
 
 
   Mi piaceva già cucinare dolci ma, fra la dieta perpetua che cercherò di portare avanti fino alla decrepitezza e la mia innata pigrizia, non lo facevo spesso. Dovendo cimentarmi con piatti salati ho rispolverato le poche cose che ho imparato a mie spese durante gli anni di scuola, quando i miei erano in vacanza o facevano tardi al lavoro, e ho scoperto in fretta che cucinare non era così difficile come ricordavo. Dato che cucinare (e mangiare) sempre le stesse cose alla lunga annoia, ho preso a sperimentare nuove ricette e nuove tecniche.
   Devo ammettere, comunque, che la cosa che mi ha rovinata è stato Masterchef Australia. Non ho mai guardato gli altri Masterchef perché erano noiosi. I concorrenti non fanno che urlarsi dietro, dire quanto sono fighi e fare piani per sbaragliare gli avversari. Gli australiani sono meno competitivi forse, ma anche meno pesanti.
   Insomma, le cose stanno così: ad ogni puntata vedevo piatti a me sconosciuti che sembravano gustosissimi e divertenti da preparare. Così me li scrivevo, per non scordare come si chiamavano. Be’ è passato un anno e io ho gli appunti del cellulare pieni di ricette, nomi di chef e piatti che devo ancora sperimentare.
   Sono felice di aver scoperto questa passione per la cucina. Non che ora sogni di diventare una pasticcera, un cuoco o aprire un ristorante. Mi piace solo cucinare, nella mia cucina, per i miei amici. Ma anche (e soprattutto) per me stessa.
 
   Tornando all’argomento centrale di questo blog: qualcuno ha letto dei romanzi che c’entrano con la cucina? Libri come “Come l’acqua per il cioccolato”, su quel genere. Io non ne ho mai letti, ma mi piacerebbe molto farlo. Credo che ora li apprezzerei anche di più. E che dire dei film? Io adoro “Julie e Julia”, “Tortilla soup” ma soprattutto “Rataouille”!
   Se qualcuno ha altri film o libri ‘culinari’ da consigliami faccia pure, sono aperta ad ogni nuovo titolo e assaggio!

giovedì 25 settembre 2014

La fiaba dimenticata - Miss Day

   È da molto tempo che non recensisco una fanfiction (per curiosità sono appena andata a controllare e in effetti, sì, è da maggio).
   Ne ho lette parecchie di storie in questi mesi, per verificarlo basta andare a guardare la mie liste di EFP, ma dato che con le fanfiction sono molto più selettiva che con i libri, ne finisco pochissime, e ne metto fra i Preferiti ancora meno. Di queste poche elette, ne recensisco una minima parte. Insomma, come direbbe Bilbo Baggins:
 
 
   Di regola, metto fra i preferiti solo storie terminate, ma a che cosa servono le regole, se non per essere infrante?
 
   Mi sono lanciata nella lettura di “Lafiaba dimenticata”, di Miss Day, perché non ho mai trovato una long su Narnia che mi piacesse davvero, ma questa sembrava promettente, anche se non eccedeva nell’originalità.
   Diciamocelo, le fanfiction su Narnia si basano principalmente su due fatti: uno, Caspian è figo; due, Caspian ha bisogno di una fidanzata. Motivo per cui la maggior parte delle long in questo fandom sono delle Susan/Caspian o delle Nuovo Personaggio/Caspian. E per ‘nuovo personaggio’ solitamente intendo una ragazza cazzuta che vive già a Narnia o una ragazza cazzuta che abita nel nostro mondo. Il risultato è il medesimo, entrambe finiscono per ammaliare il giovin sovrano e passare lunghi paragrafi ad avvertire fremiti, guardarsi imbarazzati o sfiorarsi causandosi misteriose scosse elettriche (l’elettricità statica a Narnia è un grosso problema, a quanto pare).
   “La fiaba dimenticata” non sembrava una storia molto diversa dalle altre, in realtà, ma ogni tanto tutti abbiamo bisogno di qualcosa di romantico e fuffoso, non è vero? Per sentirci un po' diabetici...
 
 
   Be’, maledizione! Ho fatto appena in tempo a pregustare la fuffosità della fanfiction quando ho scoperto che è rimasta abbandonata!
   Per farla breve, l’autrice ha lasciato perdere la fanfiction e con molte probabilità anche il fandom, EFP e magari persino scrivere – una terribile perdita per il sito, oserei dire. Leggendo, non mi ero resa conto che la storia fosse ancora in stato “In corso” (sono babba, lo so), e quando ho iniziato a intravede i capitoli finali ma nessun avviamento ad un finale degno, mi sono documentata. E ho scoperto che l’ultimo aggiornamento risaliva ad anni fa.
   Ho avuto uno shock, una paralisi e un colpo della strega tutti assieme – quest’ultimo in particolare sarà dovuto alla strega della fanfiction in questione. Alla fine, senza esitare, tristemente felice di poter dare una fine immaginaria in cui tutti i cattivi morivano e i buoni vivevano assieme felici e  contenti per il resto dei loro giorni, ho messo la storia fra i Preferiti, anche se non era finita.
   L’unica altra storia per cui l’ho mai fatto è stata una traduzione del fandom di Harry Potter, “Drop Dead Gorgeous”, che consiglio a tutti i fan.
   Ah, misteriosa Miss Day, se mai leggessi questa recensione ascolta la supplica di una povera lettrice: continua la tua fanficion, torna fra i lidi di EFP! Io e altre centinaia di lettrici ti aspetteremo qui, in spasmodica attesa.
 
   Mi ritrovo quindi a consigliare una fanfiction non finita, ma giuro che ne vale la pena.
 
   Penelope è una giovane ragazza che abita a Strawbury, un piccolo paesino di campagna in Inghilterra. Lavora come domestica per la ricca signora Wingfield e abita nella sua villa assieme ad un maggiordomo francese, una cuoca superstiziosa, una governante severa, altre due domestiche della sua età e, naturalmente, la povera signorina Wingfield, che perenni mal di testa costringono a bere gocci di whisky in continuazione.
   Un giorno, in una libreria, Penelope incontra due ragazzi che non conosce, che si rivelano subito essere Lucy ed Edmund Pevensie. Lucy fa una sorta di predizione a Penelope, parlandole di alcuni specchi cui dovrebbe fare attenzione.
   Casa Wingfield, nel frattempo, riceve un regalo sgradito: un grosso armadio in legno massiccio, che viene collocato in una stanza e presto dimenticato.
   La sera stessa tutte le luci della casa si spengono e, alla loro riaccensione, ogni specchio, dal più grande e maestoso fino a quelli da toletta e portatili, recano dei simboli sconosciuti. Penelope trova l’unico specchio rimasto vuoto nella stanza dove è stato relegato l’armadio. La curiosità la spinge a studiarlo e aprirlo, e l’incredulità ad entravi dentro quando una brezza leggera proveniente dall’armadio stesso le scuote i capelli.
   Una volta a Narnia, dopo un fortuito incontro con il re Caspian e l’uccisione di una strega che rapiva bambini, viene accolta a corte e comincia a vivere lì.
   E qui è dove s’interrompe la nostra fiaba. Sì insomma, sul più bello!
 
 
   La storia, a questo punto, lascia molti interrogativi che non sto a raccontarvi, e mi piange il cuore a pensare che non scoprirò mai com’è andata a finire! Ma parliamo dei pregi di questa fanfiction, perché come l’ho descritta io non sembra avere nulla di nuovo rispetto a molte altre storie del fandom.
   Narrata in prima persona dalla stessa Penelope, la storia ha un non so che di naif che ricorda il libro vero e proprio, anche se ormai usiamo immaginare il moviverse di questa raccolta. Ogni paragrafo ha qualcosa che fa sorridere per la semplicità e l’ironia con cui vengono narrati gli eventi. I personaggi sono vagamente stereotipati, ma in maniera adorabile, un po’ come potremmo stereotipare la nonna che fa le torte. Sono tutti  perfettamente calati nel loro ruolo, ma in maniera naturale, mai forzata.
   Una delle cose che mi è piaciuta di più della storia è che tutto viene raccontato con precisione, ma non è noioso. Abbiamo l’opportunità di scoprire dettagli che nel film e nel libro non ci sono, dettagli che a volte sono anche un po’ crudi, ma veritieri.
    L’altra cosa che ho apprezzato – direi amato – è la protagonista, Penelope. Non è un personaggio stereotipato e ha molti difetti. In parole povere, non si tratta di una Mary Sue. Penelope è molto pigra e anche bugiarda, ha scarsa stima di sé e tende a parlare a vanvera. Gli aspetti più negativi del suo carattere vengono limati dalla sua permanenza a Narnia, la ragazza impara ad essere meno fannullona e impara quanto sia prezioso avere qualcosa da fare, inoltre impara a farsi sentire, a farsi rispettare e ad aiutare gli altri.
   Purtroppo non posso continuare con la lista dei miglioramenti di Penelope, perché la storia si è interrotta. Sappiate comunque che è diventata uno dei miei personaggi preferiti.
 
   Be’? Ancora qui? Muovete le chiappe (o in questo caso le dita) e andate a leggervi la storia!
   Magari se siamo in tanti ad attendere il seguito potremmo firmare una petizione per farci inviare i restanti capitoli.

venerdì 19 settembre 2014

Ulisse da Baghdad - Eric Emmanuel Schmitt

   Quando vivevo con mia madre leggere era scontato.
   Tornavo a casa e mi mettevo a leggere, studiavo con qualche amico, mi mettevo a scrivere e poi giù a leggere di nuovo. Era facile, era automatico. Ora che devo pensare alla mia sopravvivenza e inventarmi ogni giorno almeno due consistenti pasti che non si assomiglino troppo, leggere è diventato qualcosa per cui devo essere nel mood giusto. A volte è così facile, dopo una giornata stancante, mettersi semplicemente di fronte alla tv e guardare la prima cosa che ti capita davanti agli occhi, fosse anche la televendita dello chef Tony.
   Solo ora mi rendo conto della quantità assurda di tempo libero che avevo quando studiavo o anche solo quando già lavoravo ma ero ancora a casa dei miei. Se all’epoca mi avessero detto che in sola una mattinata si potevano fare un mucchio di cose (andare a correre, fare la doccia, la spesa e cucinare il pranzo, tanto per dirne qualcuna) non ci avrei creduto.
   Comunque sia, adesso prendo in mano un libro soprattutto prima di andare a dormire – a prescindere dall’ora in cui vado a dormire – e leggo per prendere sonno. Se il libro non è particolarmente interessante allora mi aiuta, se il libro è bello… be’, io sono disposta anche a dormire un po’ meno, pur di continuare a leggere.
   Tutte le sere, immancabilmente, è successo così con il libro di Eric Emmanuel-Schmitt, “Ulisse da Baghdad”. Lo iniziavo dicendomi: «Solo un capitolo poi spengo», e invece finivano per diventare uno e mezzo, due, e perché non tre? Non solo il libro è interessante e ti spinge a proseguire, ma è anche uno di quei libri che ti accompagnano anche dopo che li chiudi.
   Io lo chiudevo e spegnevo la luce, e mi addormentavo pensando a Saad.
 
 
   Saad nasce in Iraq sotto il regime di Saddam Hussein. Da bambino impara a relegare in un angolo il dittatore che governa il paese, onnipresente ma invisibile al tempo stesso. Crescendo, impara che Saddam non poi così innocuo come lo credeva da bambino. Comincia a vedere il lato oscuro del regime, i poliziotti che arrestano persone senza valide accuse e le pestano per far loro confessare colpe mai avute, i libri proibiti unicamente perché inglesi, e la difficoltà di vivere in un paese che l’embargo ha reso povero.
   Nonostante questo la sua vita continua, mentre la famiglia si allarga e le sue sorelle maggiori prendono marito, e suo padre è costretto a vendere sottobanco qualche libro proibito per pagare parte del matrimonio. Saad si iscrive all’università e lì conosce Leila, di cui s’innamora pazzamente, raccontando incantato alla famiglia che avrebbero capito il perché di quella infatuazione «se solo vedeste come fuma una sigaretta.»
   Intanto il paese si fa sempre più povero, in balia degli estremisti islamici e con la minaccia di un monarca da un lato e dell’invasione/liberazione americana dall’altro. Il popolo non sa più che cosa sperare quando, ad un tratto, accade: arrivano gli americani, il governo di Saddam Hussein cade e forse è proprio questo che l’Iraq aspettava per rifiorire.
   O forse no.
   Incompresi e incomprensibili, gli americani si limitano a rimanere a guardia delle loro fortezze, e Saad smette di credere in loro quando un uomo si fa esplodere in mezzo al mercato a Baghdad, mettendo in moto una serie di eventi che lo porterà a fuggire dal suo paese.
 
   Non vi dico di più, ma solo perché il libro è talmente bello che non voglio rovinarvelo, nel caso lo leggiate. Di solito non mi preoccupo troppo di spoilerare, ma ci sono libri in cui lo spoiler è vietato.
 
Eric Emmanuel Schmitt
 
   Sinceramente, non ho una particolare opinione in merito al problema dell’immigrazione. Un po’ perché non sono informata e un po’ perché non sono poi così interessata, lo ammetto (ma dopo aver letto questo libro lo sono un po’ di più).
   Mi viene in mente un cartellone che ho visto almeno cinque anni fa sotto elezioni, di non ricordo quale partito (anche se un’idea ce l’avrei…). C’era un indiano d’America disegnato e sotto la scritta “Loro hanno subìto l’immigrazione. Ora vivono nelle riserve.
   …voglio dire… sul serio?
   Chi è l’idiota che ha paragonato l’immigrazione in Italia di quelli che sono destinati a diventare vucumprà con l’invasione degli europei nei territori indiani?! Insomma, non mi ero accorta che i barconi che arrivano a Lampedusa fossero carichi di aitanti militari che imbracciano fucili e vogliono invadere  il paese. Inoltre, se ci paragoniamo agli indiani del 1400 ci stiamo davvero svilendo!
   Una volta una mia insegnate delle medie disse che tutti quelli che dicevano: «Tornatene al tuo paese!» erano dei cretini. A rigor di logica, posso solo darle ragione. Spero che nessuno di voi lettori pensi seriamente cose del genere, perché altrimenti vi avrei appena dato del cretini, ed è una cosa che tendo a non fare con i (pochi) lettori del mio blog.
   Lasciamo perdere la questione del lavoro e dell’illegalità solo per un momento e concentriamoci su questa frase: «Tornatene al tuo paese.» Sto parlando con te, sproloquiatore seriale: ma se un poveraccio ha usato i risparmi di una vita per attraversare il Mar Mediterraneo assieme ad altre trenta persone in un gommone che ne può contenerne dieci, sarà perché nel suo paese non ci può più stare no? Chi mai si sottoporrebbe a viaggi estenuanti, continui pericoli e futuro incerto per poi arrivare in un paese dove ti disprezzeranno, così, per sport?
   Le persone amano il proprio paese, tutte quante. Chi ostentatamente e chi senza nemmeno accorgersene, ma ognuno ama il posto dove è cresciuto, il luogo del quale conosce le tradizioni, la cucina, la politica, la storia, le persone. Lasciare il proprio paese non è mai del tutto piacevole, nemmeno per chi lo fa come scelta di vita o per lavoro. Quante volte sentiamo italiani che vivono all’estero che spergiurano sulla nonna che un piatto di semplice pasta nessuno lo fa sa fare come lo facciamo qui in Italia? Se una persona fugge dal proprio paese è proprio questo che fa: fuggire. E si fugge solo quando non si ha altra scelta.
   “Ulisse da Baghdad” mi ha fatto pensare a tutte queste cose e a molte altre ancora, ma soprattutto mi ha regalato una bella storia. Reale, attuale, cruda, ma intrisa di speranza.

giovedì 18 settembre 2014

Film vs. Book

   In questi ultimi tre mesi ho letto più libri di Stephen King che in tutta la mia vita di lettrice, più di quanti sospettassi mai di leggerne e più di quanti la mia libreria ne possa contenere.
   Dopo aver letto “Shining” e “Misery” e aver visto i rispettivi film, ho fatto un voto. Il voto di non guardare più film tratti dai libri di Stepehn King.
   Questo perché, indubbiamente, il libro è sempre più bello del film, ma per qualche motivo tutti i libri di Stephen King diventano estremamente noiosi, quando proiettati. Non me ne vogliate fan di Kubrick, ma Shining-film non mi è piaciuto affatto, e nemmeno Misery-film (con tutto che io adoro Kathy Bates!). In passato ho visto IT, ma l’unica cosa davvero spaventosa e veramente perfetta di quel film era l’interpretazione di Tim Curry, il resto era solo pessima recitazione e un ragno-peluche gigante.
 
   A parte questo, mi sono messa a pensare a come mai i libri sono sempre più belli dei film. Onestamente, è una cosa che non riesco a spiegare, perché a pensarci razionalmente il film dovrebbe essere più emozionante. Le pagine che ti hanno procurato allegria, tristezza, ansia, paura, tramutate in immagini.
   Io non sono una di quelle persone che vanno al cinema e commentano: «Nel libro però non era così!» Capisco che ci siano certe esigenze in un film e credo fermamente che, se fatto bene, un film possa essere bello quanto il libro. In certi casi, addirittura di più.
   Ho pensato a dei film che mi sono piaciuti più dei libri da cui sono stati tratti, ed ecco a voi il risultato di tanto spremere le meningi.
   Ahimè, in realtà non sono molti, e non ho dovuto spremere le meningi così tanto perché avevo in testa chiaramente i film che mi sono piaciuti più o quanto i libri.
 
 
   Un ponte per Terabithia, di Katherine Paterson
   Al terzo posto c’è “Un ponte per Teabithia” perché sia il libro che il film erano bellissimi.
   Questo è l’unico film per il quale anche gli uomini possono versare una lacrimuccia. Io mi sciolgo sempre di fronte ai film tristi, piango senza ritegno, ma gli uomini della mia famiglia non piangono mai! In parte perché, come molti uomini immagino, tendono a non lasciarsi andare a sentimentalismi per cose come i film, ma soprattutto perché guardano solo film d’azione.
   Quando uscì al cinema “Un ponte per Terabithia” io e i miei genitori andammo a vederlo, convinti che si trattasse di un film fantasy del tipo “Narnia”. Restammo in un primo momento sorpresi, ma poi la storia iniziò a piacerci e, alla fine, mentre mi asciugavo le lacrimucce agli angoli degli occhi, gettai un’occhiata a mio padre, e vidi che stava facendo lo stesso!
   Poco fa riguardavo il film a casa e il mio fidanzato fece la sua apparizione e si appollaiò al mio fianco, sul divano. Lui è uno di quelli che soffre solo alla vista di bambini malati e animali maltrattati. Alla fine del film era disperato e pretendeva di sapere chi era l’autrice del libro per andare da lei e punirla con una macchina di tortura per quel che aveva fatto.
   Insomma, “Un ponte per Terabithia” non solo ha il potere di far sciogliere in lacrime anche il più brutto e cattivo degli esseri umani, ma è anche un bel film. Scorrevole, originale quanto basta, con una morale (non ne fanno più molti, di film con una morale) e un finale che non ti aspetti.
 
 
   Holes, di Louis Sachar
   Ho visto questo film un milione di volte, e ho letto il libro solo una volta. Questo è già indicativo, immagino.
   Chi di voi non ha visto Shia LaBeouf agli esordi è pregato di guardare il film, che è (rullo di tamburi!) più bello del libro. Forse perché il libro era pensato per un pubblico di bambini, forse dai dieci anni in su o giù di lì, invece il film è piacevole per tutti, o per lo meno così mi sembra. Ovvio che sia un film per ragazzi, ma credo che anche agli adulti piaccia senza particolari riserve.
   Mi sembra di ricordare che nel film la parte ambientata nel passato fosse presa molto più in considerazione. Inoltre nel libro seguivamo solo le vicende di Stanley, quindi non sapevamo che cosa succedeva nel frattempo alla sua famiglia, nel film invece sì, e questo lo rendeva molto più interessante.
   Di quel film mi piacciono i piccoli dettagli. Ad esempio la sfiga smette di accanirsi sugli Yelnats nel momento esatto in cui la profezia della trisavola di Zero si avvera. Mi piace che il segreto anti puzza dei piedi sia un miscuglio di pesche e cipolle, che riunisce i Kate e Sam del passato. Così come il tesoro di Stanley Yelnats II, che viene ritrovato e dichiarato di Stanley solo perché la famiglia continua a usare il nome del trisavolo. Insomma, ci sono tante piccole cose che mi piacciono, che nel libro vengono date semplicemente per scontate ma che nel film risaltano.
 
 
   Hunger Games, di Suzanne Collins
   Ho recensito sia il primo che il secondo libro, per cui non mi dilungherò più di tanto.
   Vi basti sapere che per il mio compleanno mi è stato regalato “Il canto della rivolta”, che ancora non ho letto. La verità è che lo sto lasciando per dopo, perché prima voglio vedere il film.
   E con questo ho detto tutto.

venerdì 5 settembre 2014

Siena e Firenze

   Qualche foto di quando sono andata a Siena e a Firenze (risalgono all’anno scorso, sì, ma a chi importa?). Nel caso ne aveste l’occasione, magari vi faranno venire voglia di visitare una di queste due bellissima città, o magari entrambe!
   L’anno scorso io e il mio fidanzato decidemmo di andare tre giorni a Firenze e, già che eravamo di passaggio, ci fermammo mezza giornata a visitare anche Siena.
 
Siena, addobbata per la Contrada del Luccio



Questa era la nostra stanza.
Ogni stanza era dedicata ad un poeta,
la nostra era, come potete bem notare, quella di Dante!
Aww, sarà destino...



   A seguire tre delle mie statue preferite. Ovviamente ho visto gli originali nei musei, ma dato che né al Museo dell'Accademia né a quello degli Uffizi si potevano fare fotografie (nemmeno senza flash), mi sono limitata a farle alle riproduzioni.



 

lunedì 1 settembre 2014

Misery - Stepehn King

   Una piccola premessa, prima di cominciare con la recensione.
   Io ho paura dei pazzi. Mi spiego meglio. Se vedo un film con gli spiriti, i fantasmi, gli zombie o altri mostri del genere non mi spavento quasi mai. Se vedo film con dei pazzi psicopatici che cercano di ucciderti per il solo motivo che a loro sembra logico e semplice, allora mi spavento. Non so voi, ma gli psicopatici in carne e ossa mi fanno rabbrividire molto di più che un presunto spirito che galleggia per casa. A spaventarmi non è tanto il fatto che sono certa che esistano, ma che sono imprevedibili e incomprensibili.
   Un’altra premessa è che raramente mi sono spaventata con un libro. Ho avuto paura, da bambina, con i libri della serie di Peggy Sue, di Serge Brussolo, perché succedevano cose molto inquietanti delle volte, ma così su due piedi non mi viene in mente nessun libro per il quale io abbia provato veramente paura. Forse una sorta di malessere, come quando leggevo “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” o “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”, ma paura mai. Un po’ perché i libri dell’orrore non sono il mio genere, un po’ perché faccio fatica a spaventarmi.
   Ho appena letto “Misey”, di Stephen King.
   E ho avuto gli incubi.
 
   Stephen King è molto evocativo, per chi non lo sapesse. Talmente tanto, in effetti, che è facile immaginare i suoi libri come scene di un film. Non perché descriva ambienti e personaggi particolarmente bene – anzi, a volte non li descrive affatto – ma perché sa come trasmettere una sensazione. Talvolta sensazioni roboanti, che ci vengono addosso come onde nel mare grosso, e talvolta sensazione sottili, intuizioni o fantasie.
   In “Misery” esistono più sensazioni che descrizioni, e probabilmente è questo che fa crescere l’ansia e la paura man mano che si va avanti a leggere.
   Non vi svelerò la trama se non per informarvi di cosa parla il libro, giusto perché non partiate impreparati.
 
   Paul Sheldon, scrittore della seria di libri che vedono come protagonista l’indistruttibile eroina vittoriana Misery, si sveglia in una stanza che non è un ospedale, dopo un brutto incidente stradale in un luogo isolato che gli ha distrutto entrambe le gambe e gli impedisce di muoversi. A salvarlo dalla morte certa è stata un ex infermiera, Annie Wilkies, che lo porta nel casolare dove abita e comincia a prendersi cura di lui.
   Paul si rende conto presto che Annie è pazza. Volubile e imprevedibile, per mezzo di torture psicologiche e fisiche gli ruba, pian piano quel che è lui. Lima con pazienza ogni suo spigolo, ogni sua forza di replica, e la dignità e l’orgoglio gli vengono succhiati via pian piano.
   Costretto a scrivere per Annie – la sua ammiratrice numero uno – un libro intitolato “Il ritorno di Misery”, Paul combatte per la sua vita e tenta in ogni modo di rimanere sano, in un mondo che non è più il suo: è il mondo di Annie Wilkies, il mondo nel quale se non sei d’accordo con lei ti può venire amputato un pollice, il mondo in cui anche quando pensi di essere salvo ti rendi conto che Annie sa ogni cosa. Un mondo che sta logorando Paul Sheldon, che lo sta lentamente facendo impazzire.

 
   Spero di avervi per lo meno incuriositi, anche se mi rendo conto che la mia piccola anticipazione nulla ha a che vedere con la suspance del romanzo.
   Non ho mai visto il film che ne è stato tratto (“Misery non deve morire”) ma non appena me lo procurerò lo guardo subito! So che Kathy Bates, che nel film è Annie, ha anche preso un oscar per la sua interpretazione. Sono decisamente curiosa di vedere come hanno fatto il film.
   Be’, ora sfido chiunque di voi a leggerlo e a non avvertire almeno un brivido alla schiena.