Qualcuno ricorda con quanta poetica
convinzione e gioia avevo recensito “Le ceneri di Angela”? Be’, ora
scordatevela.
Dire che sono rimasta delusa da questo
libro è un eufemismo, e dire che non mi è piaciuto non sarebbe del tutto
corretto. Che ci rimane quindi, a parte le recensione, per rimuginare meglio sul
perché e il percome non consiglierei questo libro a nessuno? Soprattutto a chi
ha letto la prima parte.
Frank McCourt arriva a New York a
diciannove anni, forte di un passato che lo ha temprato e desideroso di un
futuro migliore. Sbarca in un universo del quale capisce poco, se ne sta ai
margini assieme a tutti gli altri immigrati di vario genere ma sogna il
proletariato.
Dapprima invisibile ragazzo delle
pulizie nella hall di un grande albergo di lusso, Frank fa la sua brava leva
nell’esercito degli Stati Uniti e, quando torna a casa, ricomincia a lavorare e
poi si iscrive all’Università – grazie più che altro alla sua simpatia, perché
il diploma non ce l’ha. Si laurea e comincia a insegnare. Sposa una bella
ragazza, ha una bella figlia, e riunisce tutta la sua famiglia – o quasi – nel
continente americano.
Sembra idilliaco, e in effetti lo è da
un certo punto di vista. Frank McCourt non si ritroverà mai più a raccogliere
carbone per strada per accendere il fuoco, né a patire la fame o agognare una
fetta di pane fritto. Ma allora, come mai questo libro mi è così odioso?
Come in ogni cosa, anche qui c’è il
rovescio della medaglia.
McCourt passa gran parte della sua
infanzia, e quindi tutto “Le ceneri di Angela”, a risentirsi con il padre che
si beveva lo stipendio e li aveva abbandonati a Limerick a sopravvivere con la
carità. Ma non appena sbarca a New York e prende un po’ di confidenza con la
città, le ragazze e lo stipendio, ecco che corre nei peggiori bar di Caracas per fare esattamente la stessa cosa.
Traspare una sorta di invidia per i
ricchi americani che lui giudica fortunati, poiché non hanno patito tutto ciò
che ha dovuto patire lui in Irlanda. Frank vorrebbe essere come loro ma, quando
si ritrova in mezzo a quella gente, la scopre distante e incomprensibile.
Nella vita adulta poi, nonostante i
desideri di essere un buon marito e un padre presente, diventa sì un padre
affettuoso ma un marito insofferente. A questo punto non è chiaro se i coniugi
McCourt si siano separati o meno, resta comunque il fatto che la vita privata
dell’autore non è poi così piacevole.
Se non altro non gli si può rimproverare di non essere stato onesto.
Non sarebbe corretto da parte mia
giudicare la vita, le scelte e gli errori di un altro. Qualcuno che per di più
non conosco e con cui non ho nulla a che vedere. Non discuto su come Frank
McCourt ha mandato avanti la sua esistenza, perché quelli sono affari suoi.
Dico solo che poteva anche evitare di scrivere quest’altro libro!
“Le ceneri di Angela” lasciava una bella
sensazione. Il lettore, consapevole del fatto che si trattava di una storia
vera, poteva riflettere su come, nella vita, le cose possono sempre migliorare
e, con un mix di sangue freddo, impegno e fortuna, anche l’impresa che sembra
più difficile può essere realizzata. Se c’è una vita da cui trarre un
insegnato, era quella di Frank McCourt.
Salvo poi per il secondo libro.
“Che paese, l’America” riesce a
mostrare, nonostante i desideri realizzati e una vita che va solo in meglio,
come si può essere sprezzanti delle cose ottenute e non averne mai abbastanza.
Ritengo che da leccare il giornale del fish and chips a comprare casa a New
York ci sia un grosso salto di qualità. Sebbene McCourt abbia fatto questo gran
bel salto, e come lui i fratelli, non sembra essere felice di ciò che ha
ottenuto.
Qui sta la pecca del libro, perché se
visto da un’ottica differente, McCourt ha vissuto quello che qualcuno potrebbe
definire ‘Il sogno americano’. Lui lo ha vissuto, ma nel suo libro ha saputo
mettere l’accento solo sulle brutture della vita adulta, accompagnato dallo
stesso stile secco e onesto che tanto bene si era adattato ad illuminare i
piaceri dell’infanzia.
Tanto
per essere chiari, leggete “Le ceneri di Angela”. Poi chiudete il libro e
dimenticate che ne esiste il seguito.
BIMBO, sventolando l’ultimo numero di
“Topolino”: Mamma, possiamo prendere
questo?
MAMMA, con aria altera e ricercata: Ma certo, la cultura non ha prezzo!
BIMBO: Perché? È gratis?
Non è una scenetta, giuro, è accaduto
davvero.
Ora, a parte che i bambini mi fanno
sbellicare appena aprono bocca, ma sono qui per puntare la luce su quel che ha
detto la madre.
Diciamo che considerare “Topolino”
cultura non è il massimo. Capisco che il bimbo era piccolo, ma piuttosto un bel
libro per l’infanzia, di quelli con una storia avvincente, un eroe senza
macchia e una bella morale.
Credo che la causa di questo sia da
ricercare nel fatto non siamo un popolo di gran lettori. In Europa, almeno
stando alle statistiche, l’Italia è il paese che legge di meno. Con questa
carenza di libri nelle case, è ovvio che poi uno si emozioni quando compra
“Topolino”.
Ciò di cui volevo parlare comunque è
questo: ma se leggere è così importante, si può leggere qualsiasi cosa?
Proviamo a vedere la cosa da un punto di
vista diverso di quello di una lettrice compulsiva. Proviamo un punto di vista
nuovo: il lettore neofita.
Leggere è importante. Su questo non ci
piove. Ce lo insegnano a scuola, ce lo dicono tutti, quindi sarà così. A questo
punto della nostra riflessione, dobbiamo distinguere due correnti di pensiero
verso le quali il nostro lettore neofita si può lanciare: quella del “Ne deve valer la
pena” e quella del “Tutto fa brodo”.
I lettori “Ne deve valer la pena” pensano
che, se si deve proprio leggere, allora tanto vale che sia qualcosa veramente
importante. Un bel classico, meglio ancora un trattato o un libro di filosofia,
ma alla fine anche un romanzo che denunci
qualcosa – va bene qualsiasi cosa, basta che ci sia la denuncia, manco
fossimo dai Carabinieri. Insomma, meglio leggere cose importanti e impegnate
piuttosto che leggere romanzetti rosa, no? Sembra che questo tipo di lettore
veda il leggere come un dovere più che come un piacere, e di conseguenza legge
solo libri impegnativi, che rendano onore alla parola ‘dovere’ e siano il più
possibile immuni al ‘piacere’.
Al contrario, i lettori “Tutto fa brodo”
sono dell’opinione che, pur di leggere, vada bene qualsiasi lettura.
L’importante è leggere, gli hanno detto, quindi Dostoevskij o una lista della
spesa, che differenza fa?
Per parte mia gli estremismi non mi sono
mai piaciuti. Ai primi dico
che per forza la gente non legge se la prima cosa che gli date in mano è un
mattone come “Guerra e pace”, ai secondi che forse forse la lista della
spesa non è proprio una pubblicazione e “Topolino” viene generalmente
considerato fumetto più che libro.
Penso che la verità stia nel mezzo, così
come per molte altre cose.
Indubbiamente credo che leggere sia
importante, e non solo perché è utile per non smettere mai di imparare o altre
cose buoniste e da cattedra del genere. Secondo me è importante perché chi legge ha sempre la
possibilità di aprire un libro, alla fine di una giornata che vorrebbe
dimenticare, e immergervisi dentro scordando tutte le cose che sono andate
storte. E a questo punto che sia un romanzo, un trattato di algebra o un racconto
di tre pagine poco importa.
Quindi,
senza esagerare, posso dire di essere anch’io un’estimatrice di “Topolino”.
Se
in un libro, di qualsiasi genere, una persona trova conforto, allora deve
leggerlo. Che importa poi se è “Cinquanta sfumature” o “La divina commedia”?
Sono passati parecchi anni da quando ho
letto questo libro ma poco tempo fa ho avuto modo di riprenderlo fra le mani.
Non ricordo nemmeno da dove lo presi, ma di certo non lo comprai io perché di
sicuro avrei attirato le domande scomode di mia madre, un po’ come quando
leggevo “Noi, i ragazzi della zoo di Berlino”, lei mi guardava con gli occhi
tondi e cercava di psicanalizzarmi, ottenendo reazioni del genere:
Autobiografia dello stesso Leroy, la
vicenda racconta della sua infanzia assieme alla madre, una prostituta
tossicodipendente, Sarah.
A cinque anni Jeremiah viene portato via
alla famiglia adottiva e la sua custodia torna alla madre naturale, che appena
pochi mesi dopo averlo riavuto lo carica in macchina e comincia con lui una
vita da vagabondi, fra alcol, droga e i diversi fidanzati della donna.
Il rapporto che hanno Sarah e Jeremiah è
sin dall’inizio conflittuale. Il bambino vorrebbe tornare dai genitori
adottivi, quindi Sarah per impedirgli di fare capricci gli racconta bugie
crudeli, ad esempio che i suoi genitori adottivi non gli vogliono bene perché è
un bimbo cattivo, oppure che se non fa il bravo la polizia andrà a prenderlo per
portarlo in prigione.
Jeremiah viene più volte picchiato dai
compagni della donna senza che lei muova un dito – e anzi, incitandoli a
“dargli una bella lezione” – e, quando si ritrova da solo con l’ex marito di
lei, viene violentato.
Una volta sottoposto a cure mediche e
psichiatriche il bambino viene mandato dai nonni, fondamentalisti cristiani che
gli fanno studiare la bibbia e, se non la studia bene, lo picchiano. Rimane
assieme a loro per qualche anno, finché Sarah non torna a riprenderselo.
Ricomincia la vita di droga e prostituzione per la donna, maltrattamenti fisici
e psicologici per il protagonista.
Il libro si chiude quando Jeremiah è
ormai adolescente ed ancora assieme alla madre. Dati i continui maltrattamenti
ha sviluppato delle tendenze omosessuali e sadomasochistiche.
Tristi e preoccupati per il povero
Jeremiah “Terminator” Leroy? Ma tranquilli, non dovete! Perché è tutta una
farsa.
Se qualcuno ha già sentito parlare di
questo libro forse lo sapeva. Quando l’ho letto mi aveva colpito molto perché
pensavo a questo povero bambino sballottato fra una violenza e l’altra, e avevo
quasi preso la faccenda a cuore! Poi, la scoperta: J. T. Leroy non esiste, è un invenzione della scrittrice Laura Albert.
Ma vaff…! Si può dire? Io dico che si
può.
A quanto pare Laura Albert stava
cercando di vendere il suo manoscritto “Sarah”, primo pubblicato dal
fantomatico J. T. Leroy, ma credeva che essendo lei una sottospecie di desperate housewife nessuno l’avrebbe
presa sul serio se avesse presentato romanzi di quel genere. Quindi si inventò
un soprannome, Terminator, e un nome Jeremiah Leory, per dare più pathos e
interesse ai suoi libri.
Quando lo scoprii ci rimasi malissimo.
Ora che rispolvero questa cosa non
riesco a fare una recensione più lunga. Avrei voluto parlare del libro in
maniera più approfondita perché in fin dei conti non posso dire che non mi
fosse piaciuto. Stile diretto, crudo, di sicuro non per stomaci delicati, ma
tutto sommato un libro che fa riflettere (a questo punto poco importa che sia
vero o no, la sostanza c’è). Ma, giuro, non ce la faccio, mi dà troppo
fastidio!
Avete presente quando c’è una cosa che
ci piace tantissimo e un giorno capita che ne mangiamo a chili? Prendiamo ad
esempio la Nutella. Ci ingozziamo fino a star male e quando poi riemergiamo dal
nostro coma ciboso giuriamo che per
un bel po’ di tempo non ne toccheremo nemmeno un cucchiaino.
Passano i giorni, le settimane e poi
magari anche i mesi. Finalmente, vinto il ricordo del malore, ci compriamo un
bel barattolone di quelli da 600 grammi e le fette di pane preferite, magari
quelle sottili e senza crosticina, per assaporare appieno il gusto cremoso
della nocciola.
È giunto il momento, ce l’abbiamo
davanti, è lì, e la prima cosa che sentiamo quando svitiamo il tappo è il
profumo intenso che aleggia nell’aria e ci penetra nelle narici. A questo punto
ci blocchiamo.
Oh mamma.
Forse abbiamo le traveggole o forse
abbiamo mangiato pesante la sera prima. Ma in fondo siamo stati bene fino ad
ora, che sarà mai una fettina di pane con una sottilissima spalmata di Nutella?
Prepariamo il nostro sandwich e lo addentiamo.
Il sapore ci colpisce le papille
gustative come un pugno ma – incredibile! – ne
siamo disgustati. Per un po’ annaspiamo nel panico, chiedendoci che cosa
c’è che non va. Alla fine, dopo molte ipotesi, la verità viene a galla. Non ci
piace.
Non ci piace più.
Questa sono io quando vado in un all-you-can-eat.
Se sostituite i libri al cibo otterrete più o meno questa stessa reazione.
Un incipit particolarmente lungo
quest’oggi ma, che vi devo dire? Scrivo così come mi viene, io. Comunque tutto
ciò ha un senso, non crediate, perché oggi parlo di indigestione di libri. Non
so se capita spesso o se è capitato solo a me (spero di no, mi sentirei strana
altrimenti), ma ho fatto indigestione di fantasy.
La ritengo una cosa piuttosto strana,
soprattutto considerando il fatto che io sono una di quelle persone che quando
si fissa con qualcosa ne parla un sacco e cerca di carpire tutti i segreti del
film/telefilm/attore/libro di turno. Quindi da quando ho fatto indigestione di
fantasy, cosa che sarà avvenuta cinque o sei anni fa, sono lì che mi chiedo
come sia possibile. Insomma, ho passato anni a rileggere libri, riguardare
film, cercare foto di attori o musicisti su internet, e tutto d’un tratto i
libri fantasy mi diventano indigesti!
Precisiamo una cosa. Non tutti i libri
fantasy, solo quelli più classici.
Quelli ambientati in luoghi simil-medievali, dove ci sono i cavalieri, i
draghi, i maghi e magari qualche creature inventata dall’autore giusto per
metterci qualcosa di suo. Ecco, quelli sono i fantasy che non sopporto più.
Una cosa che vale solo per i libri poi,
perché ad esempio adoro il telefilm di “Trono di spade” e credo che sia geniale!
Ma il libro… Ci ho provato a leggerlo. Già a pagina quindici mi sono arresa.
Ho letto un sacco di libri di questo
tipo in passato, e mi sono piaciuti moltissimo. Tutt’oggi sono fra i miei libri
preferiti e li ricorderò sempre con ammmore,
ma credo di averne letti troppi. Questa è l’unica spiegazione che riesco a
darmi.
Ho fatto indigestione.
Indigestione di fantasy.
E' con questo atteggiamento che leggevo i fantasy, prima.
È
capitato anche a qualcun altro o sono io l’unica fortunata colpita da questo
virus, da questa maledizione?!
Non saprei dire da quando ho la passione
– mania – per la lettura. Direi da
sempre, da quando ho imparato a leggere all’età di cinque anni, con il librone
di “Hercules” della Disney, che lanciavo dall’altra parte della stanza quando
non riuscivo a capire una frase. Mia madre era contenta di comprarmi libri (non
ugualmente felice di vedermi scagliarli contro il muro, ma è una fase che con
sua somma allegria ho superato presto), perché diceva che così avrei passato
meno tempo davanti alla televisione.
Da bambina i miei genitori mi spingevano
a fare quello che più mi piaceva e, sebbene fossero confortati del fatto che mi
piacesse leggere, non era per loro una priorità che io diventassi una
divoratrice di libri. Anzi, quando fui più grande erano sinceramente
preoccupati del dispendio di denaro e di spazio che i miei libri causavano.
Rimane il fatto che leggo sin da quando
ero piccola e ci sono dei libri che sono stati molto importanti per me, ai
quali guarderò sempre come i libri della mia infanzia.
Dopo aver letto il sopracitato
“Hercules”, che non ho mai tenuto in considerazione perché era più immagini che
parole, il primo ‘libro vero’ che ho mai letto è stato “Matilda”, di Roald
Dahl. Ero molto fiera di averlo letto, perché era un libro come quelli che
leggevano i grandi. Sì c’erano le
figure, è vero, ma c’erano anche un sacco di pagine senza nemmeno una figurina
piccina picciò, e poi i disegni non erano nemmeno a colori, che diamine!
Credo che “Matilda” mi piacque tanto
perché era uno di quei personaggi in cui mi potevo immedesimare, ma allo stesso
tempo aveva delle caratteristiche per cui volevo assomigliarle. Tanto per
cominciare anche io ero una femmina, e non sia mai che a cinque anni preferissi
un libro con un protagonista maschio perché «che schifo i maschi!»
A parte
questo io e Matilda ci assomigliavano parecchio perché leggevamo tutte e due un
sacco, ma avere anche dei poteri e combattere presidi malvagie non mi sarebbe
dispiaciuto neanche un po’.
Pian piano si insinuò in me l’idea che
leggendo tanti libri come Matilda, anche io avrei vissuto avventure
straordinarie come lei. Magari è per questo che ancora non smetto di leggere:
sto ancora aspettando di venire catapultata in un universo parallelo mentre
faccio la mia sessione di jogging, o di venire rapita dagli alieni durante la
pausa pranzo, di incontrare eccentrici personaggi quando faccio la spesa o,
semplicemente, delle creature sovrannaturali nascoste fra colleghi e amici.
Cose così, no? Prima o poi mi capiterà, lo so!
A proposito di Matilda, vi informo, se
non lo sapete, che esiste un fantastico musical scritto da Tim Minchin.
Chiaramente non arriverà mai qui in Italia (se ci hanno messo cinque anni a
portare “Gli studenti di storia” di Alan Bennet che è una normale pièce
teatrale, non vedo come potrebbero adattare delle canzoni in maniera soddisfacente
e in tempi rapidi), per cui ho già deciso che per la mia prossima visita a
Londra una tappa al musical di Matilda è d’obbligo. Intanto vi lascio con una
delle canzoni che mi piacciono di più: “When I grow up”.
Un altro libro che è stato importante
per me è “Il mago di Oz”, di Frank L. Baum. Le mie maestre me lo regalarono in
quinta elementare dopo l’esame. Ne regalarono uno diverso a tutti quanti, e a
me toccò quello. Purtroppo lo avevo già letto perché mi era stato regalato da
qualcun altro, ma non ne feci parola con loro ovviamente.
Ancora oggi ho quel libro e quando una
volta mi è capitato di fare una scernita dei libri che volevo tenere per fare
spazio fra i miei scaffali (i poveri scartati sono finiti in biblioteca, ma gli
scaffali sono stati felici perché si stavano piegando per il peso!) ho scelto
di tenere quello delle mie maestre.
Una delle cose belle dei libri è che non
solo regalano la loro storia in sé, ma possono anche portare ricordi su un
periodo o un episodio della nostra vita.
Pietra miliare delle mie letture di
bambina è “Harry Potter e la Camera dei Segreti”. Apposta non cito tutta la
saga perché il secondo volume è stato il primo che ho letto, seguito poi dal
primo e infine dal terzo, dopo il quale sono andata in ordine. Una delle mie
zie non sapeva che fosse il secondo di una serie, sapeva solo che in molti ne
parlavano, così decise di regalarmelo.
La cosa buffa è che all’inizio lo
odiavo, faticavo davvero a leggerlo! Nel primo capitolo c’era questo ragazzino
che veniva maltrattato dai suoi zii, e venivano nominate cose a me
incomprensibili, come Hogwarts, Piton («Che cosa cavolo è un Piton?!», mi
chiedevo indignata) e Cappelli Parlanti. A invogliarmi a leggere fu mio papà,
che evidentemente non voleva sprecare così l’opportunità per tenermi per un po’
impegnata con un bel libro. Mi bastò resistere fino all’apparizione dei
fratelli Weasley su una macchina volante, dopodiché fui totalmente convinta
della validità di Harry Potter. Come resistere, d’altronde, ai Weasley?
Con Harry Potter mi sono affezionata per
la prima volta ad una storia e ai suoi personaggi.
L’unica cosa non così poetica che mi ha
lasciato è una frase che è diventata un detto di famiglia. Ogni volta che da
piccola qualcosa non mi piaceva – dai libri, al cibo, alle persone – mio papà
mi convinceva almeno a provare a farmeli piacere, prendendo come esempio il
fatto che prima odiavo Harry e poi l’ho amato, e diceva sempre: «Ricordati di
Harry Potter!» E me lo ha ripetuto talmente tante volte che ora tutti in
famiglia conoscono questa frase.
Ogni tanto la dice ancora…
Per qualche motivo che non ricordo,
quando andavo ancora alle elementari entrai in possesso di “Strega come me”, di
Giusi Quarenghi. Non mi ispirava per niente e di fatto lasciai lì il libro a
prendere polvere sul comodino (o meglio dietro il comodino, sotto il comodino,
come tassello per non far traballare il comodino!) per parecchio tempo.
Un giorno mi colpì la terribile
maledizione del lettore, che ogni tanto capita al lettore distratto, o troppo
impegnato, o a quello che è ancora economicamente dipendente dai genitori, come
ero io all’epoca: ero rimasta senza
niente da leggere. Fui colta prima dalla noia, poi dalla disperazione,
infine dalla rassegnazione. Sarei stata costretta a giocare con le Barbie per
un sacco di tempo, cavolo! Infine, i miei occhi caddero sul volumetto che stava,
appunto, sotto al comodino e, in mancanza di altro, con un’alzata di spalle
iniziai a leggerlo.
Nemmeno dieci pagine e già mi domandavo
se anche io avrei potuto frequentare un collegio per streghe. Ricordo che
risposi al questionario che c’era in mezzo al libro, che riguardava i requisiti
per entrare a far parte del collegio, ma con mio grande scorno scoprii di non
averne nemmeno uno. Il disappunto durò poco comunque, perché il libro era
troppo bello per perdere tempo a pensare che, uffa!, non ero una strega.
“Strega come me” è stato il primo libro
che mi ha sinceramente stupita, e da allora ho imparato a dare una chance ai
libri che mi finiscono fra le mani praticamente per caso. C’è sempre la
possibilità che diventino alcuni dei miei libri preferiti.
Da allora, il mio comodino traballa.
Durante le vacanze di Natale, un anno,
andai a trovare dei parenti in campagna e, dato che sapevo che d’inverno non
c’era molto da fare lì (nessuna possibilità di correre su e giù per le colline,
né di mangiucchiare l’uva dalle viti o di fare a gara a chi lanciava le mele
cadute dall’albero più lontano, insomma, una vera noia!), portai con me un
libro.
Fu una saggia decisione. Intanto, perché
non c’era davvero molto da fare. E poi perché “Gelsomino nel paese dei
bugiardi”, di Gianni Rodari, divenne subito uno dei miei libri preferiti.
Oltre alle illustrazioni, che erano
bellissime, aveva dei personaggi davvero incredibili di cui ora purtroppo mi
sfugge il nome. So bene che c’era un gatto fatto di grafite che inneggiava alla
rivoluzione scrivendo slogan contro il re lungo le strade, e che il re in
questione altri non era che un pirata calvo che indossava bellissime parrucche.
La cosa che mi piaceva di più del libro
era che nel paese dei bugiardi tutti dovevano parlare e comportarsi al
contrario. Se volevi il pane dovevi andare dal cartolaio e se volevi della
carta dal panettiere. I somari venivano premiati e gli studenti diligenti
puniti, e per fare un complimento si doveva dire: «Hai una bella faccia da
schiaffi!»
Questo è un libro che consiglio a tutti
i bambini.
Direi
che ho finito con i libri della mia infanzia. Sicuramente ce ne sono molti
altri che ora non mi vengono in mente, ma direi che questi, se me li sono
ricordata subito, sono di certo i più belli.
Tempo fa, nel reparto per ragazzi della
Feltrinelli della mia città, ho visto un libro che ha attirato su tutti i
fronti la mia attenzione. Il bordo della pagine era nero, la copertina sembrava
imbottita ed era morbida al tatto. Il disegno sulla copertina era carino, il
titolo accattivante e la descrizione decisamente interessante. Non mi ci volle
molto per decidermi, così lo comprai e fui di ritorno a casa con “Gli incubi di
Hazel”, di Leander Deeny.
Hazel è una bambina di dieci anni che
viene costretta dai genitori a passare tre settimane di vacanza dalla sorella
di sua madre, zia Eugenia Pequierde.
Zia Eugenia è vedova e ha un figlio,
Isambard, della stessa età di Hazel. Vivono entrambi in un enorme maniero
fatiscente assieme ad una noiosa servitù. La zia si rivela subito antipatica e
noiosa. Continua a parlare del marito, morto in un incidente, e non fa che
paragonare Hazel a Isambard, che a detta sua è un bambino educato e intelligente,
tanto che conduce moltissimi esperimenti.
Hazel scopre che nel bosco vicino al
castello vivono degli strani mostri che dicono di essere gli incubi della zia
Eugenia. Ognuno di loro è formato da due animali diversi e sono: Geoff il
gorillopardo, Francis lo struzzorana e Noel il pitospino. Passano il tempo a
cercare di spaventare zia Eugenia, ma non sanno come fare, così Hazel si offre
di aiutarli, per vendicarsi dell’antipatia della zia.
Ma chi ha creato gli incubi?, e perché
costui, chiunque egli sia, vuole dare il tormento alla zia Eugenia? Hazel
scoprirà le risposte dove meno se lo aspetta, nella cornice di un castello in
rovina e circondata da misteri oscuri e personaggi bizzarri – cani
Frankenstein, anatre che fumano, cameriere che sanno cucinare solo sugo di
carne!
La verità è la più incredibile di tutte…
Sono rimasta ammaliata da questo libro
sin dalle prime pagine. Potrebbe trarre facilmente in inganno con la sua trama
adatta ad un pubblico di bambini, ma avendo già letto il finale vi sconsiglio
vivamente di farlo leggere a figli o nipotini.
Lo stile è molto scorrevole e divertente
e, anche se la storia cardine non prende subito il via, dopo appena un paio di
capitoli si continua a leggere giusto per scoprire quali bizzarrie ci saranno
nelle prossime pagine.
Oltre a questo i disegni all’inizio di
ogni capitolo sono veramente belli, e già solo per quelli adoro “Gli incubi di
Hazel”.
L’ambientazione della storia è cupa,
vagamente gotica, e anche la sensazione che ci viene trasmessa è quella di
essere in un mondo sospeso, lontano e differente da quello al quale siamo
abituati. Cupo diventa anche lo svolgersi dei fatti ad un certo punto del
libro, e lì ci si rende conto che non si sta certo leggendo una favoletta per
bambini.
Questo è uno dei pochi libri che ho mai
letto in cui ci sono personaggi che non vogliono piacere al lettore. Sono
pittoreschi e fanno sorridere, ma hanno anche un lato oscuro e genuinamente cattivo.
La cosa interessante e anche molto bella, a mio parere, è che alla fine i
personaggi riescono bene o male a perdonarsi fra di loro, e a volersi bene
comunque.
Leander Deeny ha creato una storia
popolata da persone (e mostri) reali. Diventa impossibile per il lettore
elevarsi a giudice e scegliere il personaggio migliore, l’eroe positivo, perché
non ne esiste nessuno. Tuttavia non si riesce nemmeno a trovare la volontà per
condannarli, perché anche se hanno fatto cose malvage avevano le loro ragioni:
rabbia, tristezza, amarezza. Tutte ragioni umane che possiamo comprendere e a
volte ahimè anche condividere.
Leander Deeny, classe 1980,
esordisce nel 2008 con "Gli incubi di Hazel",
in lingua originale "Hazel's phantasmagoria".
Non posso che concludere consigliando
questo libro un po’ a tutti. Io non sono brava a consigliare libri, basta che
mi piaccia per essere consigliato al mondo intero! “Gli incubi di Hazel” però
ha un po’ della favola e del fantasy, un po’ della storia horror e del mistero,
e giusto un pochino del romanzo di formazione.
Questo post è indirizzato prima di tutto
alle donzelle, ma solo per una questione di conoscenza mia personale. Qui
parliamo di cotte, le cotte che ci prendiamo per i personaggi dei libri.
L’unico motivo per cui non includo anche
i maschi in questo rosabondo delirio,
è che non conosco molti ragazzi che si sono presi delle cotte analoghe. Il mio
fidanzato è innamorato di Stephen King – il che suona preoccupante – ma, anche
se l’autore stesso si è inserito come personaggio nella serie della “Torre nera”,
non mi pare il caso di prendere in esame questa cosa. L’unico commento che ho
ricevuto da parte di un ragazzo ad un personaggio è stato da parte del mio
collega quando gli ho prestato Eragon. Il suo verdetto finale è stato che
Eragon «è per forza finocchio, perché altrimenti com’è possibile che in quattro
libri non si schiaccia quella bella topa di Arya nemmeno una volta?»
Alla luce di questi fatti ho deciso di
lasciare perdere qui il punto di vista maschile, e dedicarmi solo a quello più
romantico e a me congeniale di noi donzelle.
Orbene, sono pronta a smascherare alcune
delle mie cotte più famose, e a difenderle dagli attacchi di chi dice che è
assurdo prendersi una cotta per qualcuno che non esiste.
Ron
Weasley – Harry Potter, di J. K. Rowling
Ovviamente essendo Harry Potter uno dei
primissimi libri a cui mi sono appassionata era logico che lì in mezzo ci fosse
qualcuno per cui prendermi una cotta. Andavo sì e o alle medie, se non ancora
in quinta elementare, quando il mio cuoricino di lettrice ha trovato il
personaggio che più si adattava all’idea che avevo allora di ideale romantico:
Ron Weasley!
Ron Weasley era tutto ciò che a dieci
anni potevo desiderare: timido, impacciato, divertente e con i capelli rossi. Non
so dirvi perché, ma i capelli rossi mi stavano molto simpatici.
Murtagh
– Il Ciclio dell’eredità, di Cristopher Paolini
A quindici anni i miei gusti erano un
tantino cambiati e, anche se ho dovuto attendere fino ai venti per sapere come
la storia finiva – e non è che mi abbia entusiasmata ammettiamolo –, della mia
cotta sono sempre stata convinta.
Personatemi fans di Eragon ma, a mio
parere, il Cavaliere dei Draghi era un po’ una mezza tacca rispetto a Murtagh
che, oltre ad avere dalla sua un passato lacrimevole e un’aura tenebrosa, aveva
quello che ogni personaggio maschile di un libro deve avere per essere non solo
affascinante, ma persino sexy: una cicatrice! E non una cicatrice piccola,
intendo una vera cicatrice. Quella di Murtagh, in particolare, era sulla
schiena – e cosa c’è di più sexy di una schiena? – e l’attraversava in
diagonale per tutta la sua lunghezza. Poi, come nei libri sia possibile che le
cicatrici siano affascinanti e non degli sfregi, per me rimarrà sempre un
mistero. Rimane comunque il fatto che Murtagh, con o senza cicatrice, aveva
fascino.
Il personaggio di Murtagh era molto
interessante perché era sempre diviso fra il bene che desiderava fare, e il
male che era costretto a fare. Questo gli dava delle sfaccettature interessanti
e in special modo nell’ultimo libro lo hanno reso sempre più reale. Paolini ha
saputo dargli un carattere adeguato al suo passato e degli atteggiamenti che
rispecchiano la sua personalità nel presente.
Murtagh secondo me è il più vero dei
personaggi della saga, e forse anche per questo è quello che mi piace di più.
Alex
– La città delle bestie, di Isabel Allende
Il realismo
magico degli scrittori sudamericani mi è sempre piaciuto, perché – per ovvi
motivi – l’ho sempre compreso alla perfezione e condiviso, così come i
personaggi tipici che questi autori fanno nascere, personaggi dalle caratteristiche
bizzarre e improbabili ma, allo stesso tempo, estremamente umani.
Isabel Allende nel suo romanzo per
ragazzi “La città delle bestie” non utilizza questi personaggi sin troppo
assurdi, tali da sembrare irreali. Al contrario il suo protagonista è un
ragazzo come tanti, che si ritrova ad affrontare un’avventura straordinaria e,
grazie alla sua sensibilità e alla sua intelligenza, comprende e accetta i
nuovi mondi che va a scoprire, imparando qualcosa ad ogni viaggio.
Forse è per questo che quando ho letto
il libro mi sono presa una cotta terribile per Alex, il protagonista. Perché
era talmente ordinario da sembrare reale e raggiungibile.
Edward
Cullen – Twilight, di Stephenie Meyer
Volevo provare a nascondervelo, ma alla
fine mi sono detta che non è giusto rinnegare il proprio passato e, anche se ad
un’occhiata più attenta il sex symbol dei vampiri è decisamente un uomo
straziante e sessista, per un po’ di tempo ho sognato che i vampiri esistessero
sul serio!
Non ho molto da dire su Edward, in
quanto la cotta mi è passata – mentre gli altri avranno sempre un posticino nel
mio cuore, e non li ho certo nominati tutti! – ma per il breve periodo in cui
sono stata cotta di lui sono stata una sognatrice decisamente fra le nuvole,
non c’è che dire.
Dopo la parentesi fangirlosa mi ergo a difesa delle cotte letterarie!
Quando si legge un libro che piace ci si
immerge totalmente nella storia. I suoi intrighi e colpi di scena diventano la
nostra preoccupazione mentre leggiamo, e i personaggi sono i nostri eroi,
quelli che affrontano la sfida che tanto ci emoziona.
Spesso portano con sé una personalità
propria, ed è quella a conquistarci. Poco importa che sia inventata, il fatto
che sia immaginaria non significa che sia meno reale, perché quello che conta è
ciò che ci suscita e ci insegna, che non è certo una fantasia.
Io credo che gli scrittori, quando
inventano un buon personaggio, si rendono conto ad un certo punto che ha una
personalità propria. Certo, loro l’hanno creata e la conoscono a menadito, ma sanno
che i personaggi per rimanere fedeli a loro stessi potrebbero fare qualcosa che
gli scrittori non avevano pianificato.
Se un personaggio ci lascia qualcosa,
esprimendo dei dubbi che credevamo solo nostri, gioendo in situazioni analoghe
alla nostra e soffrendo per motivi per i quali abbiamo sofferto anche noi,
allora mi sembra normale affezionarsi un po’ a questo personaggio.
Se poi aggiungiamo che il tizio in
questione è alto, tenebroso e maledettamente sexy, il gioco è fatto!
Il pensiero comune è che prendersi una
cotta per una persona che di fatto non esiste sia una cosa sciocca e inutile, e
scommetto che in molti pensano che chi lo fa non ha un fidanzato/fidanzata e
non ne troverà mai una/uno all’altezza degli standard di perfezione dei libri.
Mi trovo a dissentire. Le persone
fantasticano di continuo, e non per questo non è detto che non apprezzino e
amino quel che hanno già. Anzi io penso che fantasticare faccia bene ogni tanto
perché, quando abbiamo finito di pensare a quanto sarebbe bello stare nell’amazzonia
fra le braccia di Alex, affrontiamo la giornata in maniera diversa. E alla
fine, quando ad abbracciarci non è Alex ma qualcun altro, allora ci rendiamo
conto che quello sì che è un abbraccio che scalda davvero, come il nostro
abbraccio immaginario non potrà mai fare.
Ah, maledizione! Questo doveva essere un
post tranquillo e scanzonato, invece è andato a finire nella mia solita
filosofia spicciola! Non riesco proprio a farci nulla: quando voglio scrivere
qualcosa di serio finisco per fare un macello, quando invece voglio rimanere
leggera finisco per filosofare.
A parte questo, quali sono le vostre
cotte letterarie e cosa ne pensate in generale?
Ho notato che, proprio per natura mia,
le “cose a puntate” non mi fanno impazzire. O meglio, odio tutto ciò che la
tira per le lunghe. Dopo un po’ se una serie tv, un libro o un fumetto non
accennano a finire, io lo mollo.
Vi basti pensare che l’unico telefilm
che ho visto per intero è stato Ugly Betty, che dura solo quattro stagioni.
Altri telefilm che mi sono piaciuti sono Dexter, in cui ogni serie può essere
vista a sé, e Misfits, perché dura pochissimo – ammetto che complice è stato
anche Robert Sheehan con il suo stupido personaggio!
Andiamo... come resistergli?
Stessa cosa con gli anime, il che è un
vero problema perché hanno questa brutta abitudine di durare anni, e anni... e…
anni. Ho visto tutto Death Note, Soul Eater, GTO, Lovley Complex e Host Club.
Ma non chiedetemi di guardare quelle cose che durano cinque o seicento puntate
perché potrei decidere di mettere fine alle mie sofferenze molto prima.
In quanto a libri, anche lì non vado
molto lontano. Ho letto pochissime serie, sempre per lo stesso motivo.
La più lunga, in quanto a numero di volumi,
è Harry Potter. Ancora in lettura ho “Abarat”, che doveva essere una trilogia
ma alla fine Clive Barker ha sadicamente deciso che
vuole scrivere altri due libri, e manca ancora l’ultimo. Poi ci sono Paolini con “Il
Ciclo dell’Eredità”, e la Mayer con “Twilight”, che ne contano quattro. Infine
ricordo vagamente che lessi “Le cronache del mondo emerso” di Licia Troisi, ho
letto (e adorato!) la saga “Millennium” di Larsson e sto ancora leggendo “Hunger games”. Tutte trilogie.
Alla luce di questo credo che la
trilogia sia il massimo cui posso aspirare, ora. Anzi ad essere del tutto sincera
cerco di scansare libri che fanno parte di serie. Non che le serie siano in
qualche modo peggio dei libri autoconclusivi, solo che io preferisco questi
ultimi.
Riconosco che ci sono in entrambi dei
vantaggi e degli svantaggi.
Può capitare di comprare un libro e, una volta tornato a casa, renderti conto che si tratta del secondo di una serie.
Possiamo sempre crogiolarci nell’idea che ritroveremo il nostro personaggio preferito nel prossimo
libro.
L’autore di una serie può decidere ad un
tratto di darsi all’ippicca, andare a vivere in un isola deserta o uccidere
tutti i personaggi in una zombie apocalypse perché si è stufato. Lui ha il potere!
Una volta finita una serie possiamo
mettere tutti i libri sullo scaffale uno di fianco all’altro in bell’ordine e
ammirarli amorevolmente come farebbe una madre con i suoi figli.
Quando finiamo il volume di una serie
saremo mentalmente instabili fino a che non avremo il prossimo fra le mani.
Se vogliamo sapere come
una serie va a finire dobbiamo spendere un bel po’ di danari.
I lettori di serie sono costantemente
minacciati dagli spoilers.
Fatemi
sapere un po’ che ne pensate. Preferite serie o autoconclusivi? Pensate che ci
siano altri pro o contro per l’uno o per l’altro genere? Chiaramente io, da
difensora degli autoconclusivi, ho trovato più contro nelle serie, ma sono
parecchio curiosa di sapere se ci sono dei pro che non ho considerato. O se gli
autoconclusivi hanno dei contro che mi sono sfuggiti.