mercoledì 28 dicembre 2016

Roderick Duddle – Michele Mari

Passo da una recensione difficile all’altra. Ne inizio oggi una nuova e sono sicura che ci metterò qualche giorno per finire (vediamo, ho iniziato prima di Natale, sono passati i giorni fatidici e fra poco è il nuovo anno, sì, ci ho messo un po’. A proposito, buone feste!). Così, su due piedi, vi dico che questo romanzo mi ha appassionata, l’ho letto con entusiasmo e aspettativa, lo consiglio a tutti e vorrei proprio che poteste leggerlo subito per dirmi cosa ne pensate!
Ma proprio perché mi è piaciuto tanto vorrei tradurre in un ragionamento più complesso e darvi delle motivazioni che siano meno astratte, perché questa è una storia che merita di essere letta. In quanto tale non posso che sforzarmi per darvi più di un valido motivo per leggere “Roderick Duddle”, di Michele Mari.

Impossibile parlarvi della trama, perché è più complessa e ingarbugliata di un gomitolo di lana dopo che ci ha giocato un gatto. A grandi – grandissime – linee posso darvi una piccola introduzione:
Giunta alla vecchiaia senza eredi e con un grosso peso sulle spalle, la ricca lady Pemberton decide di rintracciare la figlia che aveva dato tempo addietro ad un convento per lasciarle la sua eredità. Dopo alcune ricerche viene a sapere che la ragazza, che lavorava in un postribolo chiamato l’Oca Rossa, è morta e le ha lasciato un nipotino, tale Roderick. Per provare la sua identità il bambino ha un medaglione, che fu lasciato da una più giovane lady Pemberton alla figlia neonata quando venne abbandonata al convento, e che questa a sua volta in punto di morte ha lasciato al figlio.
La Badessa del convento in cui era stata abbandonata la ragazza vede subito in quella l’occasione per ottenere l’eredità della famiglia Pemberton: farà sì che il convento si occupi della tutela del bambino e, alla morte di lady Pemberton (che sembra ogni giorno più vicina), curerà il patrimonio fino a che il bambino non avrà compiuto i diciotto anni. Scopre però che il bambino è stato cacciato dall’Oca Rossa dal proprietario, il signor Jones, che lo teneva con sé solamente perché sua madre era viva. Quando Jones capisce che potrebbe ottenere qualcosa di quell’immensa eredità manda alcuni uomini in cerca di Roderick.
Allo stesso tempo la Badessa, stanca di aspettare, falsifica il medaglione, prende un bambino orfano, lo spaccia per il vero Roderick, lo fa adottare, e invia un killer a uccidere il vero bambino.
Allo stesso tempo i due malviventi inviati da Jones a recuperare Roderick vogliono guadagnarci qualcosa di più, quando capiscono che c’è una grossa somma in ballo.
Allo stesso tempo Roderick incontra un marinaio che lo prende sotto la sua ala.
Allo stesso tempo il convento trama per uccidere lady Pemberton!
Allo stesso tempo…!
Ora capite perché è meglio che scopriate da voi la trama di questo romanzo. Di più non posso dirvi perché non ci capireste niente, e anche perché vi rovinerei la sorpresa.
Mi riesce difficile immaginare come l’autore sia riuscito a rimanere al passo con la sua stessa storia, tanti sono i personaggi e i sotterfugi, tante sono le ipotesi che ognuno di loro fa e che causano un malinteso dopo l’altro. Nel caso dovessi mai incontrarlo sarei curiosa di domandargli se aveva uno schema dettagliato da qualche parte, un grafico a torta o dei disegnini magari.

Oltre alla trama la prima cosa si può notare in questo romanzo è lo stile. L’opera fa pensare, sia per le atmosfere che per linguaggio, a Dickens. Roderick diventa così una sorta di Oliver Twist ma, grazie all’ironia dell’autore, acquista tratti moderni e la narrazione si fa più leggera, meno drammatica sicuramente, più vicina ai romanzi di avventura e alle satire, che ai drammi con cui il romanziere britannico. Ho apprezzato molto il linguaggio che usa Michele Mari: frasi lunghe, parole desuete, spesso si esibisce in voli pindarici non da poco ma l’attenzione del lettore non ne risente.
L’unico difetto che gli posso trovare è di aver esagerato un poco con gli intrighi, tanto che le parti in cui i personaggi cercavano di raccapezzarsi sulla vicenda erano diventate ad un tratto incomprensibili. Dopo un po’ me le facevo scivolare sotto gli occhi, impaziente di arrivare alla fine del paragrafo, perché tanto sapevo che non ci avrei capito nulla.
La quantità di personaggi potrebbe far pensare che siano trattati con superficialità, ma non è così. I principali sono inquadrati alla perfezione, tanto che alla scomparsa di alcuni mi sono dispiaciuta e per la vita – o la morte – di altri mi sono rammaricata.
Avevo iniziato a leggere questo romanzo pensando che si trattasse di una storia di avventura concepita per i ragazzi, ma mi sbagliavo di grosso. Il mondo in cui veniamo catapultati è sì realista ma, proprio per questo, crudo. I personaggi si muovono in base a interessi economici, forti passioni, desideri oscuri, e per questo sono senza scrupoli.

Ho riletto ora la mia recensione e, ahimè, devo ammettere che non è questo granché. Realizzo ora che “Roderick Duddle” è un romanzo che va aldilà delle mie capacità di critico!
Insisto però nel consigliarvelo, anche se questo post è uno fra i più sconclusionati che io abbia mai scritto, perché fra le pagine di questo tomo si nasconde una storia avvincente, dei personaggi incredibili, piccoli atti di coraggio e di amore, grande ironia, uno stile elegante e un’ironia pungente, la cura per i dettagli.

Una storia, in sintesi, che merita di essere letta.

martedì 13 dicembre 2016

L’abbazia di Northanger – Jane Austen

Sto facendo parecchia fatica a scrivere questa recensione, tant’è che la prima stesura è stata scritta a mano su un quadernone (ho pensato che allontanarmi dal pc poteva essere utile). Forse perché è da un po’ che non scrivo recensioni, o perché ho dei dubbi su questo libro.
Inizierò da qualcosa di semplice allora, un riassunto di “L’abbazia di Northanger”, di Jane Austen.

Catherine Morland, la maggiore delle figlie dei Morland, viene invitata dai vicini, i coniugi Allen, a passare le vacanze con loro nella cittadina di Bath.
Pochi giorni dopo il loro arrivo Catherine fa amicizia con Isabella Thorpe e suo fratello John. La prima appare come una ragazza deliziosa ma, con l’andare avanti del tempo, risulta vanitosa, egoista e capricciosa. Il fratello dimostra di essere antipatico sin dal primo istante: non fa che vantarsi di ciò che ha, degli affari che conclude, e sminuisce tutti gli altri.
Per fortuna Catherine incontra anche la famiglia Tinley e fa subito amicizia con Elaeanor e con suo fratello Henry – invaghendosi subito di quest’ ultimo. Con loro instaura un’amicizia sincera, che le procura un invito alla casa di famiglia dei Tinley, l’abbazia di Nothanger.
Catherine nutre molte aspettative per questa dimora perché le ricorda le ambientazioni dei romanzi gotici che ama tanto, tuttavia rimane delusa dalla normalità della casa. Dopo una figuraccia proprio con Henry Tinley decide di lasciare le fantasie gotiche nei libri, e di vivere la sua vita senza cercare ovunque un mistero che, di fatto, non esiste.
La protagonista torna a casa dopo aver imparato molte preziose lezioni sulla società, prendendo le distanze dai poco sinceri fratelli Thorpe e guadagnandosi anche una richiesta di matrimonio da parte di Henry Tinley.

Ho letto altri tre romanzi di Jane Austen e, sebbene il mio giudizio per ognuno sia diverso, non posso dire di nessuno che non mi sia piaciuto per ragioni di stile. Tranne questo. Presto spiegato il fatto: “L’abbazia di Northanger” è stato il primo romanzo scritto dalla Austen e pubblicato postumo dai fratelli dell’autrice.
Si intuisce uno stile alle prime armi, che ancora sperimenta la sua scrittura. L’autrice si chiede fin dove può e riesce ad arrivare, cosa dovrebbe scrivere e come dovrebbe farlo. A questo proposito si riconoscono alcune caratteristiche della Austen già autrice avviata, come l’ironia pungente indirizzata all’alta società, la costruzione di un gruppo formato da poche famiglie le cui vicende costituiscono la trama. Inoltre vediamo alcune delle figure che verranno usate in quasi tutti i suoi romanzi: la ragazza viziata, il giovanotto prepotente, la donna anziana un po’ frivola ma sostanzialmente buona, il capofamiglia ambizioso. Compaiono tutti ma, a mio parere, sono troppo eccessivi in questo romanzo per essere sottilmente ironici, diventano grossolani.
Una delle cose tipiche della scrittura della Austen che, invece, non ho trovato – ed è stato un piacevole cambiamento – è la diffidenza per i personaggi troppo simpatici. In tutti i suoi libri c’è un personaggio che si dimostra sin da subito estremamente affabile e che, in seguito, si scopre essere negativo. Questa volta non è successo ed è stato piacevole non aver previsto il risvolto ‘inaspettato’ di uno dei personaggi.

Il romanzo vorrebbe essere, immagino, una sorta di presa di posizione. La Austen qui dichiara cosa vuole scrivere e perché, e in effetti mantiene la parola nei suoi seguenti romanzi. In questo non posso fare a meno che ammirarla. Raramente si ha un’idea chiara del proprio stile, delle possibilità della propria scrittura e di cosa si vuole raggiungere con essa. Lei l’aveva, e anche in giovane età.
Ma vediamo quali sono queste intenzioni:
Tramite la sua eroina, ma anche apertamente rivolgendosi proprio al lettore, la Austen si dichiara in difesa del romanzo, contro coloro che all’epoca lo reputavano una lettura frivola, priva d contenuti e indirizzata ad un pubblico ritenuto di categoria B. Dice che il romanzo non solo è pari a saggi e articoli di studiosi, ma addirittura superiore, in quanto coinvolge il lettore e gli fornisce insegnamenti morali più che scientifici.
Il libro è inoltre una critica ai romanzi gotici, molto di moda all’epoca in cui lei scrisse “L’abbazia di Northanger”. Buona parte della trama ruota intorno al fatto che la casa dove la protagonista è ospite nasconda un segreto, e che gli stessi abitanti siano tuttora in pericolo in quanto una persona malvagia si aggira fra quelle mura, indisturbata. Inoltre la stessa Catherine è l’eroina dei romanzi gotici per eccellenza, una ragazza normale che si ritrova suo malgrado a vivere una situazione di pericolo. Prendendo in giro le situazioni che si vengono a creare in questi racconti la Austen sembra voler dire che non c’è bisogno di tante fantasie, peraltro impossibili, per scrivere un buon romanzo. Basta guardare fuori dalla finestra, parlare con i vicini, ascoltare le chiacchiere all’ora del tè, per sentirsi ispirata e imbastire una storia più che interessante.

Non diventerà mai uno dei miei romanzi preferiti di quest’autrice, tuttavia è perdonata in base al fatto che si tratta del primo da lei mai scritto e, nonostante tutto, è una storia piacevole e la consiglio a chi ama Jane Asuten.

Ma che non vi venga in mente che si tratta di un romanzo gotico!

lunedì 5 dicembre 2016

I sopravvissuti


La gif dice tutto.
Sì, sono viva. Senza tediarvi troppo, vi dico solo che ho impegnato il 99% delle mie energie prima per cercare casa, poi per compare la prescelta e in seguito per ristrutturarla. Ora che siamo in dirittura d’arrivo sento finalmente di stare tornando in una dimensione di normalità.
Riprendo quindi il blog!, che, devo ammettere, mi è mancato parecchio. Riprendo i commenti ai blog che seguo, che ho continuato a leggere con interesse ma saltuariamente e sempre fra un minuto di tempo e l’altro, per cui non ho mai avuto davvero tempo di lasciare un commento agli articoli.
In questo periodo mi sono concentrata su altre priorità, lasciando il resto in standby. Ho fatto come quegli animali che regolano l’afflusso di sangue solo agli organi vitali per sopravvivere in casi estremi. Ho rallentato l’afflusso di tutto ciò che non era essenziale e ho diminuito persino le letture (ora capite come la situazione era spossante!).
La maggior parte dei libri che leggevo finivano per stancarmi presto e li ho lasciati perdere senza troppi rimorsi. Pochissimi hanno resistito, e di questi ancora meno sono quelli che ricordo con piacere. A loro va dedicato in premio questo post, dato che sono scampati al libricidio.
Quindi ecco a voi, con tutti gli onori, i sopravvissuti.

Jonathan Stange e Mr. Norell, di Susanna Clarke
All'inizio dell'Ottocento, della magia inglese rimangono quasi solo leggende come quella di Re Corvo, il grande mago capace di fondere la sapienza delle fate con la ragione umana. Ma dalle regioni del Nord un tempo visitate da elfi e folletti appare il signor Norrell, capace di far parlare le statue della cattedrale di York: la notizia sembra segnare il ritorno della magia in Inghilterra, e Norrell si trasferisce a Londra per offrire i suoi servizi magici al governo, impegnato nella guerra contro Napoleone. Ma una profezia parla di due maghi che faranno rinascere la magia inglese. Uno dei due maghi è Norrell. E l'altro chi è?

Con tutto il rispetto per chi scrive le quarte di copertina, ma questa è davvero pessima.
Non rende affatto giustizia al libro, allo stile, al linguaggio, alla trama, proprio a niente! Ho letto questo romanzo dopo averne letto la recensione sul blog “La Leggivendola”, che adoro e seguo da anni. Mi fido ciecamente delle sue recensioni e, sebbene a volte i miei gusti vadano altrove, quando trovo qualche libro che mi sembra interessante e che lei ha recensito bene la curiosità aumenta e la voglia di leggero è irresistibile.
Infatti l’ho letto.
Che dire di “Jonathan Strange e Mr. Norell”? Il commento a caldo che avevo da fare, non molto approfondito né ricercato, a chi mi chiedeva come andava la mia lettura in quel periodo, era: «È come se Jane Austen avesse deciso di lasciar perdere i matrimoni degli ereditieri e si fosse dedicata al fantasy». Ed è proprio così, per diversi motivi.
Il linguaggio della Clarke è minuzioso, elaborato, e ci riporta in un’epoca che solo i romanzi ottocenteschi sanno ormai evocare. Trovo questo particolare interessante perché l’autrice poteva benissimo adattare i toni ad una più moderna scrittura, invece ha deciso di rimanere fedele all’epoca in cui si svolge la vicenda. Mi rendo conto che non sempre si può fare (un romanzo in latino ambientato nell’epoca d’oro dell’impero romano non è il massimo, ebbene sì), ma quando se ne ha la possibilità questo dettaglio aumenta la magia del romanzo. Mi è capitato di leggere romanzi storici ma nessuno utilizzava un linguaggio così fedele all’epoca trattata. Penso che una scelta come questa sia da lodare perché non è affatto facile scrivere in un linguaggio così lontano da noi per un libro che oltre ad essere lungo tratta anche temi piuttosto estranei all’epoca.
La trama è complessa e prosegue senza fretta, proprio come nelle epopee familiari di fine ottocento. Conosciamo a fondo i personaggi, la loro vita e coloro che gli si muovono attorno. Di ognuno leggiamo le disavventure e, alla fine, anche quelli che consideravamo semplici comparse hanno modo di avere un ruolo decisivo. Nessuno è lì per caso, nessuna pagina è scritta a vuoto.
La storia si chiude con una drammaticità inaspettata. Non ci sono vincitori né vinti, non esiste nessuno che ne esca completamente pulito. L’ho trovato un romanzo massiccio, che si scopre essere alla fine molto più di quello che appare. Non è solo un fantasy, non è solo un’avventura, né una prova di stile eccellente, è una storia complessa capace di incantare il lettore. Personalmente mi ha trasmesso l’idea dell’esistenza di forze a noi incomprensibili, cose “più grandi di noi” con le quali abbiamo a che fare e di cui scorgiamo un barlume di quando in qua, ma che non potremo mai capire del tutto.

La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Dìaz
“La breve e favolosa vita di Oscar Wao”: già dal titolo si capisce che il romanzo non avrà un lieto fine classico. Ma non importa. Perché la vita di Oscar - ribattezzato Wao da un amico dominicano che storpia il nome di Wilde – è davvero favolosa. Da favola. Da favola letteraria, magica e realistica al tempo stesso. Nasce e cresce nel New Jersey, il grasso, poco attraente, intelligente e parecchio eccitato Oscar. Sua madre Belicia è una ex reginetta di bellezza scappata da Santo Domingo perché perseguitata dal clan del dittatore Trujillo, la sorella, Lola, è una ragazza dolce, assennata e insieme spericolata come tutte le dominicane di Diaz. L'intero albero genealogico di Oscar, come quello di altre migliaia di dominicani, è composto da figure torturate, espropriate, martirizzate.

Altro libro, altro blog. Mi deve perdonare l’autrice se non ricordo esattamente quale, di tutti quelli che leggo, sia quello che mi ha regalato questa perla. (Se sai di essere tu, fatti avanti.)
Ciò che più mi piace della letteratura sudamericana è il cosiddetto ‘realismo magico’. Se avete letto un romanzo qualsiasi di Isabel Allende o Gabriel Garcia Marquez sapete a cosa mi riferisco. Spiegarlo mi risulta complicato. In questi libri accadono fatti inspiegabili, appunto magici, che tutti accettano senza farsi patemi e andando avanti con la vita, pensando che in fondo ci sono cose peggiori da sopportare, un po’ come i familiari di Banjamin Button non si sono mai fatti un problema del loro pargolo vecchio e brutto. Junot Dìaz ha smorzato questi toni, ha reso tutto un po’ più moderno, più reale e meno magico, tuttavia il romanzo è come circondato da un alone di romanticismo, come se stessimo leggendo una fiaba.
I personaggi sono estremamente umani, adorabili nella forza che tirano fuori tutti i giorni per andare avanti e commoventi nei madornali errori che compiono. Ho amato tutti i personaggi di questo romanzo, dal migliore amico di Oscar, il tipico sciupafemmine dominicano, alla svampita e bellissima Belicia che, da giovane, faceva girare la testa a tutti gli uomini del paese ma era innamorata dell’unico sbagliato. Il protagonista, Oscar, rimane solo una parte di questo folle e ricco affresco ma la cosa non mi infastidiva. Mentre leggevo pensavo che avrei voluto conoscere uno come lui, un ragazzo impacciato e romantico, e che gli sarei stata amica. Poi mi sono resa conto che proprio quella era la sua condanna. Il povero Oscar veniva sempre friendzonato, un po’ per colpa sua, un po’ per malignità della ragazza che era oggetto del suo interesse spesso.
Ma vi dico una cosa (concedetemi lo spoiler o saltate questa riga, se volete leggere il libro). Alla fine della sua vita avrà conosciuto l’amore.

Wonder, di R. J. Palacio
È la storia di Auggie, nato con una tremenda deformazione facciale, che, dopo anni passati protetto dalla sua famiglia per la prima volta affronta il mondo della scuola. Come sarà accettato dai compagni? Dagli insegnanti? Chi si siederà di fianco a lui nella mensa? Chi lo guarderà dritto negli occhi? E chi lo scruterà di nascosto facendo battute? Chi farà di tutto per non essere seduto vicino a lui? Chi sarà suo amico? Un protagonista sfortunato ma tenace, una famiglia meravigliosa, degli amici veri aiuteranno August durante l'anno scolastico che finirà in modo trionfante per lui. Il racconto di un bambino che trova il suo ruolo nel mondo. Il libro è diviso in otto parti, ciascuna raccontata da un personaggio e introdotta da una canzone (o da una citazione) che gli fa da sfondo e da colonna sonora, creando una polifonia di suoni, sentimenti ed emozioni.

Questo è un libro per bambini. Ogni tanto mi capita di leggerli e spesso li trovo carini, anche se effettivamente adatti ad una certa fascia di età. “Wonder” invece è un libro per tutti, forse più per gli adulti che per i bambini.
Ho trovato interessantissimo pensare a come reagisco io di fronte ad una persona con problemi fisici che la rendono poco attraente. Personalmente se noto qualcuno con una deformazione cerco di mantenere gli occhi puntati altrove, non perché mi causi fastidio ma perché penso che potrei metterla a disagio, fissandola. Forse il mio atteggiamento viene confuso con qualcosa di orribile come il disgusto, e questo libro mi ha fatto riflettere molto su cosa potremmo fare per rendere meno pesante a queste persone il semplice gesto che noi diamo per scontato di uscire di casa. Inoltre mi ha fatto riflettere perché sempre più spesso, oggi, si sentono notizie di persone con handicap fisici o mentali che vengono maltrattate dai cosiddetti ‘normodotati’ (che tanto normo poi non sono, a mio parere, se trovano divertimento nell’umiliare una persona malata).
Consiglio questo libro a tutti. Rimane una narrazione per bambini e rende alcune questioni complesse molto più semplici di quanto in realtà non siano, le spoglia delle complicazioni di cui le rivestono gli adulti per esaminarle all’osso e renderle comprensibili anche ai più piccoli. Tuttavia non è un male perché ci mette di fronte ai fatti nudi e crudi e ci costringe a rispondere a delle domande semplici, senza via di scampo. Perché rifuggiamo da chi è diverso? Perché a volte ci sentiamo a disagio di fronte a persone con un handicap?
Forse leggendo “Wonder” qualcuno di noi riuscirà a darsi una risposta, e a trovare una soluzione.

Qualcuno di voi ha letto uno di questi libri? Mi auguri di sì perché li ho trovati tutti meravigliosi, in modo diverso. E se non li avete letti, vi ho incuriosito?

Awww, sono felice di essere tornata!

lunedì 11 aprile 2016

Il miniaturista - Jessie Burton

Sin dalla prima volta in cui vidi la copertina di “Il miniaturista”, di Jessie Burton, ne rimasi affascinata. Dando una veloce scorsa alla quarta di copertina decisi che lo avrei letto. Adoro i romanzi storici e leggerne uno ambientato nell’Olanda del 1600 mi sconfinferava, perché sia il periodo che il luogo mi piacciono.
Sono rimasta affascinata ed ero presissima dalla storia, ne leggevo pagina dopo pagina con una voracità cui solo i libri più affascinanti mi costringono. Tuttavia, dopo essere arrivata alla fine, fatico a dare un giudizio. (Attenzione: a seguito spoiler alert!)
 
La giovane Petronella è appena stata data in sposa ad un mercante di Amsterdam, Johannes Brandt, e si trasferisce in casa del marito. Ad accoglierla tuttavia c’è la sorella di lui, Marin, e i due servitori Otto e Cornelia, che non le riservano particolari gentilezze.
Nei giorni seguenti Petronella ha modo di constatare che la famiglia Brandt è una famiglia piuttosto peculiare. A tenere le redini degli affari sembra essere Marin, che punzecchia il fratello e dà consigli su come e cosa vendere. La giovane Cornelia non si comporta come una serva e il pacato Otto, che riscuote curiosità e maldicenze a causa della sua pelle nera, non sembra affatto uno schiavo. Inoltre Johannes fa capire a Petronella che non ha intenzione di consumare il matrimonio. La ragazza prende questo fatto come un’offesa, ma si rende conto che più di un mistero viene conservato in quella casa.
Per distrarsi Petronella contatta un miniaturista, che riempia di figurine il prezioso stipetto che Johannes le ha regalato per il loro matrimonio e che raffigura alla perfezione la loro casa. L’artigiano si trova a poche strade di distanza e dimostra subito un talento incomparabile a qualsiasi altro. La precisione e la bellezza dei piccoli oggetti fabbricati sono incredibili, ma quando Petronella si rende conto della troppa somiglianza che hanno con la realtà diventano inquietanti.
Le settimane passano e la ragazza scopre suo malgrado un segreto dopo l’altro. Gli amori giovanili di Marin che sembrano perseguitarla ancora oggi, mentre lei ha scelto una vita solitaria e libera. L’amante di suo marito, un giovane inglese, che accecato dalla gelosia e dal rancore fa in modo di far arrestare Johannes per sodomia. Infine il più grande segreto di Marin, che ha tenuto nascosta la sua gravidanza per mesi perché il bambino sarà segnato per sempre: figlio di una donna nubile e di uno schiavo nero.
In tutto ciò il miniaturista continua a inviare i suoi lavori, non più richiesti, un po’ desiderati e un po’ paventati, perché ad una seconda occhiata ogni pezzo rivela la realtà che agli occhi di Petronella era nascosta. Così scopre il piccolo bozzo sulla testa del cane di casa, ucciso con una coltellata, e il rigonfiamento della pancia di Marin sotto gli strati dei minuscoli vestiti che rivestono la sua bambola.
Ma chi è il miniaturista? Come fa a vedere ciò che ali altri è nascosto? Perché fa tutto questo?
 
Jessie Burton
Credo di essere arrivata alla fine di questo libro in pochissimo tempo grazie alla grande abilità di creare aspettativa e suspance di  Jessie Burton. In ogni pagina i segreti si infittivano e quando uno si risolveva altri due ne spuntavano, sinistri e terribilmente curiosi. Ad essere del tutto sincera è stato un po’ frustrante ad un certo punto, perché continuavano a spuntare nuovi punti interrogativi e le risposte erano tutte sommarie, spesso insoddisfacenti.
Lo stile della Burton è poetico e mi è piaciuto molto. Oltre ad essere scorrevole e facile da leggere, “Il miniaturista” è uno di quei romanzi che arricchisce ogni scena di meraviglia. Piccoli dettagli che rendono tutto un poco più tangibile e, allo stesso tempo, magico. Era come avere tra le mani una delle miniature del libro, piccola ma preziosa, pronta a rivelarsi nuova ad ogni occhiata.
I personaggi sono tutti profondamente umani. Pur rimanendo pittoreschi non sono eccessivamente eccentrici e questo lo apprezzo. Ci sono libri in cui pare che ogni nuovo personaggio voglia essere superlativo, ma non possono essere tutti così, solo uno può esserlo nello stesso romanzo, al massimo due. Gli altri devono limitarsi ad essere interessanti o ben costruiti. In questo caso si tratta del miniaturista, che rimane una figura misteriosa fino alla fine.
L’unico personaggio che non mi ha catturata è stato Petronella, però non a causa sua piuttosto per una scelta dell’autrice. Petronella arriva a casa Brandt nei panni di una ragazza di campagna. Ingenua, timida, totalmente fuori luogo nella grande città e nei salotti dei mercanti. Tuttavia una scintilla di forza e un carattere deciso si intuiscono fin dalle prime pagine, un carattere che deve solo sbocciare per far fronte ai momenti difficili. Apprezzo che questo avvenga, sul serio. Un personaggio femminile con gli attributi, più scaltra degli uomini, è una delle cose che preferisco in assoluto. Nel caso di Petronella questa trasformazione avviene in maniera troppo repentina. Arriva come un uccellino spaurito ma nel giro di due mesi prende in mano la situazione, fa nascere un bambino e porta a termine una trattativa economica senza averlo mai fatto prima. Perché far succedere tutto in soli due mesi, mi chiedo? Perché non fare due anni? In quel caso avrebbe avuto più senso, visto anche il legame intenso che nonostante tutto si viene a creare fra Petronella e Johannes – che dovrebbero però essere praticamente estranei, dato che il marito lavora tutto il giorno tutti i giorni oppure è in viaggio d’affari.
Altra cosa che non mi è piaciuta è il fatto che, alla fine del romanzo, non si venga a sapere nulla del misterioso miniaturista. Quelle tre domande che ho lasciato alla fine del riassunto non sono casuali. Io vorrei davvero sapere chi è ‘sto miniaturista, come fa a leggere il futuro e perché lo fa?! Domande fondamentali del romanzo, perché attorno a quelle ruota buona parte della storia, e che non ricevono alcuna risposta. Nemmeno una.
Questo mi ha lasciata piuttosto contrariata e mi sento come se mancasse un pezzo di libro, il pezzo finale che svela tutto.
 
Potrebbe sembrare il contrario, dopo tutta questa tiritera, ma “Il miniaturista” mi è davvero piaciuto. Purtroppo se ci ripenso torna in me quel senso di attesa, di aspettativa… va bene, okay, di disperazione profonda!, perché voglio sapere di più e non sono stata accontentata.
Anche questo è indice di quanto mia sia piaciuto il libro: se non fosse stato bello non mi angoscerei più di tanto su come va a finire.

giovedì 7 aprile 2016

Altre cose che si imparano dai libri

La prima cosa che ti dirà un autore, un manuale di scrittura creativa, o anche solo qualcuno con un po’ di buonsenso, è che per imparare a scrivere si deve leggere. Penso che tutti gli aspiranti scrittori lo facciano senza che gli venga neanche detto, perché sono convinta che prima di essere autori si diventi lettori.
Un autore che non ama leggere non è un vero autore a mio avviso. Chi non è amante dei libri e della lettura e non potrà mai trasmettere in uno scritto tutte le emozioni che si celano dietro un romanzo, perché è il primo a non comprenderle o provarle.
Si può essere lettori senza essere autori, ma non il contrario.
La domanda però è un’altra: in che modo la lettura può aiutarmi come autore?
 
 
La prima cosa cui dobbiamo fare attenzione è il genere di cui vogliamo scrivere. Quasi certamente se vogliamo scrivere un fantasy è perché ci piace e avremmo letto milioni di libri fantasy. Lo stesso vale per la fantascienza, il giallo, il romanzo storico o d’amore. Il primissimo modo in cui la lettura ci aiuta è facendoci conoscere i canoni del genere, che sono la cosa fondamentale per scrivere un romanzo. Credo che un autore in erba, o comunque un esordiente, se scrive un romanzo di genere debba cercare di attenersi alle linee guida del genere cui si è avvicinato, quindi deve conoscerlo bene.
Un autore dovrebbe avere un vocabolario ampio, che poi il suo stile sia incasellato in un certo tipo di narrazione, che magari usa termini desueti o giovanili per scelta, quello è un altro discorso. Rimane il fatto che penso sia dovere di uno scrittore avere un grande ventaglio di scelte lessicali. E come si arricchisce un vocabolario se non leggendo? Le parole nuove che incontriamo nei libri andrebbero cercate sul dizionario, perché potrebbero sempre tornare utili.
Punto dolente di molti sono i dialoghi. Uno dei metodi più semplici per scriverli, almeno per me, è riportare alla mente conversazioni che ho già sentito, quindi prendere spunto dalla realtà. Ma non dobbiamo dimenticare che un dialogo, per quanto sia credibile, va letto e non ascoltato. Dobbiamo renderlo naturale ma lasciargli comunque le caratteristiche di un buon dialogo scritto, piacevole da leggere. In questo possiamo prendere esempio dai libri.
 
Penso che queste siano le cose tecniche che tutti possono imparare dai libri semplicemente leggendoli. Poi mi sembra scontato dire che i libri insegnano molto di più, sia in termini di scrittura che personali.
Mi sembra scontato, però l’ho detto.

giovedì 31 marzo 2016

Passaparola #4

Ogni tanto risorgo dalle mie ceneri e scrivo qualche post. Nulla di impegnativo, anche se sto cercando di organizzarmi per tornare ai ritmi di prima e scrivere più di due post al mese! Eh, questa vita che si mette in mezzo alle faccende del blog, è la mia croce…
Comunque, mi scuso per il terribile ritardo con cui ho postato le richieste di segnalazione. Le autrici che mi hanno contattata sono state mooolto pazienti, quindi basta cianciare ed ecco le segnalazioni di oggi.
 
Fino alla fine della rete – R.V. Beta
Insofferente alle regole ma incapace di affrancarsi da un’esistenza piatta e una vita sociale insoddisfacente, Daisuke, impiegato in una multinazionale, afferra al volo un’occasione per cambiare.
Yuuki è una giovane pirata informatica che, spinta dalla sua smania di ribellione, potrebbe aver fatto un colpo troppo grosso.
Daisuke e Yuuki, braccati da forze più grandi di loro, dovranno unire le forze e misurarsi con nuove sfide pur di sopravvivere.
Carne e plastica scaraventati in un viaggio intenso, una finestra aperta sui fuochi d’artificio del ciberspazio e sulla periferia estrema della realtà, con la costante paranoia di essere scovati dagli onnipotenti guardiani dei lucchetti digitali.
 
 
Il mondo dell’altrove – Sabrina Biancu
Cinque racconti – in cui fantasia e realtà si mescolano – capaci di trasportare il lettore in un altro mondo, in un luogo magico. Capaci di farlo sognare. Ogni cosa è viva e insegna qualcosa d’importante. E ciascuna storia si trasforma nella tappa di un viaggio in cui si cresce e si matura a fianco di Elia, Rosy, Tea, Pietro, Desideria, André e della stellina Irina.
 
“Ogni problema ha una soluzione, solo alla morte non c’è rimedio. Se uno cade deve avere la forza di rialzarsi, se uno sbaglia deve capire i suoi errori e andare avanti con consapevolezza, se è in una brutta situazione deve rimboccarsi le maniche e dare una svolta alla sua vita e se non crede in sé deve cercare quella fiducia che gli permetterà di fare ciò che vuole. Non piangerti addosso, non serve a nulla, sii fiducioso, ottimista, credi in te e nelle tue capacità. Trova quello che più sai fare e metti in pratica la tua arte, prima per te stesso e poi per gli altri. Amati incondizionatamente, con tutto te stesso, con la forza che possiedi, e potrai pensare, provare e agire in tutto ciò che sai di riuscire. Tutto si può, basta volerlo.
Utilizza tutto questo, destati da questo stato d’insicurezza e paura e realizza la vita che vuoi. Credici con tutto te stesso e con orgoglio e tenacia riuscirai a uscire dallo stato di negatività in cui sei entrato. Una cosa ti chiedo: abbi fiducia, o fede, o speranza, chiamala come vuoi ma abbine tanta, questa è la chiave per aspirare a una vita migliore.”
 

lunedì 14 marzo 2016

Eternal war, Gli eserciti dei santi – Livio Gambarini

Qualche tempo fa la casa editrice Acheron Books mi ha gentilmente inviato una copia ebook di uno dei romanzi da loro pubblicati. Devo ammettere che all’inizio ero restia ad accettare di scrivere una recensione del libro, perché leggendo la trama non sapevo se sarebbe stato nelle mie corde. Il rischio era quello di avere una recensione negativa, ma più per un gusto personale che per il libro in sé.
Ormai sono un po’ di anni che non leggo un libro fantasy. Per qualche motivo tutti quelli che inizio non mi soddisfano, quindi li lascio a metà o li termino con fatica. Quando sono andata a leggere la quarta di copertina di “Eternal war”, di Livio Gambarini, in parte i miei dubbi si sono fatti più ampi, in parte ero incuriosita. Il libro è un fantasy storico, ambientato nella Firenze del XIII secolo, in piena guerra tra le fazioni di Guelfi e Ghibellini.
Ero curiosa perché non ho mai letto un libro fantasy di questo tipo, che avesse come base proprio la storia che noi tutti conosciamo. Ammetto di essere stata un poco preoccupata per quanto riguarda l’epoca scelta e per i personaggi. Avevo paura che il mondo di allora venisse edulcorato e che i personaggi di Guido Cavalcanti e Dante Alighieri non venissero rappresentati come io amo immaginarli.
Alla fine però la curiosità ha prevalso e ho cominciato a leggerlo. E meno male…
 
Si sta per disputare la battaglia di Montaperti, fra Guelfi e Ghibellini, e le famiglie delle due fazioni sono schierate l’una contro l’altra. Certi di vincere per capacità numerica, i Guelfi sono tronfi e sicuri di sé, ma nelle loro anime non alberga un briciolo di umiltà o fede. Incredibilmente i Ghibellini vincono la battaglia e le famiglie avversarie, fra cui quella dei Cavalcanti, subiscono molte perdite. I nemici entrano a Firenze e i Cavalcanti sono costretti a fuggire.
Questa vittoria viene prontamente spiegata da quello che accade in una sorta di universo parallelo che si muove, non visto, in mezzo a noi. Nello Spirito la fazione Ghibellina aveva alleati potenti, Santi e magie che i Guelfi non avevano a disposizione.
Lo spirito dei Cavalcanti, l’Ancestrarca Kaballicante (chiamato anche Kabal), cerca di fare quello che può per salvare la sua famiglia umana. Cede parte del suo potere per salvare il piccolo Guido Cavalcanti, rapito dai Ghibellini, poiché alla sua nascita ha investito molto sul bimbo, regalandogli più Virtù di qualsiasi alto umano a Firenze.
Passati molti anni, Guido si è fatto un ragazzo capace, arguto e in grado di ammaliare la gente. Alla morte dei genitori diventa capofamiglia e, innamorato di Bice degli Uberti, vorrebbe chiederla in sposa. L’unico ostacolo è la sua provenienza: Bice fa parte di una delle più potenti famiglie di Ghibellini e Guido deve essere cauto nella sua proposta di matrimonio. Per indirizzare il suo amore lungo una via priva di rischi, che gli impedisca di fare follie, uno spirito lo spinge a scrivere sonetti d’amore.
Nello Spirito le cose non vanno meglio. Kabal ha molti nemici e deve tentare il tutto per tutto per riavere il suo antico potere. Inoltre rischia di perdere il ‘comando’ che esercita su Guido, poiché un altro spirito, Ancestrarca di una famiglia nemica, ha messo gli occhi su di lui e vorrebbe portarlo dalla sua parte.
 
Scrivere questa piccolo sinossi è stato piuttosto complicato, perché “Eternal war” non somiglia a nulla che abbia mai letto prima. Questa è la cosa che più mi è piaciuta del romanzo, è innovativo e incalzante, e le idee che sostengono la narrazione sono originali.
Per sapere come andrà a finire dovrete leggerlo, un po’ perché ve lo consiglio, un po’ perché non vorrei fare troppi spoiler, e anche perché scriverlo nella recensione e spiegarvi tutto sarebbe troppo complicato.
Ma passiamo ai pro e ai contro.
Oltre all’originalità ho apprezzato moltissimo la ricostruzione storica. Quasi mi sembrava di essere lì a Firenze, in mezzo alle vecchie case e agli enormi e lussuosi palazzi in pietra, che allora erano un modello di modernità e potere. Il modo in cui agiscono i personaggi, in cui si rapportano fra di loro, sia quelli umani che quelli ‘spirituali’, se così possiamo chiamarli, è molto diverso dal modo in cui siamo abituati oggi a vivere, e questo mi è piaciuto perché dava alla storia un sapore più vero.
Altra nota positiva sono i personaggi. E va bene, la maggior parte aveva una bassa morale e curava gli interessi della famiglia, il potere, la ricchezza e la fama. Però a me sono piaciuti lo stesso. Vi dirò di più, il mio preferito era Kabal! Per tutta la narrazione ha brillato per astuzia, cinismo, una leggera avidità e quanto basta di leccaculaggine. Però era il personaggio più geniale di tutti (assieme allo spirito di San Pietro, che mi ha fatta sbellicare)! A costo di essere anacronistica, direi che è machiavellico.
L’inizio del romanzo era un po’ confusionario. Ho faticato a immergermi nella storia perché si inizia subito con molti concetti da imparare. L’universo creato dall’autore è complesso e lui ci immerge subito il lettore con tutte le scarpe, il che spiazza. Questo, oltre al fatto di trovarsi proprio in mezzo ad una battaglia e a scene di azione, rende difficoltoso seguire la narrazione in un primo momento.
Altro neo è che tutto il romanzo mi è sembrato un poco affrettato, come se si avesse premura di arrivare alla fine. Mi sarebbe piaciuto soffermarmi di più sul carattere di Kabal e di altri spiriti e sulle storie che li legano.
 
In conclusione, devo dire che ho trovato “Eternal war” un libro bello, godibile e che tiene l’attenzione alta. Lo consiglio? Direi di sì, anche se ho paura che sia fruibile da una nicchia di lettori, coloro che amano il romanzo storico e anche quello fantasy.
Nonostante questo ha il grandissimo pregio di essere lontano da qualsiasi cosa conosca, non è paragonabile a nulla.
Leggerlo comporta una costante, bella sorpresa.

sabato 5 marzo 2016

Imperativo

Lavoro in un call center e la maggior parte dei miei colleghi sono della mia generazione. Siamo tutti fra i venti e i trent’anni e per fortuna c’è un buon feeling. Siamo abituati a portarci qualcosa da fare per quando ci sono dei ‘tempi morti’, durante i quali le chiamate scarseggiano o sono del tutto assenti. Come potete intuire spesso mi porto un libro.
Ormai i colleghi sono abituati a vedermi divorare un volume dopo l’altro, hanno accolto l’arrivo del kindle e osservano placidamente come ogni dieci o quindici giorni cambi il titolo del romanzo che ho sottobraccio. Mi è capitato spesso che mi dicessero “Ma l’altro l’hai già finito?” o “Oddio, quello è un mattone!”.
Da un po’ la maggioranza è giunta alla conclusione che «Patty, sei troppo intelligente!». Cerco di dissuaderli da questa idea malsana e, quando gli chiedo come mai dovrei esserlo, mi rispondono che per forza deve essere così: leggo tantissimo.
Non è la prima volta che mi capita di sentire una cosa del genere. Le persone che leggono sono considerate intelligenti, ma penso che sia un concetto sbagliato (e cercherò di convincere i miei colleghi, prima che scoprano da soli l’amara verità e rimangano delusi dal mio normalissimo intelletto).
 
Leggere è positivo sotto moltissimi punti di vista. Aiuta a rilassarsi, liberare la mente, imparare cose nuove, accrescere il lessico, è semplicemente bello perché scopriamo mondi e storie prima sconosciuti, allena la fantasia e non ultimo ci dà sempre spunto per imbastire una conversazione o un’idea di cosa fare nel tempo libero se per caso non abbiamo nulla in mente.
Questo non ha però nulla a che vedere con l’intelligenza. L’intelligenza si calcola su molti altri fattori, se volete sapere quanto una persona è intelligente calcolate il numero del suo QI, non il numero dei suoi scaffali della libreria. Indubbiamente leggere può aiutare a diventare più colti e più ricettivi, ma lo stesso fanno le parole crociate mi dicono.
Si dovrebbe togliere dalla testa quest’idea del fatto che leggere è da persone intelligenti, penso che dia un’immagine sbagliata della lettura. È come se la chiudesse in una sfera di privilegiati, come se fosse una capacità innata. Rende la lettura qualcosa a cui non tutti possono accedere, il che non è assolutamente vero.
In Italia poi dovremmo essere ancor più motivati a incoraggiare la lettura, e quindi scacciare questo sciocco luogo comune che vuole che uno debba per forza essere intelligente se prende in mano un libro. Purtroppo penso che sia un luogo comune della nostra penisola, perché la cultura qui è diventata davvero di nicchia. Mi spiace dirlo, ma è così.
Ogni volta che mi capita di leggere delle statistiche rabbrividisco, perché secondo questi studi gli italiani che leggono sono pochissimi, quelli che vanno ai musei anche meno, quelli che si dedicano a qualsiasi tipo di attività culturale sono bestie rare. Per forza le persone quando salgono in metropolitana e vedono qualcuno con un libro pensano che sia un genio, perché è diventata una cosa particolare. La stragrande maggioranza ascolta musica o gioca con lo smartphone. Non voglio dire che ascoltare musica o stare su whatsapp sia sbagliato, è solo quello che fa la maggior parte della gente. Chi legge ormai è considerato una mosca bianca, e questo è negativo.
Lo scrivo nero su bianco perché sia ben chiaro:
 
Leggere è per tutti.
Per leggere non si deve avere alcun talento particolare.
Non ci vuole molto a imparare a leggere.
Leggere è bello.
Leggete.
 
 

domenica 28 febbraio 2016

Acheron books

Buondì a tutti, questo è un post piccolo, con qualche informazione.
Intanto vi dico subito che i post sono rallentati perché sono molto impegnata oltre che a fare le solite cose che fanno tutti, anche a scrivere e a cercare casa. Ma non vi preoccupate, i post ci sono, molti sono già pronti, devo solo prendermi un attimo con calma per rileggerli e postarli.
Tuttavia devo ammettere che mi piace avere dei tempi lunghini fra un post e l’altro, perché non vedo il motivo di rimpinzare il blog di articoli che non mi interessano davvero o che ho dovuto scrivere di fretta.
 
Vorrei ringraziare la casa editrice Acheron Books, per avermi inviato il romanzo fantasy storico di Livio Gambarini, “Eternal war”. Quindi aspettatevi presto una recensione, perché ho appena iniziato a leggere il libro e penso che non mi ci vorrà molto per ultimarlo, oltre che per scriverne una recensione.
Approfitto per ringraziare la Acheron Books e vi lascio un link al loro sito qui. Dopo essere andata a leggere di cosa si trattava il romanzo di Gambarini e aver accettato l’offerta di recensire il libro sono andata a dare un’occhiata al loro catalogo. Ho trovato dei romanzi molto curiosi e delle copertine stupende, quindi se siete curiosi anche voi ecco, spero troviate qualcosa che vi piaccia.
 
E dopo questo piccolo post informativo vi lascio e vi auguro buonsalve (che va bene per il mattino, il pomeriggio e la sera!).

domenica 21 febbraio 2016

Passaparola #3

Era da un po’ che non pubblicavo questa rubrica, ma ne approfitto per dire a tutti gli autori in ascolto (o meglio, in lettura) che se desiderate segnalare il vostro romanzo o racconto in questo blog potete tranquillamente scrivermi.
Quindi ecco a voi la segnalazioni di oggi!
 
 
Due colleghi psicologi e amici di lunga data ideano un progetto che vede protagonisti due loro pazienti, diversi in tutto ma uniti dalla profonda sofferenza che li ha segnati e inaspettatamente dalla musica classica. Il desiderio della giovane Irina, martire di violenze e abusi, di vivere l’esistenza di una comune adolescente si fonderà con la speranza di Philippe di superare il rimorso di aver permesso che la moglie e il figlio, vittime della sua effimera esistenza, morissero. Faranno da cornice ai loro desideri e speranze l’energia della dottoressa Jean La Mot, che considera il suo operato una missione, la determinazione e il coraggio di Etienne, deciso a percorrere la lunga strada che dista dal proprio cuore a quello della ragazza che ama e l’ossessione di Pierre Danton, un efferato criminale, di riavere accanto a sé la sua donna. Ogni parte del progetto è studiata nei minimi dettagli, niente andrà storto o forse niente andrà per il verso giusto…

Titolo: Beethoven’s Silence ‘… io sono Irina e sono Elise…’
Autore: Sonia Paolini
Formato: E-Book (versione cartacea entro febbraio)
Lunghezza: 362 pagine
Genere: Romanzo Rosa, Narrativa Contemporanea
Editore: Lettere Animate Editore (13 gennaio 2016)
Lingua: Italiano
ISBN: 9788868826765
Prezzo: 1,99 E
Alcuni link per l’acquisto:
 
 
 

domenica 14 febbraio 2016

Va’, metti una sentinella – Harper Lee

Iniziare una recensione come questa ha richiesto delle ricerche e molte riflessioni. Perché non è solo una recensione ma anche un pensiero.
Lessi “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee quando andavo al liceo. Ero infervorata nella lettura, piena di ideali illuminati, pensieri profondi, e un nodo alla gola quando pensavo a tutti i temi che questo romanzo porta con sé – che non vengono mai alla mente con leggerezza, né si possono spazzare via con una scrollata di spalle. Mi piacque moltissimo e non manco di ricordarlo ogni tanto.
Quando seppi che era uscito il seguito ne rimasi stupita. Per me quella storia non aveva un seguito, finiva lì, ed era completa e perfetta così com’era. Nonostante questo non ebbi dubbi nel comprarlo e lo lessi avidamente, anche se un po’ perplessa. Non sapevo cosa aspettarmi, dove mi avrebbe portata, se essere curiosa o sulle mie.
Prima di dirvi ciò che penso, però, un piccolo excursus.
 
Lo dico per chi non ha sentito parlare della vicenda, ma si vocifera che la Lee non sia stata particolarmente d’accordo con l’idea di pubblicare “Va’, metti una sentinella”. Alcuni sostengono che sia stata convinta, altri che sia stata costretta. Aldilà di tutte le teorie che possono esserci, vorrei sottolineare un fatto.
“Va’, metti una sentinella” è stato scritto prima di “Il buio oltre la siepe”. Lee lo sottopose a un editore ma questi lo rifiutò, consigliandole di presentare la sua protagonista, Scout, da bambina. Sappiamo tutti che lo fece con grande successo, e dopodiché lasciò il suo primo romanzo nel cassetto. Pare che lo tenesse sottochiave, in una cassetta di sicurezza. Di certo dopo il successo che ebbe “Il buio oltre la siepe”, Harper Lee si rendeva bene conto dell’importanza che poteva avere quel manoscritto, ma ha scelto di non pubblicarlo.
I motivi per i quali lo ha conservato possono essere molteplici, forse puramente affettivi. Fatto sta che per cinquant’anni ha deciso di lasciarlo nell’ombra, di dimenticarlo, e di far sì che tutti quanti lo dimenticassero.
 
Se qualcuno di voi ha letto “Va’, metti una sentinella”, sa benissimo che cosa accade. (E badate bene che sto per dirlo, quindi se ancora non lo avete letto fuggite, sciocchi!). Atticus Finch è invecchiato, e ora che i diritti dei neri stanno davvero prendendo piede ha paura. Paura di ciò che potrebbe accadere, di vedere un nero essere suo pari, di poter essere forse scavalcato da un nero, e di dovergli lo stesso rispetto e le stesse identiche premure che si devono a un bianco. A dargli contro l’ormai cresciuta Scout, che accetta a braccia aperte un mondo dove i diritti civili sono uguali per tutti e che rimane allibita e annientata nello scoprire che l’uomo che ha sempre ammirato, suo padre, è uno di quegli uomini che lei disprezza di più.
Sono rimasta allibita e annientata come Scout.
Harper Lee
Il personaggio di Atticus Finch è diventato simbolo, per intere generazioni, di rettitudine, onestà, lealtà. Vederlo così trasfigurato mi è dispiaciuto molto, perché il mito che gli si era creato attorno era sì irraggiungibile (perché una persona così perfetta è difficile che esista) ma dava esempio e speranza.
Mi piaceva pensare che esistesse, anche solo nella fantasia collettiva, qualcuno come Atticus Finch. Qualcuno che si sarebbe sempre alzato per proteggere chi non poteva farlo, per dire le cose come stanno davvero e cercare di cambiare ciò che non è giusto. Perché se esiste nella nostra fantasia, allora forse potremmo trovare il coraggio di agire nella realtà.
Mi rendo conto che sto parlando di cose molto astratte, ma ecco che arrivo alla conclusione.
Se Harper Lee aveva deciso di mettere sotto chiave “Va’, metti una sentinella”, forse c’era un motivo. Forse anche lei si è resa conto che “Il buio oltre la siepe” è stato molto più che un romanzo, ha influenzato moltissima gente in maniera positiva, ha portato con sé un ideale importante. Questo ideale era incarnato da Atticus Finch.
“Va’, metti una sentinella” distrugge questo personaggio.
 
Per fortuna non sono morti gli ideali di Atticus, tuttavia mi dispiace molto il fatto che sia stato trasformato in un anziano fragile, atterrito dalla novità e dalla possibilità di condividere dei privilegi con prima erano solo suoi. Scout non è abbastanza forte come personalità contrastante, non è abbastanza saggia, carismatica né convincente per sostituirlo quindi ecco, penso che con questo romanzo abbiamo perso qualcuno a cui ci si poteva ispirare.
Per quanto mi riguarda cercherò di fare in modo che “Va’, metti una sentinella” scompaia dalla mia memoria. Preferisco ricordare Atticus Finch come Harper Lee ha voluto mostrarcelo per oltre cinquant’anni.
 
Atticus Finch