mercoledì 28 dicembre 2016

Roderick Duddle – Michele Mari

Passo da una recensione difficile all’altra. Ne inizio oggi una nuova e sono sicura che ci metterò qualche giorno per finire (vediamo, ho iniziato prima di Natale, sono passati i giorni fatidici e fra poco è il nuovo anno, sì, ci ho messo un po’. A proposito, buone feste!). Così, su due piedi, vi dico che questo romanzo mi ha appassionata, l’ho letto con entusiasmo e aspettativa, lo consiglio a tutti e vorrei proprio che poteste leggerlo subito per dirmi cosa ne pensate!
Ma proprio perché mi è piaciuto tanto vorrei tradurre in un ragionamento più complesso e darvi delle motivazioni che siano meno astratte, perché questa è una storia che merita di essere letta. In quanto tale non posso che sforzarmi per darvi più di un valido motivo per leggere “Roderick Duddle”, di Michele Mari.

Impossibile parlarvi della trama, perché è più complessa e ingarbugliata di un gomitolo di lana dopo che ci ha giocato un gatto. A grandi – grandissime – linee posso darvi una piccola introduzione:
Giunta alla vecchiaia senza eredi e con un grosso peso sulle spalle, la ricca lady Pemberton decide di rintracciare la figlia che aveva dato tempo addietro ad un convento per lasciarle la sua eredità. Dopo alcune ricerche viene a sapere che la ragazza, che lavorava in un postribolo chiamato l’Oca Rossa, è morta e le ha lasciato un nipotino, tale Roderick. Per provare la sua identità il bambino ha un medaglione, che fu lasciato da una più giovane lady Pemberton alla figlia neonata quando venne abbandonata al convento, e che questa a sua volta in punto di morte ha lasciato al figlio.
La Badessa del convento in cui era stata abbandonata la ragazza vede subito in quella l’occasione per ottenere l’eredità della famiglia Pemberton: farà sì che il convento si occupi della tutela del bambino e, alla morte di lady Pemberton (che sembra ogni giorno più vicina), curerà il patrimonio fino a che il bambino non avrà compiuto i diciotto anni. Scopre però che il bambino è stato cacciato dall’Oca Rossa dal proprietario, il signor Jones, che lo teneva con sé solamente perché sua madre era viva. Quando Jones capisce che potrebbe ottenere qualcosa di quell’immensa eredità manda alcuni uomini in cerca di Roderick.
Allo stesso tempo la Badessa, stanca di aspettare, falsifica il medaglione, prende un bambino orfano, lo spaccia per il vero Roderick, lo fa adottare, e invia un killer a uccidere il vero bambino.
Allo stesso tempo i due malviventi inviati da Jones a recuperare Roderick vogliono guadagnarci qualcosa di più, quando capiscono che c’è una grossa somma in ballo.
Allo stesso tempo Roderick incontra un marinaio che lo prende sotto la sua ala.
Allo stesso tempo il convento trama per uccidere lady Pemberton!
Allo stesso tempo…!
Ora capite perché è meglio che scopriate da voi la trama di questo romanzo. Di più non posso dirvi perché non ci capireste niente, e anche perché vi rovinerei la sorpresa.
Mi riesce difficile immaginare come l’autore sia riuscito a rimanere al passo con la sua stessa storia, tanti sono i personaggi e i sotterfugi, tante sono le ipotesi che ognuno di loro fa e che causano un malinteso dopo l’altro. Nel caso dovessi mai incontrarlo sarei curiosa di domandargli se aveva uno schema dettagliato da qualche parte, un grafico a torta o dei disegnini magari.

Oltre alla trama la prima cosa si può notare in questo romanzo è lo stile. L’opera fa pensare, sia per le atmosfere che per linguaggio, a Dickens. Roderick diventa così una sorta di Oliver Twist ma, grazie all’ironia dell’autore, acquista tratti moderni e la narrazione si fa più leggera, meno drammatica sicuramente, più vicina ai romanzi di avventura e alle satire, che ai drammi con cui il romanziere britannico. Ho apprezzato molto il linguaggio che usa Michele Mari: frasi lunghe, parole desuete, spesso si esibisce in voli pindarici non da poco ma l’attenzione del lettore non ne risente.
L’unico difetto che gli posso trovare è di aver esagerato un poco con gli intrighi, tanto che le parti in cui i personaggi cercavano di raccapezzarsi sulla vicenda erano diventate ad un tratto incomprensibili. Dopo un po’ me le facevo scivolare sotto gli occhi, impaziente di arrivare alla fine del paragrafo, perché tanto sapevo che non ci avrei capito nulla.
La quantità di personaggi potrebbe far pensare che siano trattati con superficialità, ma non è così. I principali sono inquadrati alla perfezione, tanto che alla scomparsa di alcuni mi sono dispiaciuta e per la vita – o la morte – di altri mi sono rammaricata.
Avevo iniziato a leggere questo romanzo pensando che si trattasse di una storia di avventura concepita per i ragazzi, ma mi sbagliavo di grosso. Il mondo in cui veniamo catapultati è sì realista ma, proprio per questo, crudo. I personaggi si muovono in base a interessi economici, forti passioni, desideri oscuri, e per questo sono senza scrupoli.

Ho riletto ora la mia recensione e, ahimè, devo ammettere che non è questo granché. Realizzo ora che “Roderick Duddle” è un romanzo che va aldilà delle mie capacità di critico!
Insisto però nel consigliarvelo, anche se questo post è uno fra i più sconclusionati che io abbia mai scritto, perché fra le pagine di questo tomo si nasconde una storia avvincente, dei personaggi incredibili, piccoli atti di coraggio e di amore, grande ironia, uno stile elegante e un’ironia pungente, la cura per i dettagli.

Una storia, in sintesi, che merita di essere letta.

martedì 13 dicembre 2016

L’abbazia di Northanger – Jane Austen

Sto facendo parecchia fatica a scrivere questa recensione, tant’è che la prima stesura è stata scritta a mano su un quadernone (ho pensato che allontanarmi dal pc poteva essere utile). Forse perché è da un po’ che non scrivo recensioni, o perché ho dei dubbi su questo libro.
Inizierò da qualcosa di semplice allora, un riassunto di “L’abbazia di Northanger”, di Jane Austen.

Catherine Morland, la maggiore delle figlie dei Morland, viene invitata dai vicini, i coniugi Allen, a passare le vacanze con loro nella cittadina di Bath.
Pochi giorni dopo il loro arrivo Catherine fa amicizia con Isabella Thorpe e suo fratello John. La prima appare come una ragazza deliziosa ma, con l’andare avanti del tempo, risulta vanitosa, egoista e capricciosa. Il fratello dimostra di essere antipatico sin dal primo istante: non fa che vantarsi di ciò che ha, degli affari che conclude, e sminuisce tutti gli altri.
Per fortuna Catherine incontra anche la famiglia Tinley e fa subito amicizia con Elaeanor e con suo fratello Henry – invaghendosi subito di quest’ ultimo. Con loro instaura un’amicizia sincera, che le procura un invito alla casa di famiglia dei Tinley, l’abbazia di Nothanger.
Catherine nutre molte aspettative per questa dimora perché le ricorda le ambientazioni dei romanzi gotici che ama tanto, tuttavia rimane delusa dalla normalità della casa. Dopo una figuraccia proprio con Henry Tinley decide di lasciare le fantasie gotiche nei libri, e di vivere la sua vita senza cercare ovunque un mistero che, di fatto, non esiste.
La protagonista torna a casa dopo aver imparato molte preziose lezioni sulla società, prendendo le distanze dai poco sinceri fratelli Thorpe e guadagnandosi anche una richiesta di matrimonio da parte di Henry Tinley.

Ho letto altri tre romanzi di Jane Austen e, sebbene il mio giudizio per ognuno sia diverso, non posso dire di nessuno che non mi sia piaciuto per ragioni di stile. Tranne questo. Presto spiegato il fatto: “L’abbazia di Northanger” è stato il primo romanzo scritto dalla Austen e pubblicato postumo dai fratelli dell’autrice.
Si intuisce uno stile alle prime armi, che ancora sperimenta la sua scrittura. L’autrice si chiede fin dove può e riesce ad arrivare, cosa dovrebbe scrivere e come dovrebbe farlo. A questo proposito si riconoscono alcune caratteristiche della Austen già autrice avviata, come l’ironia pungente indirizzata all’alta società, la costruzione di un gruppo formato da poche famiglie le cui vicende costituiscono la trama. Inoltre vediamo alcune delle figure che verranno usate in quasi tutti i suoi romanzi: la ragazza viziata, il giovanotto prepotente, la donna anziana un po’ frivola ma sostanzialmente buona, il capofamiglia ambizioso. Compaiono tutti ma, a mio parere, sono troppo eccessivi in questo romanzo per essere sottilmente ironici, diventano grossolani.
Una delle cose tipiche della scrittura della Austen che, invece, non ho trovato – ed è stato un piacevole cambiamento – è la diffidenza per i personaggi troppo simpatici. In tutti i suoi libri c’è un personaggio che si dimostra sin da subito estremamente affabile e che, in seguito, si scopre essere negativo. Questa volta non è successo ed è stato piacevole non aver previsto il risvolto ‘inaspettato’ di uno dei personaggi.

Il romanzo vorrebbe essere, immagino, una sorta di presa di posizione. La Austen qui dichiara cosa vuole scrivere e perché, e in effetti mantiene la parola nei suoi seguenti romanzi. In questo non posso fare a meno che ammirarla. Raramente si ha un’idea chiara del proprio stile, delle possibilità della propria scrittura e di cosa si vuole raggiungere con essa. Lei l’aveva, e anche in giovane età.
Ma vediamo quali sono queste intenzioni:
Tramite la sua eroina, ma anche apertamente rivolgendosi proprio al lettore, la Austen si dichiara in difesa del romanzo, contro coloro che all’epoca lo reputavano una lettura frivola, priva d contenuti e indirizzata ad un pubblico ritenuto di categoria B. Dice che il romanzo non solo è pari a saggi e articoli di studiosi, ma addirittura superiore, in quanto coinvolge il lettore e gli fornisce insegnamenti morali più che scientifici.
Il libro è inoltre una critica ai romanzi gotici, molto di moda all’epoca in cui lei scrisse “L’abbazia di Northanger”. Buona parte della trama ruota intorno al fatto che la casa dove la protagonista è ospite nasconda un segreto, e che gli stessi abitanti siano tuttora in pericolo in quanto una persona malvagia si aggira fra quelle mura, indisturbata. Inoltre la stessa Catherine è l’eroina dei romanzi gotici per eccellenza, una ragazza normale che si ritrova suo malgrado a vivere una situazione di pericolo. Prendendo in giro le situazioni che si vengono a creare in questi racconti la Austen sembra voler dire che non c’è bisogno di tante fantasie, peraltro impossibili, per scrivere un buon romanzo. Basta guardare fuori dalla finestra, parlare con i vicini, ascoltare le chiacchiere all’ora del tè, per sentirsi ispirata e imbastire una storia più che interessante.

Non diventerà mai uno dei miei romanzi preferiti di quest’autrice, tuttavia è perdonata in base al fatto che si tratta del primo da lei mai scritto e, nonostante tutto, è una storia piacevole e la consiglio a chi ama Jane Asuten.

Ma che non vi venga in mente che si tratta di un romanzo gotico!

lunedì 5 dicembre 2016

I sopravvissuti


La gif dice tutto.
Sì, sono viva. Senza tediarvi troppo, vi dico solo che ho impegnato il 99% delle mie energie prima per cercare casa, poi per compare la prescelta e in seguito per ristrutturarla. Ora che siamo in dirittura d’arrivo sento finalmente di stare tornando in una dimensione di normalità.
Riprendo quindi il blog!, che, devo ammettere, mi è mancato parecchio. Riprendo i commenti ai blog che seguo, che ho continuato a leggere con interesse ma saltuariamente e sempre fra un minuto di tempo e l’altro, per cui non ho mai avuto davvero tempo di lasciare un commento agli articoli.
In questo periodo mi sono concentrata su altre priorità, lasciando il resto in standby. Ho fatto come quegli animali che regolano l’afflusso di sangue solo agli organi vitali per sopravvivere in casi estremi. Ho rallentato l’afflusso di tutto ciò che non era essenziale e ho diminuito persino le letture (ora capite come la situazione era spossante!).
La maggior parte dei libri che leggevo finivano per stancarmi presto e li ho lasciati perdere senza troppi rimorsi. Pochissimi hanno resistito, e di questi ancora meno sono quelli che ricordo con piacere. A loro va dedicato in premio questo post, dato che sono scampati al libricidio.
Quindi ecco a voi, con tutti gli onori, i sopravvissuti.

Jonathan Stange e Mr. Norell, di Susanna Clarke
All'inizio dell'Ottocento, della magia inglese rimangono quasi solo leggende come quella di Re Corvo, il grande mago capace di fondere la sapienza delle fate con la ragione umana. Ma dalle regioni del Nord un tempo visitate da elfi e folletti appare il signor Norrell, capace di far parlare le statue della cattedrale di York: la notizia sembra segnare il ritorno della magia in Inghilterra, e Norrell si trasferisce a Londra per offrire i suoi servizi magici al governo, impegnato nella guerra contro Napoleone. Ma una profezia parla di due maghi che faranno rinascere la magia inglese. Uno dei due maghi è Norrell. E l'altro chi è?

Con tutto il rispetto per chi scrive le quarte di copertina, ma questa è davvero pessima.
Non rende affatto giustizia al libro, allo stile, al linguaggio, alla trama, proprio a niente! Ho letto questo romanzo dopo averne letto la recensione sul blog “La Leggivendola”, che adoro e seguo da anni. Mi fido ciecamente delle sue recensioni e, sebbene a volte i miei gusti vadano altrove, quando trovo qualche libro che mi sembra interessante e che lei ha recensito bene la curiosità aumenta e la voglia di leggero è irresistibile.
Infatti l’ho letto.
Che dire di “Jonathan Strange e Mr. Norell”? Il commento a caldo che avevo da fare, non molto approfondito né ricercato, a chi mi chiedeva come andava la mia lettura in quel periodo, era: «È come se Jane Austen avesse deciso di lasciar perdere i matrimoni degli ereditieri e si fosse dedicata al fantasy». Ed è proprio così, per diversi motivi.
Il linguaggio della Clarke è minuzioso, elaborato, e ci riporta in un’epoca che solo i romanzi ottocenteschi sanno ormai evocare. Trovo questo particolare interessante perché l’autrice poteva benissimo adattare i toni ad una più moderna scrittura, invece ha deciso di rimanere fedele all’epoca in cui si svolge la vicenda. Mi rendo conto che non sempre si può fare (un romanzo in latino ambientato nell’epoca d’oro dell’impero romano non è il massimo, ebbene sì), ma quando se ne ha la possibilità questo dettaglio aumenta la magia del romanzo. Mi è capitato di leggere romanzi storici ma nessuno utilizzava un linguaggio così fedele all’epoca trattata. Penso che una scelta come questa sia da lodare perché non è affatto facile scrivere in un linguaggio così lontano da noi per un libro che oltre ad essere lungo tratta anche temi piuttosto estranei all’epoca.
La trama è complessa e prosegue senza fretta, proprio come nelle epopee familiari di fine ottocento. Conosciamo a fondo i personaggi, la loro vita e coloro che gli si muovono attorno. Di ognuno leggiamo le disavventure e, alla fine, anche quelli che consideravamo semplici comparse hanno modo di avere un ruolo decisivo. Nessuno è lì per caso, nessuna pagina è scritta a vuoto.
La storia si chiude con una drammaticità inaspettata. Non ci sono vincitori né vinti, non esiste nessuno che ne esca completamente pulito. L’ho trovato un romanzo massiccio, che si scopre essere alla fine molto più di quello che appare. Non è solo un fantasy, non è solo un’avventura, né una prova di stile eccellente, è una storia complessa capace di incantare il lettore. Personalmente mi ha trasmesso l’idea dell’esistenza di forze a noi incomprensibili, cose “più grandi di noi” con le quali abbiamo a che fare e di cui scorgiamo un barlume di quando in qua, ma che non potremo mai capire del tutto.

La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Dìaz
“La breve e favolosa vita di Oscar Wao”: già dal titolo si capisce che il romanzo non avrà un lieto fine classico. Ma non importa. Perché la vita di Oscar - ribattezzato Wao da un amico dominicano che storpia il nome di Wilde – è davvero favolosa. Da favola. Da favola letteraria, magica e realistica al tempo stesso. Nasce e cresce nel New Jersey, il grasso, poco attraente, intelligente e parecchio eccitato Oscar. Sua madre Belicia è una ex reginetta di bellezza scappata da Santo Domingo perché perseguitata dal clan del dittatore Trujillo, la sorella, Lola, è una ragazza dolce, assennata e insieme spericolata come tutte le dominicane di Diaz. L'intero albero genealogico di Oscar, come quello di altre migliaia di dominicani, è composto da figure torturate, espropriate, martirizzate.

Altro libro, altro blog. Mi deve perdonare l’autrice se non ricordo esattamente quale, di tutti quelli che leggo, sia quello che mi ha regalato questa perla. (Se sai di essere tu, fatti avanti.)
Ciò che più mi piace della letteratura sudamericana è il cosiddetto ‘realismo magico’. Se avete letto un romanzo qualsiasi di Isabel Allende o Gabriel Garcia Marquez sapete a cosa mi riferisco. Spiegarlo mi risulta complicato. In questi libri accadono fatti inspiegabili, appunto magici, che tutti accettano senza farsi patemi e andando avanti con la vita, pensando che in fondo ci sono cose peggiori da sopportare, un po’ come i familiari di Banjamin Button non si sono mai fatti un problema del loro pargolo vecchio e brutto. Junot Dìaz ha smorzato questi toni, ha reso tutto un po’ più moderno, più reale e meno magico, tuttavia il romanzo è come circondato da un alone di romanticismo, come se stessimo leggendo una fiaba.
I personaggi sono estremamente umani, adorabili nella forza che tirano fuori tutti i giorni per andare avanti e commoventi nei madornali errori che compiono. Ho amato tutti i personaggi di questo romanzo, dal migliore amico di Oscar, il tipico sciupafemmine dominicano, alla svampita e bellissima Belicia che, da giovane, faceva girare la testa a tutti gli uomini del paese ma era innamorata dell’unico sbagliato. Il protagonista, Oscar, rimane solo una parte di questo folle e ricco affresco ma la cosa non mi infastidiva. Mentre leggevo pensavo che avrei voluto conoscere uno come lui, un ragazzo impacciato e romantico, e che gli sarei stata amica. Poi mi sono resa conto che proprio quella era la sua condanna. Il povero Oscar veniva sempre friendzonato, un po’ per colpa sua, un po’ per malignità della ragazza che era oggetto del suo interesse spesso.
Ma vi dico una cosa (concedetemi lo spoiler o saltate questa riga, se volete leggere il libro). Alla fine della sua vita avrà conosciuto l’amore.

Wonder, di R. J. Palacio
È la storia di Auggie, nato con una tremenda deformazione facciale, che, dopo anni passati protetto dalla sua famiglia per la prima volta affronta il mondo della scuola. Come sarà accettato dai compagni? Dagli insegnanti? Chi si siederà di fianco a lui nella mensa? Chi lo guarderà dritto negli occhi? E chi lo scruterà di nascosto facendo battute? Chi farà di tutto per non essere seduto vicino a lui? Chi sarà suo amico? Un protagonista sfortunato ma tenace, una famiglia meravigliosa, degli amici veri aiuteranno August durante l'anno scolastico che finirà in modo trionfante per lui. Il racconto di un bambino che trova il suo ruolo nel mondo. Il libro è diviso in otto parti, ciascuna raccontata da un personaggio e introdotta da una canzone (o da una citazione) che gli fa da sfondo e da colonna sonora, creando una polifonia di suoni, sentimenti ed emozioni.

Questo è un libro per bambini. Ogni tanto mi capita di leggerli e spesso li trovo carini, anche se effettivamente adatti ad una certa fascia di età. “Wonder” invece è un libro per tutti, forse più per gli adulti che per i bambini.
Ho trovato interessantissimo pensare a come reagisco io di fronte ad una persona con problemi fisici che la rendono poco attraente. Personalmente se noto qualcuno con una deformazione cerco di mantenere gli occhi puntati altrove, non perché mi causi fastidio ma perché penso che potrei metterla a disagio, fissandola. Forse il mio atteggiamento viene confuso con qualcosa di orribile come il disgusto, e questo libro mi ha fatto riflettere molto su cosa potremmo fare per rendere meno pesante a queste persone il semplice gesto che noi diamo per scontato di uscire di casa. Inoltre mi ha fatto riflettere perché sempre più spesso, oggi, si sentono notizie di persone con handicap fisici o mentali che vengono maltrattate dai cosiddetti ‘normodotati’ (che tanto normo poi non sono, a mio parere, se trovano divertimento nell’umiliare una persona malata).
Consiglio questo libro a tutti. Rimane una narrazione per bambini e rende alcune questioni complesse molto più semplici di quanto in realtà non siano, le spoglia delle complicazioni di cui le rivestono gli adulti per esaminarle all’osso e renderle comprensibili anche ai più piccoli. Tuttavia non è un male perché ci mette di fronte ai fatti nudi e crudi e ci costringe a rispondere a delle domande semplici, senza via di scampo. Perché rifuggiamo da chi è diverso? Perché a volte ci sentiamo a disagio di fronte a persone con un handicap?
Forse leggendo “Wonder” qualcuno di noi riuscirà a darsi una risposta, e a trovare una soluzione.

Qualcuno di voi ha letto uno di questi libri? Mi auguri di sì perché li ho trovati tutti meravigliosi, in modo diverso. E se non li avete letti, vi ho incuriosito?

Awww, sono felice di essere tornata!