“Non
è se possiamo, è se vogliamo. […] Perché se è ‘possiamo’, allora non possiamo
niente, manco andare in California né niente; ma se è ‘vogliamo’, be’, allora
facciamo come vogliamo.”
Lo so, questa frase infonde
speranza. Ma non fatevi ingannare, la speranza è l’ultima cosa che si trova in
“Furore”. O meglio, si trova, ma appena appena, giusto un goccio e solo dopo
che ti è stata strappata via. Te la ripropongono solo per sadismo, immagino,
perché è come se Steinbeck te la infilasse a forza sotto le unghie, assieme al
sale grosso.
Dopo aver capito l’andazzo del
romanzo ho cominciato a leggerlo aspettandomi il peggio in ogni pagina, e
neanche così è stato abbastanza.
Negli anni ’30 molte zone del
centro degli Stati Uniti vennero colpite da quella che chiamarono Dust Bowl, una serie di tempeste di
sabbia che per anni impedirono agli agricoltori di coltivare la terra. La
maggior parte delle famiglie finirono per indebitarsi e persero le proprietà, così
buona parte della popolazione migrò in California, dove si diceva cercassero
moltissimi braccianti.
Il romanzo narra del viaggio
della famiglia Joad, che parte dall’Oklahoma carica di tutti gli ultimi loro
possedimenti, su un vecchio furgoncino vendutogli a un prezzo disonesto. Macinano
un kilometro dopo l’altro, in un viaggio estenuante, che si porta via gli
anziani nonni a causa del dolore di lasciare la propria terra, unite alla fatica
della traversata. La famiglia inizia così a disgregarsi, soprattutto quando le
voci che cominciano ad arrivare alle loro orecchie dicono che di lavoro, in
California, non ce n’è. I Joad non vogliono crederci – perché dovrebbero
prendersi la briga di stampare volantini e far girare la notizia, se di
braccianti non hanno bisogno? – e raggiungono la California.
È dura scoprire che le voci sono
vere. Che le persone come loro, che hanno dovuto abbandonare le loro case,
vivono ai margini della città, in baraccopoli sporche e miserabili, che
procurano vergogna al solo vederle, per lo stato in cui sono ridotte e in cui
si sono ridotti coloro che abitano. È dura scoprire che le persone che abitano
le città li disprezzano, li chiamano okie,
li credono fannulloni, ladri, agitatori di masse. Tutti pensano sempre il
peggio di loro, che vivono nella sporcizia per scelta, e non perché non possono
comprarsi neanche del sapone, che non vogliano lavorare ma piuttosto mangiare a
sbafo, che desiderano paghe più alte per vivere nella bambagia, quando la
verità è che con trenta centesimi al giorno non possono neanche sfamarci la
famiglia.
I Joad si ritrovano insieme a
moltissimi altri, centinaia, forse migliaia, a lottare per ottenere un lavoro.
Lavori duri, malpagati, lavori che dai più disperati vengono accettati solo per
un pasto caldo e un luogo dove dormire all’asciutto – sia anche un vagone
abbandonato del treno o un baracca. Ed è allora che la rabbia cresce, quando i
bambini hanno fame e gli uomini sono costretti a umiliarsi e non rispondere
agli insulti per non finire in prigione, quando si abbassa la testa per non
perdere il posto e ci si fa chiamare “maledetti okie”. La rabbia cresce ed
esplode quando i grandi proprietari tacciono sullo stipendio e ti fanno pagare
anche il sacco che usi per raccogliere il loro cotone. E quando chi ha il
coraggio di alzare la voce viene ucciso e sul giornale annunciano solo di aver
trovato l’ennesimo barbone morto a causa del freddo; e i campi dove sono
montate le tende vengono dati alle fiamme; e i colpevoli non vengono mai
trovati; e la polizia arresta invece chi vuole formare un sindacato con falsa
accusa di vagabondaggio.
È allora che i grappoli del
furore sono maturi.
Penso di aver parlato talmente
tanto di questo romanzo, con così tante persone e così spesso, mentre lo
leggevo, che adesso che mi trovo a scriverne la recensione non so più cosa
dire.
…sul serio.
Vediamo cosa viene fuori con un
po’ di flusso di coscienza.
La prima cosa che mi viene mente
riguarda il linguaggio. Ne avevo avuto già un bellissimo esempio, di questo
tratto di Steinbeck, con “Uomini e topi”. Un linguaggio semplice, grezzo, ma
che arriva dritto al punto. Sapevo che quel breve romanzo era scritto per
adattarsi in seguito a spettacolo teatrale indirizzato soprattutto alla classe
medio/bassa, con un’istruzione piuttosto limitata, e pensavo fosse quella la
ragione di tanta semplicità, ma non è così.
Essendo “Furore” un romanzo di
più ampio respiro sono stata in grado di cogliere lo stile dell’autore, in
questa scelta. Il linguaggio di Steinbeck si può definire ‘terra terra’, se
vogliamo, grossolano, a volte proprio grammaticalmente sbagliato. Nei dialoghi
è normale, essendo i protagonisti mezzadri che hanno un’istruzione minima, che
venga utilizzato un linguaggio di questo genere, o il romanzo risulterebbe non
veritiero, artificioso e forse addirittura fastidioso. Ma anche nel narrato
Steinbeck sceglie di allinearsi a questo modo di parlare, limandolo appena, un
modo spiccio ma estremamente schietto e diretto.
La cosa che mi è piaciuta di più
di questo modo di scrivere è come contrasta con la profondità degli argomenti
trattati. Esposte con questo linguaggio le lunghe dissertazioni che spesso
occupano interi capitoli, creano una contrapposizione netta e quasi paradossale,
eppure bellissima da leggere proprio per questo motivo. Credo di aver trovato,
in questo romanzo, gli argomenti più profondi e toccanti di cui io abbia mai
letto, come la vita e la morte, la colpa, il peccato, la povertà e ciò che si è
disposti a fare per i propri cari, il dolore non fisico ma spirituale. In
breve, la natura umana, che è ciò che Steinbeck riesce a tirare fuori in ogni
occasione, in ogni storia, anche quella che ad una prima occhiata può sembrare
unicamente un romanzo sociale. E togliere quella patina di sacralità da
argomenti tanto complessi, che mai a mio parere riusciremo a comprendere fino
in fondo, li rende in qualche modo più accessibili, più comprensibili. E ci fa
anche rendere conto che è il pensiero fine a se stesso ciò che accomuna tutti
gli uomini, che non importa il ceto sociale, la cultura, l’intelligenza. Ogni
persona, in ogni epoca, è proprietaria di un mondo interiore immenso.
L’avete mai visto un fagiano, che vola tutto teso, bello con quelle penne
disegnate e tutte dipinte, e pure gli occhi dipinti? Poi, bum! Lo raccattate,
ed è solo un cencio insanguinato, e allora capite che avete sfasciato qualcosa
che era meglio di voi; e manco mangiarlo vi cambia niente, perché avete
sfasciato qualcosa che stava dentro di voi, e non la potrete riaggiustare.
E dopo questo stralcio non mi
sento di dire più niente. Non c’è più niente che io possa dire che vada oltre,
dopo questa frase (Steinbeck è riuscito a uccidere qualsiasi tentativo di
spiegare il suo romanzo, con un estratto come questo).
Una delle più meravigliose del
libro, per me, e che volevo condividere.
Adoro Steinbeck anche nei suoi libri meno conosciuti, questo ovviamente con La valle dell'Eden è un vero capolavoro che non può lasciare indifferente tra tematiche e scrittura.
RispondiEliminaNon ho ancora letto La valle dell'Eden, ma penso proprio che andrò presto guardare tutte le sue opere per scegliere quelle che mi interessano. Ho trovato un autore che mi piace veramente moltissimo, non lo lascio più andare! :D
EliminaIo ho letto solo Uomini e Topi. Devo dire che Furore mi spaventa un po'. Magari raccolgo il coraggio...
RispondiEliminaNon è una lettura semplice, in effetti, anche solo per le tematiche. Poi se lo stile dell'autore ti coinvolge tanto come ha fatto con me, sì ci vuole un po' di coraggio perché diventa realmente straziante!
EliminaLo stralcio merita, ci farei un poster! Ora si presenta un problemino, perché io amo questo tipo di scrittura e detesto soffrire tanto leggendo. Non so cosa farò, ma grazie per questa recensione appassionata. :)
RispondiEliminaAhah! Adoro lo stralcio, l'ho scelto fra tantissimi perché mi segno sempre le frasi che mi colpiscono e, in questo romanzo, ne ho trovate tantissime.
EliminaNel caso decidessi di leggerlo fammi sapere :D Per me la sofferenza è valsa la pena!
Ho l'impressione che Steinbeck vada letto con il giusto mood, altrimenti sono dolori.
RispondiEliminaPs. complimenti per la recensione e per il blog, sono entrambi una delizia :)
Grazie mille! Oddio, scusa per la riposta così tarda, non l'avevo vista!
EliminaSì ecco, Steinbeck è uno di quegli autori da maneggiare con cura, perché sai che in ogni caso accadrà qualcosa che ti stringerà il cuore, quindi meglio leggerlo quando non si ha la pesantezza addosso.
Leggo Kent Haruf in questi giorni, ripenso a Steinbeck (di cui avevo amato, amatissimo Uomini e topi) e guarda un po' mi imbatto per caso nella tua recensione. Me lo regalo, sì, oggi stesso. :)
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