venerdì 29 dicembre 2017

Cent’anni di solitudine – Gabriel Garcìa Màrquez

Una premessa: le feste non sono il mio forte.
Non odio il Natale, ma lui assorbe tutte le mie energie e il mio tempo. Faccio l’albero, compro i regali, organizzo, cucino, impacchetto, e quindi non faccio nient’altro a parte l’essenziale per sopravvivere. Insomma, tutto questo per dire che non riesco a stare dietro al blog, quindi auguri di Buon Natale in ritardo a tutti e Buone Feste per tutte quelle che verranno (nel caso non riuscissi ad aggiornare fino a dopo la Befana)!

Ma passiamo alla recensione di oggi, per la quale ci vuole una seconda premessa:
Una volta sottolineavo le citazioni sui libri ma, prendendone molti in prestito alla biblioteca, ho cominciato a scrivermi le citazioni più carine su un quadernino. Ho iniziato a farlo anche con i libri comprati, per non rovinarli. Capita spesso che un libro che mi è piaciuto molto sia foriero di molte citazioni. Almeno, fino ad ora era stato così, adesso c’è un’eccezione.
“Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcìa Màrquez è la mia eccezione.

I coniugi Buendìa e altre giovani famiglie partono dal loro paese di origine e si inoltrano nella foresta, in cerca di un luogo perfetto per fondare un nuovo villaggio. E proprio vicino a un fiume, quasi del tutto isolato dal resto della Colombia, circondato da alberi e a qualche kilometro dalle case più vicine, nasce Macondo. Il villaggio è ricco di vita, pace, curiosità, e non fa altro che ingrandirsi e fiorire. Esattamente come la famiglia Buendìa, che dà vita a due maschi che vengono chiamati con il nome del padre, e una femmina.
Inizia così la storia della famiglia, famiglia cui lo zingaro Melquìades legge il futuro all’inizio della loro esistenza, consegnandolo alla memoria di un fascio di pergamene che nessuno riesce a decifrare. Molti ci provano nel corso degli anni, ma la storia di Macondo esige attenzione altrove e le vecchie pergamene che celano il futuro dei Buendìa vengono dimenticate.
Il patriarca dei Buendìa impazzisce di saggezza e per questo viene legato ad un albero. Il figlio maggiore torna dopo una fuga di anni solo per essere ucciso in circostanze misteriose, il minore va alla guerra ed entra nella storia della Colombia, ma termina la sua vita modellando pesciolini d’oro nel suo laboratorio. I tanti figli cui hanno dato vita, legittimi o illegittimi che siano, proseguono la stirpe combattendo per i diritti dei lavoratori nel grande sciopero a danni della compagnia bananiera che si insedierà vicino a Macondo, altri combatteranno per un amore ostacolato dalla famiglia, altri ancora verranno dimenticati, assassinati, esiliati. E pian piano la famiglia che un tempo era impetuosa e forte come le rapide di un fiume, si assottiglierà fino a divenire un rigagnolo fangoso.
Perché qualunque cosa accada le cose andranno in un solo modo, come aveva predetto lo zingaro Melquìades, come le pergamene ammuffite hanno profetizzato, come svelano solo dopo cento anni di infruttuosi tentativi di decifrazione: “Il primo della stirpe è legato ad un albero, l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche”.

Ci credereste che, con oltre trecento pagine di libro, non ho trovato una sola citazione?
E ci credereste che questo libro, nonostante ciò, mi è piaciuto un sacco?
E ci credereste che anni fa lo avevo abbandonato, insoddisfatta?
Ebbene, ci dovete credere perché è così.

I miei genitori sono sudamericani e, come tutti i bravi sudamericani che ho conosciuto in vita mia (tanti) tengono in gran conto gli scrittori di cui l’america latina può vantarsi, esattamente come gli italiani che ho conosciuto (sempre tanti) sono fieri dei loro nobel per la letteratura. Per questo probabilmente ho sempre avuto il nome di questo autore nelle orecchie, da quando ho imparato a leggere.
Almeno tre degli scrittori che pressoché tutti i sudamericani hanno letto almeno una volta nella vita sono Mario Vergas Llosa, Pablo Neruda e ovviamente Gabriel Garcìa Marquez. È come Dante per il Bel Paese, in qualche modo ne vieni impregnato, che ti piaccia o meno, che tu lo capisca o no. Fa parte di te, perché lui fa parte dell’america latina.
Ci ho messo un po’ per compiere questo passo della cultura sudamericana (che a me sembra quasi un rito di passaggio, una specie di battesimo latino, come bere il pisco o mangiare rocoto relleno), ma meglio tardi che mai, no?

Ho iniziato questa recensione, ma in realtà non so bene cosa dire a proposito di Cent’anni di solitudine. Credo di aver capito perché non sono riuscita a trovare citazioni ‘collezionabili’.
Tutto in questo romanzo sarebbe da citare, perché ogni frase è strettamente legata a quella dopo, come una catena indistruttibile. E quando lo si finisce di leggere si capisce che l’inizio è legato alla fine, che l’inizio è esso stesso una fine e la fine è un inizio.
Troppo complesso da spiegare, dovreste leggerlo. Detesto dirlo, ma non c’è modo di parlarne se non lo si ha letto. Potrei raccontarvelo nei dettagli, ma tutto ciò che esiste di magico e incredibile perderebbe la sua magia e la sua incredibilità, e rimarrebbe ciò che rimane di un’eccellente idea in mano ad un lettore entusiasta: occhi brillanti e spiegazioni sconclusionate.


sabato 9 dicembre 2017

Autori autorevoli

Busti di Virginia Woolf, Roma, Collezione privata.
Di recente mi è capitato di leggere autori considerati mostri sacri della letteratura. Alcuni hanno vinto premi ambiti, altri sono considerati fra gli autori contemporanei più interessanti, altri ancora hanno sfornato classici senza tempo. Quelli più famosi e ‘intellettuali’ sono autori cui mi avvicino con fatica e un certo timore, per la loro stazza letteraria. Scopro però che alcuni sono piacevolmente leggeri, più leggeri di quanto mi aspettassi, altri sono incomprensibili. Ma una cosa li accomuna tutti, vengono considerati grandi scrittori. Faccio qualche nome, giusto per capire di cosa stiamo parlando:
L’ultimo libro che ho finito di leggere è di Gabriel Garcia Marquez, ed è arrivato subito dopo Joseph Conrad. Prima ancora ho avuto l’occasione di scoprire Don Delillo, Margaret Atwood, John Steinbeck. Questo è il tenore delle mie letture al momento, anche se intervallate con qualche cosa di più leggero ogni tanto (dopo il viaggio nella jungla di Conrad, ci vuole!).
Non posso dire che tutti i romanzi mi siano piaciuti, ma non posso negare che gli autori siano particolarmente talentuosi. Quindi mi sono chiesta, che cosa fa di un autore un grande autore?

Charles Dickens, Centennials Park, Sydney
Ovviamente non so darmi una risposta, anzi questo post è più un pensare a voce alta, cercare di raggruppare i pensieri per trarne qualche cosa. Scusate se vi tedio con post balordamente pesanti durante le preparazioni per il Natale (sto odiando l’albero, impossibile da collocare in una stanza senza che rompa le palline di Natale), ma nonostante le feste mi faccio questa domanda.
Pensando alla mia esperienza di grande autrice- no, bazinga! Pensando, piuttosto, alla mia esperienza di lettrice, mi è difficile capire quando sono di fronte ad un autore… diciamo autorevole. Uno di quelli che si capiscono bene solo grazie ad una preparazione, e nei cui libri si scoprono sempre nuovi significati sepolti sempre più in profondità. Insomma, autori intellettualoidi, che nel migliore dei casi ti fanno due balle così a forza di leggerli, nel peggiore ti fondono le idee nel cervello e ti lasciano senza sicurezze.
Ma che differenza c’è fra McCourt che racconta la miseria dell’Irlanda del secolo scorso, e Hugo che racconta quella della Francia del secolo ancora prima? Che differenza fra le storie di amore e magia della Allende e le saghe familiari di Garcìa Màrquez?

Io credo che la differenza stia nello scopo. Questi artisti hanno voluto una doppia lettura dei loro romanzi, che può essere sociale, intellettuale, che può essere lo studio dell’animo umano, ma pur sempre un qualcosa di celato dietro pagine appartenente innocue che raccontano una storia. Il messaggio che hanno veicolato arriva allora forte e chiaro ai lettori, mette in discussione verità che oggi o in passato avevano bisogno di essere messe in discussione, questioni lontane dal mero vivere e che siamo tutti troppo occupati per prendere in considerazione.
Poi si può essere d’accordo o meno, si può apprezzare o meno lo stile, la trama e i personaggi che, in questi casi, sono un supporto ad un’idea invece che l’idea stessa. Forse è questa la differenza fra un autore che è un colosso della scrittura e un bravissimo autore di narrativa che è capace, coinvolgente ma non scatena particolare dibattito. Forse bisogna essere un colosso nelle idee, nel pensiero, nel coraggio di esprimere la propria opinione.

E dopo tutto ciò, accenderò il mio albero di Natale.

domenica 3 dicembre 2017

Libri a confronto: USA

Di recente mi è capitato di leggere in rapida sequenza due romanzi che, a giudicare dai commenti e dalle recensioni che avevo letto in giro, avrei potuto anche paragonare. Dopo aver letto il primo ho pensato che sarebbe stato interessante leggere anche l’altro che, per un caso fortuito, mi è capitato fra le mani. Il fatto è che uno mi è piaciuto moltissimo, l’altro non mi è piaciuto affatto.
Sto parlando di “Canto della pianura” di Kent Haruf e “Uomini e topi” di John Steinbeck.
E so che vi state domandando quale mi è piaciuto e quale no, quindi iniziamo.

Ho letto per primo Haruf, incuriosita dalle ottime recensioni che, più o meno da due anni, spopolano nel web. All’inizio non volevo piegarmi, perché la trama non mi sembrava interessante e dopo aver letto un paio di recensioni ho cominciato a evitarle senza nemmeno leggerne un rigo. Mi ha infine convinta l’uscita dell’ultimo romanzo, “Le nostre anime di notte”, e il modo in cui lettori appassionati vi si sono gettati sopra, come se attorno a noi ci fosse solo l’apocalisse letteraria e Haruf fosse l’ultimo faro di speranza in un mondo altrimenti oscuro.
Per chi non fosse al corrente, “Canto della pianura” intreccia le storie di pochi personaggi, tutti abitanti della cittadina di Holt. Non viene specificato l’anno o il luogo, ma è facile riconoscervi quell’America rurale del sud degli Stati Uniti, dove si trovano ancora le fattorie e la campagna sconfinata, un paese dove tutti si conoscono e sanno i fatti altrui, e se da un lato dilaga l’ignoranza dall’altro è uno dei pochi luoghi in cui si può trovare gente caritatevole e genuina.
Lontana dagli scintillanti grattacieli cui siamo abituati a pensare quando si parla di USA, Holt è quadro di diverse storie. Victoria, sedicenne incinta, viene cacciata di casa dalla madre e trova ospitalità da due anziani fratelli che gestiscono un terreno. L’insegnante di storia Guthrie ha da dimostrare la sua buona fede con la famiglia di un suo allievo, poiché i genitori sono convinti che egli maltratti il figlio adolescente con pessimi voti immeritati. I suoi bambini nel frattempo crescono con una madre che, affetta da depressione, passa tutto il tempo in una stanza buia e sono alla ricerca della dolcezza che ella ha smesso di dare.

Non è stato premeditato, ma poco dopo mi sono ritrovata a leggere per la prima volta Steinbeck, sempre titubante in quanto grande classico americano e timorosa di non poterlo comprendere fino in fondo. Era da molto che avevo questo libro in wishlist e, finalmente, sono riuscita a procurarmelo in una vecchia edizione, con la traduzione di Cesare Pavese e libera da introduzioni e commenti di altri, così ho potuto leggerlo a mente sgombra, senza sapere cosa aspettarmi.
Il romanzo, quasi un racconto per lunghezza, ha protagonisti George e Lennie, due lavoranti che si spostano di fattoria in fattoria a cercar lavoro. George è piccolo e astuto, mentre Lennie ha il cervello di un bambino nel corpo di un gigante. Il sogno di entrambi è mettere da parte i soldi per comprare un terreno tutto loro dove alleveranno galline, avranno un orto, dove potranno decidere loro quando lavorare e quando no ma, soprattutto, un posto dove allevare conigli. Infatti Lennie adora gli animali di piccola taglia dal pelo soffice, ma ogni volta che ne trova uno lo carezza talmente tanto che finisce per ammazzarlo. Sembra quasi che il loro desiderio stia per realizzarsi grazie a un socio in affari, quando Lennie uccide senza nemmeno rendersene conto la moglie del padrone, poiché quella prende sottogamba sia la forza che il difetto di intelligenza dell’uomo. Lennie fugge in un luogo tranquillo ma viene seguito da un gruppo di uomini decisi a linciarlo. Il primo a trovarlo però è George che, per farlo scampare alla sofferenza, gli racconta ancora una volta della loro fattoria, lo rassicura sul loro avvenire, e gli spara alla nuca.

Ora che ho finito di scrivere la trama di “Uomini e topi”, avrei voglia di parlare solamente di questo libro…
Nel caso ve lo stiate ancora chiedendo, è stato lui quello che mi è piaciuto.
Ma non credo che ve lo stiate ancora chiedendo.

Ho sentito dire che Steinbeck ha fatto da base ad autori come Haruf, tuttavia in “Canto della pianura” non ho trovato un grammo dell’intensità che invece cattura il lettore in “Uomini e topi”. Capisco perché i due romanzi sono stati a volte paragonati: l’ambientazione simile, lo stile semplice e scorrevole, i dialoghi estremamente chiari e le descrizioni del paesaggio che, secondo me, denotano un grande amore per la terra di cui si parla. È vero, in questo i due romanzi si somigliano grazie a certi dettagli di stile e tematiche, e allora perché Steinbeck mi ha emozionato in modo inversamente proporzionale ad Haruf?
Credo che sia perché le intenzioni di Steinbeck erano più definite ed energiche di quelle di Haruf. Certo, le mie sono solo supposizioni, ma laddove mi sembra che Haruf abbia scritto per amore dell’atto in sé, per amore delle storie e del paese di cui scriveva (tutti motivi bellissimi, è indubbio), Steinbeck ha scritto per scuotere gli animi.
“Uomini e topi” parla di operai agli operai, tutto nel romanzo è progettato per loro, perché il messaggio arrivi forte e chiaro. Il linguaggio semplice, perché spesso i lavoranti non sapevano leggere molto o affatto, i dialoghi squisitamente sbagliati dal punto di vista grammaticale, i personaggi vividi eppure così estremamente umani! Sono tutti tasselli che vanno a rendere la storia particolarmente intensa e che, in Haruf, mancano di una spinta.

Ho trovato i due romanzi molto diversi, e non penso che possano essere paragonati solo in base al fatto che sono ambientati nello stesso territorio. La carica emotiva che Steinbeck infonde al romanzo, prima dipingendo la vita dura e le speranze dei protagonisti per poi distruggerli come unica soluzione alla sofferenza, manca totalmente in Haruf, sia per la natura delle situazioni raccontate che, io credo, per uno stile differente.
I personaggi di “Canto della pianura” sono in balìa della corrente, non sanno cosa vogliono e attendono il futuro con la speranza che sia meglio del presente, eppure non sognano qualcosa in particolare né si rimboccano le maniche per uscire dalla situazione in cui si trovano. Per tutto il libro mi sono parsi apatici, quasi depressi, incapaci di reagire.
In fin dei conti penso che la grande differenza fra questi due romanzi non sia tanto la storia o l’epoca, ma la capacità dell’autore di rendere la drammaticità delle situazioni. Haruf ha messo i suoi personaggi in posizioni difficili, eppure provare pena per loro è quasi impossibile perché ogni cosa viene presentata piattamente. Steinbeck ha concentrato in meno pagine personaggi più intensi, che compaiono anche poco nella storia ma riescono a trasmettere la loro angoscia, e questo emoziona molto più di una vicenda in sé drammatica.
Non posso che concludere consigliando caldamente “Uomini e topi”. È perdurato nel tempo nonostante sia profondamente legato alla sua epoca, perché analizzando ciò che voleva denunciare Steinbeck ha colto le ragioni profonde dell’ingiustizia, dovute alla natura umana più che alle regole ritorte della società.



«Per noi è diverso. Noi abbiamo un avvenire. Noi abbiamo qualcuno a cui parlare, a cui importa qualcosa di noi. Non ci tocca di sederci all’osteria e gettar via i nostri soldi, solamente perché non c’è un altro posto dove andare. Ma se quegli altri li mettono in prigione, possono crepare perché a nessuno gliene importa. Noi invece è diverso.»
Lennie interruppe. «Noi invece è diverso! E perché? Perché… perché ci sei tu che pensi a me e ci sono io che penso a te, ecco perché.»