giovedì 30 marzo 2017

La Lega dei Cattivi – Parte 1

Chi legge di quando in qua questo blog forse avrà notato che a volte simpatizzo per i cattivi delle storie. Nei libri capita spesso che il protagonista mi dia noia, e spezzo sempre una lancia in favore dell’antagonista. Penso sia una questione di giustizia: tutti ce l’hanno con il cattivo di turno, ma senza di lui l’eroe non avrebbe nessuno da combattere. L’eroe riscuote successo di pubblico, è logico, sta dalla parte del Bene. Ma cosa dovrebbe fare un povero cattivo che fa solo il suo mestiere? Io sono dalla parte dei cattivi, che saranno sempre troppo bistrattati per i miei gusti.
Ci sono alcuni cattivi, poi, che mi piacciono molto e, sebbene alla fine sia naturale tifare per la vittoria del protagonista, quasi mi dispiace che il cattivo abbia fallito. Sono personaggi con personalità, intelligenti, che hanno delle motivazioni molto più profonde del classico “conquistare il mondo” di Mignolo con Prof.
Inolte, non dimentichiamolo, il cattivo ha sempre l’opportunità di comportarsi male senza sfigurare. Da un cattivo ci aspettiamo che rapini una banca, si faccia una collana di teschi di coniglietti fuffosi, prenda in giro i protagonisti con scherzi stupidi. Non ha una reputazione da proteggere, i cattivi possono permettersi molto di più, come personaggi. Cose più divertenti.
Quindi ecco qui i cattivi di cui ho letto e che mi sono piaciuti. Una sorta di Lega dei Cattivi delle mie letture.

I puristi
Questi sono coloro che sono cattivi nell’animo, che fanno del male consapevolmente e sono felici di farlo. Ammetto che le motivazioni di alcuni siano tutt’ora non chiarite, altre non pervenute, altre semplicemente malate. Ma essere cattivo nell’animo ha questa piccola difficoltà: vuoi essere cattivo e basta, sei nato così, e le motivazioni che ti spingono sono a volte banali. Vallo a spiegare, ai lettori, che ti hanno scritto così.
Il primo cattivo che chiamo in causa è la signorina Trinciabue, dal romanzo per bambini “Matilda” di Rold Dhal. Quelli di Dahl sono forse i cattivi migliori, liberi da ogni aspettativa perché quello che un bambino vuole da un cattivo, è solo che sia cattivo. Non c’è bisogno di spiegare tanto il perché, non è quello che interessa. E poi lo sanno tutti che le streghe odiano i bambini, che i giganti li mangiano e che a volte anche fra gli adulti che conoscono si può celare un cattivo coi fiocchi. È questo il caso della signorina Trinciabue, la crudele preside della suola di Matilda, una ex campionessa di lancio del peso che si è reinventata preside, per terrorizzare tutti gli allievi! Una parte di me aveva il timore che potesse in ogni momento arrivare nella mia scuola per fare l’insegnante. Di matematica, magari.
Un po’ più cattivo e molto più famoso è Tom Riddle, alias Voldemort. Scelta scontata forse, ma era d’obbligo inserirlo, se non lo avessi fatto si sarebbe risentito. Ho sempre trovato Voldemort un personaggio affascinante, paradossalmente lo era di più nei primi libri, quelli dove non c’era fisicamente ma la sua presenza aleggiava su tutta la storia. Questo è uno di quei cattivi di cui vuoi conoscere il passato, che ti incuriosiscono, e che una piccola parte di noi vorrebbe veder trionfare anche solo per sapere che cosa avrebbe fatto dopo.
Ultimo dei puristi, un altro personaggio femminile: Annie Wilkies, nata dalla penna di Stephen King per il romanzo “Misery”. Questo è stato uno dei pochissimi personaggi che mi abbia terrorizzata di notte. Sognavo infermiere pazze che si avvicinavano furtive al mio letto con un’ascia stretta fra le mani. La sensazione era un po’ di paura e un po’ di adrenalina, quel sentore angoscioso che ci attanaglia quando è buio e la fantasia corre. Scrittori famosi di tutto il mondo, guardatevi dai vostri fans numero 1.

Gli insospettabili
Questo nome è derivato più dal genere di appartenenza di questo tipo di cattivo, ovvero i gialli. Non è un genere che leggo molto, è vero, ma in quei pochi che ho letto vi ho trovato dei cattivi stupendi, alcuni dei più interessanti. I cattivi dei gialli hanno un vantaggio, rispetto agli altri, per essere fedeli al loro genere di appartenenza devono essere scaltri, intelligenti, astuti, e guidati da un obiettivo così forte da portarli persino all’omicidio. Se il libro è scritto bene saranno sempre quelli di cui non avresti mai sospettato.
Il primo indiziato è il giudice Lawrence John Wargrave, che Agata Christie inserisce fra i cadaveri ritrovati a Nigger Island in “Dieci piccoli indiani”. Il libro di per sé non descrive moltissimo i suoi personaggi, ma del giudice si può intuire tutto alla fine, o si possono solo fare ipotesi. Un folle? Un uomo consimato dai sensi di colpa? Di sicuro un cattivo infallibile, che nessuno avrebbe mai scoperto se non fosse stato per la sua stessa confessione postuma.
Altro giallo, altro insospettabile. “Il nome della rosa” di Umberto Eco presenta uno dei cattivi più innocui e al contempo pericolosi, Jorge da Burgos. Monaco ed ex bibliotecario ormai vecchio e cieco, è disposto a uccidere e a morire per conservare i segreti più oscuri della biblioteca del monastero, segreti che potrebbero cambiare la vita stessa dei religiosi di ogni ordine. Il libro è molto complesso e sfido chiunque a capire che il vero cattivo di tutta la vicenda è proprio lui (non lo aveva capito nemmeno il protagonista, quindi mi sa che noialtri abbiamo poche possibilità). Tuttavia è un personaggio che colpisce, più che per la sua malvagità per la sua tenacia, per il sacrificio che è disposto a compiere. Completamente folle, ma non per questo meno magnifico. Personaggi come lui se ne trovano pochi, nei libri.

Nella piccola lista che ho compilato per scrivere questo post c’è ancora qualche cattivo che aspetta il suo turno, ma aspetterà ancora un po’ altrimenti il post sarebbe lunghissimo!
E poi non è sicuro mettere troppi cattivi tutti assieme, chissà che cosa potrebbero combinare. Già il giudice Wargrave con a disposizione un’accoppiata come Annie Wilkies e la signorina Trinciabue è pericolosissimo.
Qualche altro cattivo da suggerire?

lunedì 20 marzo 2017

Penna alla mano #1: I jolly dell’arte

Ho notato che sto parlando molto più spesso di aspetti più tecnici della scrittura, aspetti che potrebbero interessare più chi scrive che chi legge. Per questo ho deciso di creare la rubrica Penna alla mano, in cui blaterare di scrittura, annessi e connessi.
Quindi, cominciamo!

Chiunque voglia produrre arte prima o poi incappa in alcuni termini che potrebbero mettere soggezione: creatività, ispirazione e talento.
Penso che tutti quanti vengano usati ormai troppo spesso, tanto che in alcuni contesti perdono il loro significato principale e, sebbene sappiamo benissimo che cosa significhino, vengono interpretate in maniera sottilmente diversa. La creatività diventa sinonimo di novità, l’ispirazione si traduce in idea e il talento viene tirato in ballo molto spesso solo quando si ha una già conquistata fama.
È difficile definire questi elementi, ma dato che mi domando spesso cosa siano, be’, sarà il caso di farlo.


Queste parole sono abusate proprio per il fatto che è difficile assegnare loro un significato univoco, che tutti interpretino in un solo modo. Accade con tutte le parole che descrivono qualcosa di astratto e non dobbiamo stupircene, tuttavia quando un critico o anche solo qualcuno che commenta un’opera si avvale di uno di questi termini è difficile, se non si è d’accordo, dare una diversa opinione, perché è difficile capire che cosa un critico intenda per ‘talento’, ‘creatività’ o ‘ispirazione’.
Inoltre come si fa a misurare la creatività di qualcosa, o il talento di qualcuno, come si fa a capire quanto è dato dall’ispirazione e quanto dal lavoro? Non si può. Quando leggo una recensione e vedo usare questi termini non capisco esattamente cosa vogliano dire, vi vedo solo un blando complimento, quasi come se il recensore volesse tirarsi fuori da un impiccio. Dico talento per adulare l’artista e dico creativo per descrivere l’opera. Lo dico perché non so che cosa dire.
Se un giorno scrivessi qui sul blog che Caravaggio aveva un grande talento a cosa servirebbe? Tutti sanno della sua bravura, ma come posso dimostrare che la sua era un’inclinazione naturale? E anche facendolo, cosa cambia? La mia critica, se basata unicamente su questo fatto, diventa sterile, una sottolineatura dell’ovvio. Sappiamo tutti che Caravaggio era molto capace, ma perché dovrei apprezzare i suoi dipinti? Tuttavia nessuno può dire che non ho ragione e la mia critica potrebbe anche essere apprezzata da qualcuno che non si pone certe domande (come fa la sottoscritta mandando il proprio cervello in pappa).
Ecco perché questi sono termini jolly.

La creatività credo sia l’unica, fra queste doti, a poter essere coltivata. La creatività è un muscolo da allenare e non viene usata solo per creare, ma per la vita. Io la vedo come qualcosa che ci permette di affrontare una situazione e risolverla in modo diverso ogni volta, a seconda delle necessità e delle possibilità. La creatività è arrivare alla stessa soluzione percorrendo strade nuove e sempre diverse, senza fossilizzarsi su un percorso definito.
Diverso è il discorso per gli altri due. Se essere creativi è qualcosa che dipende da noi, l’ispirazione e il talento sono incontrollabili, o comunque innati. Soprattutto il secondo.
Il talento è la capacità di fare qualcosa e ottenere buoni risultati con relativa facilità, laddove altri devono impegnarsi. Ho sentito moltissime volte parlare di talento, persone chiedersi se ne hanno abbastanza, altri chiedersi se è indispensabile, io stessa mi sono fatta queste domande. Io credo che non lo sia. Credo che il talento sia utile per fare qualsiasi cosa, anche scrivere, ma chi ne fosse sprovvisto non deve disperare. Chi non ha talento ripiega su studio e passione e in questo modo può raggiungere gli stessi risultati. Chi ha talento… be’, è fortunato.
La più difficile per me da capire è l’ispirazione. Nel suo blog Scrivere è vivere, Grazia Gironella aveva scritto un post sull’ispirazione, dicendo che è diversa per ognuno di noi. Sono d’accordo e forse è per questo che l’ispirazione, in questo post, è il mio argomento preferito. Non c’è modo di definirla perché è personale, in un certo senso è creata da noi perché arriva dai recessi più profondi del nostro essere, plasmata così come abbiamo bisogno di riceverla. Più che sembrarmi una dote mi sembra un momento fugace, tutto mio: il momento in cui sono tranquilla, particolarmente di buon umore, parole e idee arrivano senza sforzo e sono soddisfatta del mio lavoro. È uno stato d’animo che posso cercare di raggiungere, ma che alla fine arriverà con i suoi tempi e sul quale non ho alcun controllo reale. Questo non mi impedisce lo stesso di scrivere, perché se scrivessi solamente quando sono ispirata scriverei pochissimo.

Spesso ci si domanda se si hanno le capacità per scrivere, o dipingere, o fare musica o installazioni artistiche, di design e chi più ne ha più ne metta. Ci mettiamo sempre di mezzo questi termini che, in fondo, non sappiamo descrivere e che sono un mistero per tutti. Sembra che senza non sia possibile fare qualcosa degno di nota.
Scrivere questo post mi ha fatta riflettere. Certo essere creativi, ispirati e talentuosi può aiutare, ma alla fine le uniche cose davvero fondamentali per riuscire sono lo studio e la passione. Molto più inquadrabili, molto più terrene se vogliamo, più comprensibili e semplici. Il resto è un jolly e non è detto che capiti nel nostro mazzo, ma abbiamo comunque tutte le possibilità di giocare una buona partita.

martedì 14 marzo 2017

L’ultimo degli uomini – Margaret Atwood

Ricordo benissimo come sono arrivata a questo libro. In biblioteca avevo visto, fra le novità, “L’altro inizio”, che mi aveva incuriosita sin dalla copertina. Leggendo la trama ho scoperto che era il terzo della “MaddAddam Trilogy”, così sono incappata in “L’ultimo degli uomini” (titolo originale: Oryx and Crake), dell’autrice canadese Margaret Atwood.
Di solito evito le saghe ed è da anni che non ne inizio una. Ha giocato a favore di questa il fatto che fosse già conclusa, il che mi risparmia l’attesa spasmodica per il prossimo volume, inoltre la trama è troppo, troppo interessante.

La narrazione alterna il presente al passato senza uno schema preciso, apparentemente in base ai ricordi del protagonista, che in seguito ad un disastro di portata mondiale rimane l’unico essere umano sulla terra. Ha abbandonato il suo vecchio nome, Jimmy, per riferirsi a sé stesso con l’appellativo di Uomo delle Nevi.
Il mondo in cui vive è tossico. Uomo delle Nevi non può stare al sole per troppo tempo, non può fare il bagno in mare, deve dormire su un albero a causa degli animali pericolosi creati dall’uomo tramite manipolazione genetica, e che ora popolano la terra e si stanno inselvatichendo. Gli unici a far compagnia al protagonista sono i cosiddetti Figli di Crake.
Creati per essere perfetti, copiano molti dei comportamenti animali e il loro DNA è costruito ad hoc per evitare tutto ciò che gli umani hanno di ‘sbagliato’. Mangiano solo radici ed erbe, non conoscono la territorialità se non per proteggere la loro specie, possono vivere solamente trent’anni e, una volta raggiunta la maturità, si riproducono solamente ogni tre anni. I meccanismi che regolano la loro società sono costruiti per evitare diseguaglianze razziali, poiché i Figli di Crake nascono ognuno con un colore diverso di pelle, sessuali, poiché la loro specie non conosce il desiderio se non in relazione alla riproduzione in determinati periodi. Dovrebbero essere la specie che salverà il mondo, pensata per sostituire gli umani e vivere in armonia con la natura.
Uomo delle Nevi ricorda e si interroga. Come si è arrivati a tanto? C’era un modo diverso da quello escogitato dal suo migliore amico, Crake, per cambiare le cose o si era giunti troppo in là?

Credo di averne già parlato in relazione a “L’atlante delle nuvole”, di David Mitchell. La mia idea riguardo alla tecnologia e di come la stiamo utilizzando può essere definita… forse poco popolare. Ma credo che sia ciò che l’autrice di questo libro vuole dire: il fatto che possiamo fare qualcosa non significa che dobbiamo per forza farlo.
Il libro è ambientato in un futuro che, secondo me, non è poi così improbabile. La manipolazione genetica nel romanzo ha raggiunto livelli di eccellenza tali da poter creare una nuova specie, quindi nulla di ciò che potete immaginare è impossibile. Gli scienziati hanno creato degli animali, i proporci, per tenere in incubazione organi umani da usare nei trapianti; i bambini si programmano con caratteristiche decise dai genitori; hanno inventato una macchina che fa nascere e nutre solo il petto del pollo, un petto fatto di sola carne che succhia nutrimento e non pensa, non sente dolore, non è chiaro se la sua possa considerarsi vita, ma nutre migliaia di persone e quindi perché non usarlo?
I cittadini che stanno meglio vivono nei Recinti, piccole oasi di benessere che crescono attorno alle grandi aziende, che forniscono ai loro dipendenti tutto ciò di cui hanno bisogno: case, scuole, centri commerciali, ospedali, e tutto quel che la città deve offrire. Fuori dai Recinti ci sono le Plebopoli, ossia il resto del mondo. La terra è devastata dal clima terrestre che si è fatto ostile a causa dello sfruttamento senza controllo di ogni risorsa naturale, ci sono carestie, criminalità, povertà, ignoranza.
La cosa che mi ha fatto riflettere è che il mondo dipinto dall’autrice non mi sembra così strano o incomprensibile. Laddove la scienza può tenta sempre di fare qualcosa, e quando si pensa di aver raggiunto un risultato ci si domanda: «Perché non andare oltre?». Tuttavia a mio parere ci sono dei limiti che non dovrebbero essere superati anche avendo la possibilità di farlo. A questo punto dovremmo chiederci: chi ha il diritto di decidere qual è il punto da non superare?
Nel romanzo ci sono alcune cose che di certo siamo portati ad aborrire, come il petto di pollo fine a sé stesso (fa ridere dirlo così, ma la descrizione è aberrante), o il fatto che gli esseri umani si fanno trapiantare organi che crescono dentro fabbriche a forma di maiale. Siamo in un futuro che ha eliminato alcuni dei tabù che noi conosciamo, utilizzando gli animali a piacimento dell’uomo. Ma non abbiamo già iniziato questo processo? Facciamo esperimenti sugli animali, li usiamo come cavie, li cloniamo. La vita stessa dell’animale ha un significato diverso dalla vita umana, quindi non trovo strano che l’uomo, in un futuro, possa giustificare qualsiasi mutazione genetica sugli animali in base al fatto che «tanto sono animali».
Da qui a fare la stessa cosa sulle persone, quanta distanza c’è? Da qui al futuro che la Atwood dipinge così cupo, manca davvero tanto?

Mano a mano che il tempo passa stiamo perdendo molti dei nostri tabù, è già accaduto. Pensiamo di poter disporre del mondo come vogliamo e solo negli ultimi decenni si sta creando una coscienza collettiva, perché ci stiamo rendendo conto che la terra non è una fonte inesauribile di energia e che l’abbiamo danneggiata.
“L’ultimo degli uomini” ci presenta un mondo già al termine della sua vita. Una società umana priva di morale, una terra sull’orlo del disastro ambientale. Pensare che possa essere possibile mi ha un po’ inquietata, per questo vi consiglio di leggere il romanzo. E di farlo leggere ad altri, che magari lo faranno leggere ad altri.
E così un giorno, chissà, magari eviteremo di mangiare pollo transgenico.

lunedì 6 marzo 2017

Di trilobiti e scarichi otturati

Leggendo “Northanger abbey” mi sono resa conto che la narrativa di genere è sempre stata considerata di bassa qualità, e c’è sempre stata una distinzione fra una narrativa ‘alta’ e una ‘popolare’. Ho cominciato a pensare alle differenze che rendono un libro popolare e me ne sono venuti in mente a bizzeffe.
Un romanzo con caratteristiche che lo includono in un filone letterario è narrativa di genere. Il suo intento spesso non è di denuncia, non sottolinea un problema sociale o politico, si limita a cercare di allietarci – da qui il termine ‘di evasione’. Un romanzo di genere non vuole per forza far passare un messaggio o un ideale, vuole semplicemente intrattenere il lettore, che vi legge un messaggio molto spesso personale.
Poi ho pensato a quali sono le caratteristiche della letteratura definita ‘alta’ e mi sono resa conto che non ci sono criteri, che la letteratura con la L maiuscola raggiunge quello stato inconsapevolmente, senza sapere come né perché è geniale. Che cosa rimarrà della letteratura fra mille anni? Gli uomini del futuro guarderanno alla nostra epoca, leggeranno i nostri capolavori, ma sarà davvero noi che questi capolavori rappresentano?
Penso che la letteratura popolare sia molto più vicina alla persona di quanto non lo sia la letteratura cosiddetta alta. Se dovessi dire che assomiglio ad un libro non citerei mai i lavori di Herman Hesse, Charles Bukowski (grazie al cielo), Franz Kafka. Penso che assomiglierei più a un romanzo di genere perché riflette con semplicità le emozioni che la gente prova a caldo, spontaneamente, che esprime tutti i giorni e senza le paturnie che la letteratura porta con sé e che sono seppellite molto più in profondità in ognuno di noi.
La letteratura rispecchia pensieri e stati d’animo molto criptici, universali certo, ma sui quali durante la vita ci si interroga poche volte. Le persone sono più impegnate a vivere nella normalità, nelle piccole sfide di tutti i giorni, non capita spesso che ci guardiamo dentro per cercare di scandagliare i nostri pensieri più profondi. Quello lo fa un autore quando sta scrivendo Letteratura, ma non è quello che prova quando si alza al mattino e pensa a portare i figli a scuola, a dare da mangiare al gatto, a chiamare l’idraulico perché gli si è intasato lo scarico, a dover fare ginnastica ché sta mettendo su pancia, e poi, ricordiamolo, deve mettersi sotto e scrivere!
Credo che per la maggior parte del tempo siamo più superficiali di quanto non vorremmo, tutti quanti, ma non c’è scritto da nessuna parte che sia un male. Pensate a come sarebbe il mondo se passassimo il nostro tempo a ragionare su questioni filosofiche. Probabilmente saremmo ancora trilobiti perché avremmo usato tutte le nostre energie per pensare invece che per evolverci. Saremmo tutti trilobiti molto saggi.
La letteratura di genere non richiede lo sforzo di comprenderla a tutti i costi, richiede solo di essere letta. E, se proprio devo essere sincera, non è che io comprenda poi così bene la letteratura. Mi sembra di carpirne una particina quando mi sento particolarmente ispirata, ma per il resto mi rimane oscura.
Non voglio sminuire la narrativa popolare con questo post, al contrario vorrei che la sua importanza fosse riconosciuta. La narrativa popolare rappresenta la parte di noi che viene a galla, la letteratura rappresenta quel che c’è in profondità. Ecco perché è giusto che entrambe esistano e che abbiano la stessa importanza.