giovedì 28 maggio 2015

Il profumo – Patrick Süskind

Parecchi anni fa, talmente tanti che non ricordo nemmeno con precisione quando, trovai al mercatino dell’usato una copia di “Il profumo” e, dato che ne avevo sentito parlare, decisi di comprarla. Me ne pentii meno di cento pagine dopo.
La trama era interessante, lo stile eccellente, ma il protagonista uno dei peggiori che avessi mai visto. Ben caratterizzato, pittoresco e tuttavia reale, ma con un unico, grosso difetto: Jean Baptiste Grenouille è privo di qualsivoglia sentimento, di anima se vogliamo, e l’autore riesce a farlo trasparire alla perfezione. Dallo stesso creatore Grenouille è paragonato ad una zecca e, nel corso della narrazione, si dimostra arrogante, pieno di sé, incapace di amare e di capire gli uomini. In una parola, è disgustoso.
Non sto esagerando. Anni fa smisi di leggere il libro perché sentivo di odiare il protagonista. Anzi, forse peggio, era orripilante, non volevo sapere più nulla di lui e non riuscivo a capire come quel libro fosse tanto osannato. Lo abbandonai e me ne dimenticai presto.
Qualche mese fa un’amica mi disse di aver visto un bellissimo film, intitolato “Il profumo”, che le era piaciuto moltissimo. Mi disse in due parole di cosa parlava e io le domandai: «Ma sei fuori?» Era pressoché inconcepibile, per me, che chiunque potesse apprezzare una storia del genere. Memore della tragedia che era stato per me leggerla, mi sembrava assurdo che ne avessero addirittura tratto un film. Per qualche masochistica ragione, comunque, mi lasciai convincere a guardarlo, dato che la mia amica mi aveva assicurato che era – seppure un po’ strano – un bellissimo film.
Non so bene se è per una scelta registica azzeccata, per gli attori particolarmente bravi, o semplicemente perché un film non trasmette le stesse sensazioni di un libro, ma mi piacque. E fu allora che decisi che avrei riprovato con l’originale. Perché quello che raccontava il film, il libro non poteva che raccontarlo meglio.
 
Siamo nella Francia del XVII secolo, a Parigi, la città più grande del paese e anche la più puzzolente. È lì che nasce il nostro protagonista, Jean Baptiste Grenouille, uno scricciolo di bambino che, in seguito, diventerà uno scricciolo d’uomo.
Grenouille cresce senza amore, senza un sorriso o un gesto d’amicizia, rispetto o comprensione. Senza neanche sapere il perché, gli uomini lo temono, si sentono a disagio di fronte a lui, e preferiscono evitarlo. Grenouille invece li comprende a metri e metri di distanza, non appena inspira il loro odore. Si portano addosso gli odori del corpo, di ciò che hanno mangiato, di ciò che hanno toccato, e negli anni Grenouille riesce a capire se una persona è di fretta, è agitata, è emozionata, è spaventata, e lo capisce solo dall’odore che emana. Ma non sente solo i profumi umani, percepisce ogni cosa, persino di ciò che, comunemente, si pensa non abbia odore. Grenouille capisce in fretta di non essere come gli altri, di avere un dono particolare che a lui solo è stato dato e che lo rende unico e grande. Ma non sa cosa farsene.
La sua intera prospettiva sul mondo cambia quando annusa una fanciulla, una ragazza dai capelli rossi che porta con sé un odore diverso da tutti gli altri: un profumo intenso e buono, che Grenouille non aveva sentito su altri esseri umani prima di allora. Capisce quindi qual è il suo scopo, qualcosa che lui solo può fare. Diventerà profumiere, per creare gli odori più buoni che mai si siano mai annusati, per non doversi provare mai più di profumi come quello della fanciulla dai capelli rossi, per poterli assimilare e fare suoi, come si assimila l’odore dei fiori. Facendoli appassire lentamente.
 
Patrick Suskind
Questo libro è piuttosto famoso, e forse sapete già come andrà a finire. Nel caso non lo sappiate non vi anticipo nulla. Già da questo si capisce che mi è piaciuto: di solito cerco di non anticipare i libri che mi sono piaciuti, mentre quelli che non apprezzo li sbandiero a destra e a sinistra raccontandone tutte le pecche.
Realizzo ora di non riuscire a trovare un solo difetto in questo libro. Lo stile è asciutto e sobrio, ma si gonfia di poesia in certi attimi. Il linguaggio è ricercato, utilizza solo le parole più adatte, che rendono il concetto e non riempiono mai inutilmente la pagina, inoltre danno proprio la sensazione che l’autore voleva trasmettere. Il lavoro di ricerca è impressionante, non solo dal punto di vista storico, ma anche e soprattutto per la ricerca sulle tecniche che i profumieri usavano in passato, e anche solo per gli usi e i costumi dell’epoca, che sono resi con precisione e naturalezza. I personaggi sono ben tratteggiati (mi sono già dilungata abbastanza sul protagonista, descritto talmente bene da risultare quasi offensivo), così come le emozioni umane. La trama è semplice e scorre piano, con calma, anche nei momenti più adrenalinici, il che è una cosa curiosa.
Penso che non sia mai accaduto prima, ma non trovo nulla da ridire su questo libro. Un giorno storico! Una data da segnare sul calendario! La cosa curiosa, comunque, è che non sarei mai riuscita a leggerlo se prima non avessi visto il film. Di fatto, prima non ci sono riuscita. Forse il film umanizza un po’ il protagonista, o forse non possiamo capirlo (e automaticamente odiarlo) bene come nel libro, non sappiamo quanto il suo animo sia vuoto e insensibile quindi, sebbene non sia un personaggio positivo, rimane comunque sopportabile.
A parte le considerazioni sui vari aspetti del libro non so bene cosa dire su “Il profumo”. So solo che merita di essere letto, ma non so spiegarvi il perché.
 
Jean Baptiste Grenouille
interpretato da Ben Wishaw
 

lunedì 25 maggio 2015

Titoli mutanti

Poco fa mi è capitato di scrivere una minuscola digressione sui titoli dei libri e, ripensandoci, mi sembra sia un ottimo spunto per un post vero e proprio.
Molti pensano, erroneamente, che i titoli dei libri stranieri che vengono tradotti e pubblicati anche in Italia vengano scelti dal traduttore. Ebbene non è così, non è colpa del povero traduttore se vediamo fra gli scaffali titoli sempre più somiglianti fra loro, sempre più banali e che cavalcano l’onda di un solo titolo ben riuscito che, probabilmente, fa da testa ad un best seller.
Mi sento di difendere il Povero Traduttore, perché lui magari fa il suo lavoro zitto e quieto, traduce alla lettera anche il titolo (che magari non ha bisogno di traduzioni più fantasiose, o magari la traduzione letterale ha un senso per le vicende narrate nel libro stesso), poi questo viene cambiato dall’ufficio marketing e lui, il nostro Povero Traduttore, si becca tutti gli insulti. Per la verità credo che se un traduttore stravolgesse di sua iniziativa un titolo sarebbe preoccupante, perché se lo fa con quello figuriamoci che può combinare con il libro! A quel punto non proverei più pena per lui, un bel calcio e fuori dai piedi.
Prima, comunque, ho fatto accenno ad alcuni loschi figuri che sono i veri responsabili del terribile mutamento che i titoli subiscono: l’area marketing. Ogni casa editrice ne ha una, dalla più piccola a quella miliardaria, ed è presumibilmente questa che decide il titolo di un libro. Armati di statistiche vanno a vedere com’è il titolo del libro che ha venduto di più nel mese precedente e, toh!, ne appioppano uno simile anche a quello in uscita. Poi, probabilmente, si guardano fra loro con sorrisi indulgenti e si danno pacche sulle schiena, soddisfatti del loro operato.
Ma sapete una cosa? Da quanti anni è che si sente la gente lamentarsi che i titoli di libri sono tradotti male? Che il titolo originale è migliore, più interessante, più in linea con la trama? Chissà quanti libri mi sono persa perché il titolo non era accattivante, mentre in realtà quello che vedevo io era solo un titolo posticcio? Ora, io non sono un’esperta di marketing, ma dato che osservazioni come questa sono naturali ormai, non sarebbe utile provare a dare ascolto ai desideri dei lettori?
 
Due motivi per cui i Titoli Mutanti non sono una strategia vincente.
La prima è che rendono il libro invisibile agli occhi dei lettori.
Se entro in una libreria e vedo “Il profumo delle foglie di limone”, “Il profumo del tè e dell’amore”, “Gli ingredienti segreti dell’amore”, “Gli ingredienti dell’amore perfetto”, “Il superstite”, “Il professore” e “Il negoziatore”, è chiaro che i miei occhi si perdono in questo marasma, tutto acquista la stessa tonalità e, se comprassi uno di questi libri, non sarebbe perché mi interessa ma perché è il primo che ho acchiappato, probabilmente.
La cosa curiosa è che, nell’ordine, i titoli sopracitati sono: “Lo que esconde tu nombre”, “Friends, lovers and other indiscrections”, “I sorrisi delle donne”, “Comfort food”, “Silenzio freddo”, “What comes next” e “Step on a crack” (ne ho presi alcuni a caso, andate pure a cercare l'autore, se vi sconfinfera). Al di là del fatto che ci interessino o meno, si può vedere chiaramente che la varietà è molta di più e a questo punto voglio fare un esperimento.
Del primo gruppo di titoli, quelli tradotti dalle case editrici italiane per intenderci, sceglietene uno che vi ispira e ditemi come mai lo avete scelto (se riuscite a sceglierlo, non è obbligatorio, potete anche dirmi che non ve ne è nessuno che vi interessi), fate poi la stessa cosa con il secondo gruppo. Si può scegliere più di un titolo.
Per parte mia posso dire che, del primo gruppo, l’unico che potrebbe attirare la mia attenzione è “Il professore”, ma in mezzo a tutti quei nomi comuni singolari potrei persino perdermelo. Del secondo gruppo ci sarebbero invece “Lo que esconde tu nombre” e “Comfort food”. Già due a uno!
Il secondo motivo per cui non è moralmente corretto mutare i titoli è che questo è stato scelto dall’autore (nel peggiore dei casi, in cui l’autore con i titoli proprio non ci sappia fare, la casa editrice lo avrà un po’ deviato, ma lui ne era comunque consapevole), così come gli altri elementi letterari del libro, quindi ciò che ha scelto deve essere rispettato, esattamente come viene rispettato il resto del testo. Per di più ci sono delle volte in cui il titolo è fortemente legato alla trama, e in questi casi a maggior ragione la traduzione dovrebbe essere il più accurata possibile.
 
Mi rendo conto che questo post affronta un argomento già trito e ritrito, ma spero che non vi abbia annoiati, e soprattutto spero che prenderete parte al mio piccolo esperimento di cui sopra.

lunedì 18 maggio 2015

Segna(la)libro #5: “Mama tandoori” – Ernest Van Der Kwast

Ho da poco deciso che le rubriche, da ora in poi, saranno tutte a cadenza casuale. Curioso è che, appena presa questa decisione, io abbia trovato subito un libro con cui inaugurare la nuova serie di rubriche.
Lo scopo di “Segna(la)libro” è quello di portare maggior attenzione su libri che non sono molto conosciuti ma che ho letto e mi sono piaciuti, di modo che qualcun altro possa conoscerli e magari apprezzarli come ho fatto io. Per fare questo vi riporto solo la quarta di copertina, di modo da poter giudicare esattamente come si fa in libreria. Più in basso, tuttavia, troverete anche dei commenti personali (che a quel punto siete liberissimi di leggere o meno).
 
Ernest ha quasi trent’anni: è un normale ragazzo olandese di origini indiane. Ma la sua vita nasconde un dettaglio imbarazzante: la temibile mamma Veena. Approdata in Olanda da Bombay nel 1969 con due valigie piene di sogni e gioielli, Veena ha sposato il timido studente di medicina Theo van der Kwast, dando alla luce tre figli. Ernest, il minore,  assiste sgomento e affascinato alle peripezie della sua sgangherata famiglia multietnica, di nonna Voorst, che ha il vizietto di uscire nuda sul balcone dell’ospizio, dello zia Sharma, noto attore bollywoodiano, ma soprattutto della vulcanica mamma che, con la sua smisurata faccia tosta, riesce ad accumulare un piccolo patrimonio immobiliare ma anche a rovinare la vita di tutti quelli che hanno la sventura di incontrarla. Una commedia moderna, piccante come il peperoncino, su una madre che, per fortuna, non è la vostra.
 
Tre motivi per leggere questo libro:
L’autore riesce a narrare con una vena umoristica di fondo sia i momenti felici e che i momenti tristi della vita, e ci dimostra che anche nelle situazioni peggiori si può comunque essere felici.
Questo libro fa veramente ridere, non come quelli che vengono pubblicizzati come la commedia dell’anno e invece non ti fanno nemmeno piegare le labbra in una smorfia. Magari non fa sganasciare, ma sicuramente un risatina, causa le sue tragicomiche vicende, ve la strapperà.
Se pensate che la vostra famiglia sia strana, rumorosa e a volte eccessiva, questo libro vi farà felici: c’è sempre qualcuno con una famiglia ancora più strana, più rumorosa e molto più eccessiva della vostra.

lunedì 11 maggio 2015

Ci vuole feeling

Ci sono delle città che amo moltissimo, pur avendole visitate una volta sola o magari anni fa, ma mi sono rimaste impresse. Non sono stata in moltissimi posti, quindi non posso fregiarmi di amare cittadine semisconosciute ai quattro angoli del mondo, vado sul semplice: amo Parigi e Londra. Entrambe di un amore diverso, perché mi ricordano momenti diversi e mi trasmettono sensazioni differenti.
Dato che la mia testolina libro-maniaca è sempre al lavoro, e sempre pronta a cogliere qualunque occasione, mi sono chiesta quali sono i libri legati a quelle città, e come si fa a ricreare l’atmosfera peculiare e le emozioni che ognuna di queste trasmettono.
Per qualche motivo diffido sempre dei romanzi con un titolo come “Un amore a Parigi”, o “Innamorarsi a Londra”, seppure una parte di me sia sicura che il titolo originale sia ben diverso e magari anche più fantasioso. Il fatto principale comunque è che la maggior parte di questi sono romanzi rosa, e sono molto prudente nei riguardi di questo genere perché so che non fa per me. Quindi l’amara verità è che non conosco nessun romanzo ambientato a Londra o a Parigi e che riesca a farti entrare nella città. Se qualcuno in ascolto – o meglio, in lettura – ne conosce qualcuno, lo prego di consigliarmi dei titoli.
 
Londra, vista da non so bene da che punto.
Di sicuro comunque potete riconoscere il Big Ben e la ruota panoramica!
 
Una delle conclusioni a cui sono giunta è che, per essere riportati all’atmosfera così speciale di una data città, si deve essere prima di tutto fortunati. È una questione di fortuna, perché si deve trovare l’autore che ha, della stessa città che amiamo, un’idea analoga alla nostra.
Ad esempio a me piace Londra perché mi trasmette sensazioni di nuovo e antico al tempo stesso. La storia della città spicca nelle vie, nelle piazze, nei palazzi, nei musei, tuttavia vi si amalgama benissimo il nuovo, il moderno, le mille possibilità che Londra offre. Per me Londra è la città dove tutto è possibile, dove la storia e il futuro si mischiano, dove può succedere qualcosa da un momento all’altro.
Parigi invece mi mette allegria, mi fa sentire rilassata e felice delle piccole cose. Ha un che di naif, di genuino e semplice, che mi fa subito venire voglia di passeggiare, scoprire i piccoli luoghi nascosti della città, quelli dove regna il silenzio e la pace e quelli dove i rumori cittadini si levano in cielo, ma sempre con una certa tranquillità, con serenità. Parigi mi fa sentire come se tutto fosse fermo ad un momento perfetto.
Certo mi andrebbe male se leggessi dei libri di persone che vedono le due metropoli in maniera totalmente opposta dalla mia, Londra uno stressante viavai di giorno e solo movida la notte, e Parigi la capitale della moda, di cui, a me, non frega niente.
Quindi penso che sia così: una questione di feeling fra noi e l’autore. Forse è la chiave per apprezzare molti più libri di quanto non immaginiamo. Non è facile farsi andare giù una storia che porta avanti ideologie completamente diverse dalle nostre, così come invece partiamo più bendisposti con un libro che sentiamo vicino al nostro pensiero.
Che ne dite? Il feeling può essere una delle basi per un buon libro? Vero è che raramente si può conoscere un autore e capire se c’è feeling fra la nostra personalità e la sua, ma vi è mai capitato di leggere qualcosa che avesse una tematica o delle idee che non vi vanno giù, riuscendo tuttavia ad apprezzare la lettura?
 
Ecco la chiesa del Sacro Cuore di Parigi!
 
P.S. E dire che questo doveva essere un post per conoscere libri ambientati a Parigi o a Londra. Come può essere che finisco sempre fuori dal tema che mi predefinisco?
 
P.P.S. Ho vinto il secondo posto al concorso indetto da Sem Edizioni! Spero di avere presto novità sulla pubblicazione, appena so qualcosa vi dirò. Intanto, beccatevi la targa!
 
 

martedì 5 maggio 2015

Anna Karenina - Lev Tolstoj

Tempo fa ho visto l’ultimo film tratto dal libro di Tolstoj, “Anna Karenina”, quello con Keira Knightley, Jude Law e Aaron Taylor-Johnson. Un po’ per gli attori, un po’ per la storia, e un po’ per lo stile particolare del film, mi è piaciuto moltissimo e ho deciso di leggere il libro. Le fasi che ho attraversato sono state parecchie.
All’inizio l’impazienza, quando ho visto il libro su Soloscambio e mi è stato inviato. Al suo arrivo ho notato la mole del libro, di cui ero consapevole ma che ho volutamente ignorato, e sono sorti i primi dubbi. Quando ho iniziato a leggerlo, poi, per le prime cinquanta pagine mi sono ripetutamente detta: “Che cosa hai fatto Patty? Non lo finirai mai!”. Poi mi sono immersa nella storia, e ogni dubbio è svanito.
 
Nella Russia di fine ottocento l’aristocratica Anna è sposta con il politico Karenin, un uomo ligio al lavoro, che tiene a bada i sentimenti e si cura più di tutto dell’immagine da dare in società. La vita di Anna scorre come quella di tutte le altre donne di alto lignaggio, tra feste, banchetti, chiacchiere, e i piccoli drammi familiari. È proprio quando va a trovare suo fratello, per convincere sua moglie a non abbandonarlo dopo un tradimento, che Anna conosce Aleksej Vronskij.
Dal loro primo incontro nasce una malcelata attrazione, che si trasforma presto in amore. Vronskij segue Anna quando lei torna a San Pietroburgo dal marito e dal figlio, e lì cominciano a frequentarsi. Sebbene Karenin sospetti l’infedeltà della moglie decide di rimanere cieco all’ovvio, per non essere additato come vittima in società, ma non può più chiudere gli occhi quando Anna gli confessa il tradimento e di aspettare un figlio da Vronskij.
Da quel momento in poi comincia fra i due una lotta per il divorzio, che Anna vuole per poter vivere serenamente con Vronskij e i suoi figli, e che il marito non le vuole concedere per non darle alcuna possibile felicità. La pressione alla quale Anna è sottoposta agli occhi di tutti la logora, poiché i più la reputano una donna depravata e perduta, e la trattano come tale. Ma più di tutto la fa soffrire lo sfilacciarsi del suo rapporto con Vronskij, che è diventato freddo e distante nei suoi confronti.
 
Lev Tolstoj
In giro sul web ho notato che, pur essendo famosissimo, “Anna Karenina” non riscuote successo come altri classici dei suoi tempi. Quando qualcuno deve citare un classico dell’Ottocento il più delle volte viene citata Jane Austen o, quando si vuole proprio fare un figurone, Charles Dickens. Non ho mai sentito nessuno sciogliersi in complimenti per Anna Karenina, e mi chiedo il perché.
Credo che gli antichi autori russi come Tolstoj si siano guadagnati la fama di ‘tragedisti’. Se leggi un romanzo russo, stai pur certo che finirà male, sarà pesante, lungo e pieno di miserie, ci sentiamo dire. Non posso certo dissentire, ma da quando in qua si evita una storia perché minaccia di essere triste? Questione di gusti forse, io ad esempio mi sento meglio quando non tutto va a finire bene: il finale dolceamaro conferisce alla storia una parvenza di realtà.
“Anna Karenina” è il trionfo della realtà. Forse mi è piaciuto tanto proprio per questo, perché Tolstoj scava nell’animo umano rivelando finanche le più piccole gioie e i più piccoli dolori, le sottili gentilezze, le bugie che le persone si raccontano per stare meglio e le meschinità che ci contraddistinguono. In questo libro ci vengono mostrati entrambi i lati della medaglia di ogni situazione, dalla più allegra alla più funesta. Il lettore viene non solo trasportato nella storia, ma ne conosce tutti i particolari e riesce facilmente a capire i personaggi e le situazioni – pur essendo, oggi, parecchio estranee alla società in cui viviamo – perché le emozioni umane non cambiano, e Tolstoj riesce a descriverle con schiettezza, senza tralasciare nessuna felicità ma neanche nessuna bruttura.
 
L’unica pecca che, devo dire, ha “Anna Karenina” è la lunghezza. Magari è solo una questione di gusti, ma personalmente dopo un po’ mi annoia leggere sempre degli stessi personaggi (forse questo è lo stesso motivo per il quale non amo le serie lunghe). A parte questo, e la prolissità di Tolstoj in alcune parti della narrazione che non sono molto interessanti, “Anna Karenina” è una lettura godibilissima.
Non so perché tutti ne riconoscano il genio ma pochi ne parlino con il fervore che accompagna altri nomi, come i sopracitati Austen e Dickens, ma anche Baudelaire o Foscolo. Non ho mai letto altro di Tolstoj, ma credo proprio che prima o poi ci riproverò. Nel frattempo mi riserbo di parlarne benissimo, e con gli occhi che scintillano.
 
 

venerdì 1 maggio 2015

La colonizzazione del romanzo storico

Ho da poco scoperto un genere che mi piace moltissimo, un genere di libri contro i quali ho sempre fatto un poco di resistenza perché, prevenuta, pensavo fossero noiosi: i romanzi storici.
Mi è capitato di sentire opinioni e immagini discordanti riguardo ai romanzi storici, soprattutto su che cosa sono in realtà. Per scandagliare ogni dubbio vi dico che io, per romanzo storico, intendo romanzi ambientati in epoche storiche diverse da quella presente (abbastanza antiche da poter essere considerata storia, non gli anni ottanta per capirci), scritte al giorno d’oggi. Non so se sono io ad essere sfortunata, ma incontro persone convinte che i romanzi storici siano libri vecchi – caro, quelli si chiamano classici – o libri che parlano di storia ma in modo romanzato. L’incomprensione nei miei confronti era tale che una volta mi è stato anche detto, con fare trionfante: «Ah, quindi ti piace Dan Brown!». Hem… no.
Per sicurezza, ho preferito spiegarvi quindi che cosa intendo con ‘romanzo storico’. Se per caso la mia definizione è sbagliata, correggetemi vi prego. Andrò da tutte le persone con cui ho parlato a dire loro che sono in errore, che amo Dan Brown.
 
Un lettore navigato non si chiede più come mai, magari dopo anni e anni che si legge, all’improvviso si ‘scopre’ un genere nuovo. Partiamo, innanzitutto, da come impostiamo la frase: scoprire un genere. Qualcuno potrebbe dirci che non lo abbiamo scoperto, che era già molto famoso, noi lo abbiamo solo notato come altri hanno già fatto prima di noi. A me invece sembra la parola giusta.
Un genere che era da noi bistrattato, adocchiato con sospetto, comprato solo per far regali agli altri. Ad un tratto – per un consiglio o un obbligo – leggiamo un romanzo di quel genere che proprio non ci ispira. Questo è il viaggio. Ecco all’improvviso un mondo nuovo, tutto un oceano di possibilità inesplorate che, cavolo!, come abbiamo fatto a disprezzare fino ad ora? Ci immergiamo nel libro e, incredibile, siamo presi dalla storia, siamo emozionati e, quando finisce, non vediamo l’ora di leggere qualcos’altro che ci piaccia ancor di più. L’abbiamo scoperto. Allora cominciamo a informarci su altri libri simili a quello, chiediamo chi sono gli autori più famosi, i romanzi più discussi, i classici del genere e le nuove uscite. Questa è la fase che più paventano le nostre librerie. La fase della colonizzazione.
Io mi trovo qui. La colonizzazione del romanzo storico è appena iniziata, i miei scaffali sono ancora relativamente tranquilli (escogitano tattiche di difesa: giusto l’altro giorno hanno fatto cadere un vecchio libro proprio davanti ai miei occhi e io ero tutta «oh! Non ricordavo nemmeno di averlo questo, forse potrei rileggerlo!». Ma prima o poi verranno colonizzati, su questo non c’è dubbio).
 
Vi è mai capitato di leggere un nuovo genere, del quale prima non vi ‘fidavate’, e scoprire che invece è proprio il tipo di libro che fa per voi? Quali sono i nuovi generi che stanno colonizzando da poco le vostre librerie?