mercoledì 25 gennaio 2017

Lolita - Vladimir Nabokov

Ci ho messo parecchio a scrivere questa recensione – anche perché non avevo la minima intenzione di scriverla.
Ho letto “Lolita” con un’idea vaga di cosa fosse, per curiosità, per la fama che ha conquistato e consolidato negli anni, prima perché accusato di indecenza, poi perché non è stato possibile radiarlo dalla storia della letteratura come mero fenomeno editoriale. L’ho aperto come si apre un romanzo e non sapevo di avere fra le mani una prova di audacia, una sfida lanciata dall’autore ai lettori.
In una parola, ero impreparata. Questo libro mi ha lasciata senza parole, confusa, incapace di prendere una posizione o argomentare alcunché. Non tutte le storie arrivano per essere ricordate con allegria, commozione, amore, stati d’animo ‘sentimentali’, se vogliamo, che nascondono un senso di felicità e gratitudine per aver scoperto quel libro. Era parecchio tempo però che non mi capitava di trovare una storia che ricorderò con angoscia.
Ma almeno ho scoperto qualcosa di me: per alcune cose mi piace essere impreparata. So che non avrei letto il libro con uguale trasporto se fossi stata ‘avvertita’ della sua complessità. Forse non ne sarei stata colpita così tanto e, forse, questo post che state leggendo, proprio ora, in questo istante, non esisterebbe.

Il romanzo è scritto in prima persona dal protagonista, Humbert, che ci narra la sua vita sin dalla prima infanzia e la giovinezza. Dopo una disavventura amorosa da ragazzo e un matrimonio fallito, nonché problemi psicologici che lo portano per qualche tempo in una clinica psichiatrica, Humbert decide di trasferirsi negli Stati Uniti.
Il protagonista è ben consapevole della sua deviazione, un’attrazione sessuale per bambine e ragazzine, ma è un uomo intelligente, prudente, colto. Cerca alcuni espedienti per soddisfare il suo desiderio ma vi rinuncia quando si rende conto della pericolosità che esso comporta.
Si imbatte in Dolores – Dolly, Lola, Lolita – Haze quando prende una camera in affitto in un paese tranquillo negli USA. A quell’epoca Dolores ha dodici anni e Humbert se ne sente subito attratto. La bambina è capricciosa, furba, lunatica, litigiosa ed esaspera la madre che, quando si rende conto delle simpatie che Humbert nutre per sua figlia, diventa gelosa. L’uomo, per rimanere vicino a Lolita, sposa la madre, ma questa rimane uccisa in un incidente.
Comincia così una fuga per Humbert e Lolita, in macchina lungo tutti gli Stati Uniti per un anno. Viaggiano per giorni, dormono in hotel, visitano mostre e luoghi d’interesse, Humbert farebbe di tutto per compiacere Lolita, che in un paio di giorni si arrende a lui ma continua ad essere la personcina cupa e capricciosa che era in passato. Dopo diversi anni la situazione sfugge di mano. Lolita raggira il protagonista, lo inganna, si prende gioco di lui usando la sua unica debolezza: lei stessa. Un giorno fugge con un altro uomo e Humbert si lancia in una disperata ricerca, per poi cadere in una spirale di follia.
Passano tre anni prima che la ragazza lo contatti per avere dei soldi. Humbert scopre che Lolita è sposata con un giovane reduce di guerra, è incinta e in procinto di trasferirsi fuori dagli Stati Uniti. La ragazza lo accoglie presentandolo come il suo patrigno e gli racconta del suo amante, un commediografo dedito a droga e alcol che ha suppergiù l’età del protagonista, e di come la fuga sia stata premeditata. Si scusa con Humbert per averlo ingannato (dicendo però che «così è la vita»), non si commuove quando lui dice di amarla, si dimostra fredda e con parole spicce lo manda via. Non lo odia per quel che le ha fatto, ammette di non avergli mai nemmeno voluto bene e di averlo usato, così come sembra usare tutti, nella sua vita.
Humbert scappa dalla catapecchia nella quale vive Lolita e va in cerca del suo amante. Lo uccide, constatando che quell’uomo si ricorda appena vagamente della ragazzina, che per lui era invece l’intero universo, e viene arrestato. Scrive le sue memorie in carcere e chiede, nell’ultima pagina, che queste vengano pubblicate solo quando sia lui che Dolores saranno morti, che solo in quelle loro potranno esistere assieme. E, se mai qualcuno avesse avuto qualche dubbio, qui lo ripete: lui sarà sempre innamorato della sua Lolita.

Prima di iniziare chiarirò una cosa. Questo romanzo mi ha interessata molto ma non mi ha presa più di tanto. L’ho terminato con un quarto di curiosità e uno di aspettativa, il resto era determinazione, pura voglia di finire la lettura non in quanto “Lolita” ma in quando libro. Nonostante questo non posso dire che non mi abbia fatta riflettere e, per alcuni versi, mi abbia turbata.
Il mio primo pensiero, ricordando questa lettura, va allo stile. Forbito, elegante, raffinato. Un po’ verboso a volte, ma credo che questo abbia un duplice scopo. L’autore ha scelto un linguaggio alto per narrare una vicenda turpe, in questo modo le ha conferito sia un’aura di nobiltà che la possibilità di essere presa in considerazione dagli editori – che rifiutarono “Lolita” per anni per lo scandalo che avrebbe creato.
In nessun momento la storia diventa moralmente accettabile, ma lo stile la innalza. La fa passare da mero orrore a opera. Un linguaggio così ricercato, così aulico, come potrebbe mai essere rimpicciolito a volgare denuncia? Non ci passa per la testa neanche per un istante che Nabokov abbia voluto scrivere questo romanzo per condannare la pedofilia, o la società, o ciò che usano di solito condannare gli autori. No, lui ha preso qualcosa di orribile e lo ha ripulito dalla sporcizia, ha reso questo orrore ancora più spaventoso ma gli ha donato anche una bellezza che non possiamo ignorare.

Leggendo “Lolita” sfido chiunque a ritenere la protagonista femminile una vittima. La pensavo così all’inizio ma nel corso della narrazione si rivela una ragazzina malvagia, opportunista, sadica. Mentre Humbert appare alla fine come uno stupido che è stato preso in giro, un uomo impazzito per un amore non ricambiato, che soffre terribilmente.
Sembra impossibile vederla in questa ottica, mai avrei pensato di poterlo fare, ma è così. Ecco perché prima vi parlavo di una sfida dell’autore posta ai lettori. La vicenda dovrebbe ispirare pena per Lolita e disgusto per Humbert, Nabokov ha ribaltato la situazione. Lolita diventa carnefice dell’amore di una persona fino a rovinare la sua esistenza, Humbert diventa sciocca vittima, obnubilata dall’amore e l’ossessione, che nonostante ci faccia sempre un certo ribrezzo, suscita un gran dispiacere.
L’autore è riuscito in questa impresa che a mio parare ha dell’incredibile. Ha preso l’innocenza e l’ha resa crudeltà, ha preso l’orrore e ce lo ha fatto compatire. Forse è per questo che spiazza così tanto. Mette in discussione delle idee radicate, ci fa commuovere per qualcosa che il nostro cervello ci dice che dovremmo ripudiare. Il lettore di “Lolita” scoprirà di simpatizzare per il pedofilo, non per la bambina, e scriverlo a chiare lettere un po’ mi sembra assurdo. Ancora non ho fatto abbastanza per farvi intendere l’esistenza e l’assoluto successo di questo trucco letterario, che io per prima non mi spiego, perciò non mi resta che dirvi, leggetelo.


lunedì 16 gennaio 2017

La vita segreta dei personaggi

Quando mi viene in mente un’idea per una storia, fosse anche solo una frase, me la scrivo per non dimenticarla e, se non continua a ronzarmi in testa, la lascio lì in attesa del suo momento. Dopo la pausa forzata dei precedenti mesi tutto sta ricominciando a girare e anche la mia voglia di scrivere è tornata. Piano piano, in sordina, si è fatta un giro negli angoli più remoti del mio cervello senza farsi notare, ha toccato qualche neurone per far vedere che era ancora viva e, per un po’, ha gironzolato guardando come un osservatore curioso che aria tirava. Quando ha capito che era tornata la calma si è installata nel suo giaciglio e ha cominciato a bombardarmi: la voglia di scrivere si è fatta sentire e ho dovuto rispondere al suo richiamo.
Per prima cosa ho ricercato nella memoria una storia che sentivo di voler raccontare più delle altre e, aiutata dal fedele file word in cui appunto ogni cosa, ho trovato quest’idea che, da diversi anni, attendeva paziente che mi decidessi a riprenderla. Dato che era assolutamente abbozzata ho pensato a cosa mi va di scrivere in questo momento e, in base a quello che mi piace di più, ho cominciato a delineare la trama, l’ambientazione e i personaggi.
Dopo tutta questa pappardella siamo arrivati al punto, l’argomento di cui volevo parlare nel post: i personaggi. (Per qualche motivo sento come il dovere di fare una sorta di introduzione, in alcuni post.) Ho iniziato a pensare alla costruzione dei miei e questo mi ha fatta riflettere su come sia utile e, non solo, necessario, creare più di una facciata da appiccicare sul personaggio per manovrarlo come un pupazzo, ma una vera e propria vita fittizia in cui potrà muoversi libero.

Per capirci meglio, dividiamo i concetti di cui ho appena parlato. Uno è la facciata, quello che serve al lettore per visualizzare il personaggio. Fra questi elementi possiamo mettere il sesso, l’aspetto fisico, la nazionalità, la classe sociale, un accenno sul carattere, e tutto quello che indirizza il nostro personaggio a muoversi in un determinato modo.
Ad esempio posso decidere di presentare:

[…] una signorina di tutto rispetto, Miss Gwendoline Burbridge, che poteva giurare sulla Cattedrale di St. Mary di non aver mai e poi mai ballato un lento con un uomo che non fosse suo padre, il Colonnello. Non era una ragazza bruttina, aveva invece tratti graziosi, gli occhi verdi, le fossette sulle guance e lunghe gambe che nascondeva sotto gonne alla caviglia. Ma lei non si curava di quelle sciocchezze e, ogni volta che se ne presentava l’occasione, ricordava al mondo di tutti gli inviti che aveva rifiutato nelle sale da ballo dai più affascinanti giovani.

Da questo piccolo ritratto possiamo già farci un’idea di com’è Miss Burbridge, e abbiamo in mente che tipo di personaggio sarà e come influenzerà la storia o sarà influenzata da essa. Ad esempio potrebbe essere un’antagonista e, da rigida ragazza quale ci è sembrata, spifferare al Colonello di tutte le volte che suo fratello è uscito di nascosto. Oppure potrebbe essere lei la protagonista, e trovarsi nel bel mezzo di un dilemma che metterà in discussione tutti i suoi ideali.
Il lettore si ritrova con questo personaggio e, che più avanti mostri altre sfaccettature o meno, è come se fosse davanti ad un fatto compiuto. Ma non sarebbe meglio se lettore e autore potessero capirlo? Spiegarsi come mai si comporta in un determinato modo, perché fa certe scelte. Tutto questo è dato dal background del personaggio, che ci fornisce più elementi per comprenderlo e sentirlo più umano, simile a noi, meno prodotto costruito senz’anima.
In questo background dei personaggi io metterei l’infanzia, la famiglia e gli amici, gli incontri, e alcune esperienze che ha vissuto e lo hanno cambiato. Forse non sono elementi utili alla trama, ma il bravo autore saprà inserirli nella narrazione delicatamente. Sono dettagli utili al personaggio e sta all’autore decidere se sono abbastanza importanti da farli conoscere, se vuole rendere il suo personaggio una maschera o un tuttotondo.
Per tornare alla nostra Miss Burbridge:

Gwendoline tolse le forcine dai capelli e rimise tutto in ordine nel mobile da toletta. Si mise a letto e quasi spense la luce, salvo poi fermare la mano a metà gesto e prendere il libricino che Mr. Dolan aveva tanto insistito per consegnarle. Sbuffò piano nel prenderlo fra le mani. Era una di quelle edizioni economiche che si compravano per due spiccioli ed era chiaro che era stata letta molte volte da qualcuno che aveva poca cura per i libri.
In quella lo sguardo della ragazza cadde sulle fotografie che teneva sul comò. Erano tutte di cugini, vecchi zii, nonni, e tutti ostentavano uno sguardo severo. Tranne quella della zia Matilde. Sorrideva all’obbiettivo come aveva sempre sorriso ai suoi nipoti. Era l’unica foto sua, in casa; sua madre aveva fatto gettare via tutte le altre quando la sorella era fuggita con quello “yankee senza vergogna”, più di quindici anni prima.
A volte a Gwendoline mancava ancora. Lei era l’unica a ridere delle marachelle dei nipoti, a imbastire un tè all’ultimo momento, ad accennare passi di danza in mezzo alla strada e ad ascoltare quando nessun altro sembrava disposto a farlo. Non aveva mai visto l’uomo con il quale era scappata, il capitano di un mercantile che era partito da New York, ma sperava che fosse bello. Aveva capito poco di quel che era successo, da bambina, e ora parlarne rendeva sua madre irritabile quindi non ne parlavano mai. La notizia della morte della zia era arrivata con quattro mesi di ritardo, solo pochi anni dopo la sua scomparsa, e sua madre non aveva versato nemmeno una lacrima.
Gwendoline aprì il libro di Mr. Dolan, chiedendosi se ne fosse davvero valsa la pena.

In questo brano già entriamo in contatto con una Miss Burbridge diversa, più umana. Ha una madre molto severa, che non esita a ripudiare la sorella in seguito a uno scandalo. La stessa figura della zia è vista dalla protagonista come una donna libera e allegra, che però ha pagato le conseguenze delle sue scelte. Possiamo solo fare ipotesi, così come farà il lettore, ma forse è per questo che la protagonista ha scelto una strada diversa. Ha guardato il mondo e l’ambiente in cui si trova e ha visto che le ragazze che seguono i loro desideri sono malviste, ne ha avuto una riprova nella sua famiglia, quindi non accetta nemmeno uno ballo.
Il piccolo aneddoto della zia non è legato alla trama ma ci è utile per capire il personaggio, che prima appariva poco attraente. Con un background acquista spessore, non è più solo una facciata. Vedendo cosa c’è dietro alle apparenze comprendiamo il personaggio e, se fosse inserito in una storia, potrebbe anche iniziare a piacerci.

Ecco perché l’autore dovrebbe costruire una vita, seppur fittizia, per i propri personaggi. Non basta una facciata per muoverli come burattini, hanno bisogno di tutta un’esistenza di contorno per muoversi da soli, perché il lettore possa entrare in contatto con loro, vedere che cosa accade dietro le quinte della trama.
Questo è quello che mi propongo di fare per i miei personaggi, perché questo è quello che preferisco trovare in un romanzo. Mi piace pensare che, oltre ciò che leggo nelle pagine, il personaggio abbia una vita propria. Ora, non pensate che stia diventando pazza, so benissimo che i personaggi dei libri non esistono, ma come insegna Silente “solo perché lo stiamo immaginando non significa che non sia reale”.

Quindi niente facciate, più personaggi vivi

martedì 10 gennaio 2017

Colpa delle stelle – John Green

Arrivo sempre in ritardo con i best seller, e questo non ha fatto eccezione. Avevo adocchiato questo libro tempo addietro e, ad un tratto, nel web ho visto esplodere la sua fama. Solo dopo parecchio tempo mi sono decisa a leggerlo.
Conosco l’autore, John Green, da una decina d’anni. I suoi romanzi scritti a quattro mani, in collaborazione con autori di libri per ragazzi molto conosciuti negli USA, sono alcuni dei primi che mi hanno fatta discostare dal genere fantasy, in un periodo in cui il fantasy cominciava ad andarmi stretto e mi guardavo attorno in cerca di qualcos’altro. Avevo quattordici anni e le storie di Green si avvicinavano così tanto alla storia d’amore che sospiravo per avere, che alla fine ho amato i suoi libri.
Quando ho preso in mano questo romanzo una parte di me sperava di potersi immergere di nuovo in quella nube rosa, un po’ opaca, che avvolge un po’ tutti durante l’adolescenza. Volevo sentire il cuore palpitare senza riserve, struggermi un po’ di fronte al romanticismo acerbo, idealizzato, se vogliamo puro, che abbiamo solo a sedici o diciotto anni.
Purtroppo non è stato così. Quindi questa recensione serve in pratica a spiegarvi come mai l’amatissimo “Colpa delle stelle” non mi è piaciuto e, anzi, mi ha proprio fatta arrabbiare.

Hazel Grace Lancaster ha un cancro alla tiroide al quarto stadio, con “una nutrita colonia satellite nei polmoni” che le impedisce di respirare. Per questo motivo deve sempre avere con sé una bombola di ossigeno che le consenta di sopravvivere. Al gruppo di supporto che ha iniziato a frequentare per far contenti i suoi genitori conosce Augustus Waters, un sopravvissuto ad un osteosarcoma che lo ha restituito alla sua famiglia più allegro ed entusiasta di prima, anche se con una gamba in meno.
Un po’ per il suo fascino, un po’ per il suo carattere, Hazel si infatua subito di Gus e, dopo aver superato diversi ostacoli medici e non, fanno un viaggio ad Amsterdam per conoscere Peter Van Houten, autore di “Un imperiale afflizione”, il libro preferito di Hazel. Dato che il libro si interrompe a metà di una frase, a simboleggiare l’imprevedibilità della vita, la ragazza vorrebbe delle risposte sulla fine del romanzo, che narra di un’adolescente malata di cancro. I due scoprono però che Van Houten è ormai un uomo perso, alcolizzato e incattivito dalla vita, e si godono il loro viaggio senza più pensare a lui.
Augustus rivela ad Hazel di aver fatto dei controlli medici e di essere di nuovo malato. Al ritorno a casa Gus inizia la chemioterapia e altre cure sperimentali, che tuttavia non hanno effetto. Il ragazzo muore dopo molte sofferenze.

Avevo visto il film “Colpa delle stelle” perché un’amica che di solito non ama i film romantici – come me, d’altronde – mi aveva detto che era carino. L’ho guardato, ed era davvero carino! Mi è piaciuta la storia, la morale che vi ho trovato, gli attori e la comicità sottile. Mi aspettavo che il libro fosse molto più di questo e, forse, proprio per questo motivo mi ha delusa. Ho investito sin troppe speranze in lui.
Questo libro è pessimista dalla prima all’ultima pagina, a partire dalla sua protagonista.

Hazel è una ragazza matura, poco incline a raccontarsi favole sulla sua vita perché sa che prima o poi dovrà morire. Ha deciso che non vuole causare più dolore del necessario, quindi limita le sue amicizie a mere conoscenze e fa tutto quello che i suoi genitori vogliono per renderli felici.
Molti forse hanno visto schiettezza nei modi di Hazel, io ci ho visto cinismo e anche una piccola dose di bastardaggine. Capisco che lei voglia essere onesta con le persone che la amano, ma non sopporto che si rivolga ai suoi genitori facendogli notare bruscamente che prima o poi lei morirà e loro rimarranno soli e tristi, e non sopporto che dica al suo fidanzato morente che è inutile sperare di fare grandi cose nella vita, che tanto sta morendo.
Hazel per prima dovrebbe sapere che cosa si prova a covare ancora della speranza, la speranza che ha anche lei di guarire e vivere. Perché deve distruggere quella degli altri, persone che lei dice di amare? Quando una situazione è disperata tutti se ne rendono conto, nel libro sappiamo bene che Augustus morirà, lo sa lui, lo sa Hazel, lo sanno i suoi parenti, quindi è inutile anche distruggere le sue ultime speranze. A cosa serve farlo? Per non farlo illudere troppo? Sognare è l’ultima cosa che gli resta. Morirà, e nessuno sa che cosa succederà dopo alla sua anima, sempre che ne abbiamo una, quindi perché togliergli l’unica felicità che può avere nei suoi ultimi giorni? La possibilità di sperare, sognare, illudersi. Pensieri sciocchi, ma che non fanno male a nessuno.

John Green
Il personaggio di August era il mio preferito. Un giovane idealista, convinto che avrebbe cambiato il mondo facendo qualcosa di grande! Non siamo un po’ tutti così a diciassette anni? Almeno una volta nella vita pensiamo che avremo l’opportunità di fare qualcosa di importante, di diventare famosi e amati da tutto il mondo, e solo con il tempo ci rendiamo conto che la maggior parte di noi sarà incasellata nella società e ci sono pochissime probabilità di uscire dalla propria casella. Tuttavia l’esperienza ci insegna ad apprezzare i piccoli gesti di coraggio che ci sono richiesti tutti i giorni, le azioni eroiche che non cambiano il mondo ma fanno bene a noi e ai nostri cari. Quella casella che alcuni trovano angusta può così perdere d’importanza fino a scomparire.
Augustus non vive abbastanza da imparare questa lezione, ma il suo personaggio è talmente puro e pieno di ottimismo e gioia che mi ha conquistata.
Alla fine del libro Hazel lo ha reso come lei. Lo ha reso una di quelle persone che, quando si sogna in grande, affonda le tue speranze con una sola frase jolly a cui nessuno può ribattere: «Tanto è inutile. Prima o poi moriremo tutti». Bene, è vero. Ma mi riservo ancora il diritto di vivere, dato che sono viva. Di godere di tutte le cose buone e belle che ci sono e prendere anche quelle cattive, così potrò capire la differenza. E chi se ne frega se alla fine morirò! Di certo non renderò la mia esistenza piatta, come la protagonista di questo libro insegna, solo perché so che accadrà.
Io sono dalla parte di Augustus Waters, e non capisco come delle gente abbia potuto trovare romantico il rapporto fra lui ed Hazel. Il modo in cui lei lo schiaccia e distrugge tutto ciò che di bello esiste in lui mi ha oltremodo infastidita! Passiamo un libro intero a bearci della battute di Gus, del suo modo di fare curioso, come se fosse su un palcoscenico, del suo carattere estroverso che mette allegria a tutti. Alla fine lui però muore, ed è diventata una persona sterile, triste, perché anche se cerca di non darlo a vedere ha smesso di chiudere gli occhi e sognare in grande, anche solo per quel poco tempo che gli resta.
Perché tanto a che serve?

Una buona parte del libro vuole criticare quel buonismo che prende tutti noi quando una persona viene a mancare. Quando qualcuno non c’è più allora si dimenticano i suoi difetti e si ricorda solo quanto era meravigliosa. Tutti coloro che l’hanno conosciuta, anche solo superficialmente, si dicono enormemente rattristate e scuotono la testa sconsolate. Sì, è sbagliato, a mio parere è irrispettoso e un po’ sciocco comportarsi così, ma detesto ancora Hazel che si arrabbia con queste persone che ricordano Gus e soffrono per la perdita nell’unico modo in cui possono farlo.
Qui il libro lascia un messaggio che condivido: i funerali sono per i vivi, non per i morti.
Tutto ciò che facciamo e diciamo quando qualcuno viene a mancare è, per la maggior parte, facciata. Ma è necessario, perché in un momento di turbamento tale l’unica cosa in cui possiamo forse trovare un minimo di conforto è sapere che le cose andranno in un certo modo, un modo programmato. Quindi ci vestiamo a lutto, ascoltiamo l’omelia e ci facciamo a vicenda le condoglianze.
Alla morte di Augutus la protagonista è disgustata dai messaggi di condoglianze sulla pagina facebook del ragazzo, tanto da rispondere a uno di quelli con una frase che di sensibile e rispettoso ha ben poco. La sua frase viene ignorata e alla fine si perde nel marasma di commenti. Sceglie in seguito di non leggere il discorso, profondamente toccante, che aveva preparato per Augutus e che gli aveva letto quando era ancora in vita, ma fa un discorso tranquillo, prevedibile forse, ma che accontenta i presenti proprio per la sua normalità.
Meglio così. La memoria di chi non c’è più non verrà sigillata nell’ora e mezza in cui il prete ha parlato, ma continuerà con noi. Quindi meglio far passare i funerali il più in fretta e piattamente possibile.

Rimane il fatto che, anche con questo piccolo gesto alla fine del romanzo, ho detestato Hazel con tutte le mie forze. Arrogante, si sente superiore a tutto e tutti perché sa che prima o poi morirà, come se questo ti rendesse in qualche modo più consapevole. L’unica cosa che la salva in extermis è il fatto di avere sedici anni, giusto perché a quell’età alcuni sono spocchiosi non per scelta ma a causa degli ormoni. Ma anche così, non mi è piaciuta.
Passerò molto tempo a chiedermi come ha fatto questo libro ad avere successo, come alcuni hanno giudicato romantica la storia dei protagonisti e perché a qualcuno dovrebbe piacere una ragazza che ti dice che “stai per morire, inutile raccontarsi storie”.
Ma il magico mondo dell’editoria raramente risponde a queste domande.

Vi consiglio il film, il cui messaggio può essere riassunto nella frase sopra.

giovedì 5 gennaio 2017

2016 in libri

In tutti questi anni di blog mi sono resa conto che non ho mai stilato una classifica dei migliori o peggiori libri dell’anno. Dato che ho ricominciato da poco a postare e subito sono partita con due recensioni ho pensato che un post più leggero sarebbe stato gradito, prima di passare alla prossima recensione (già in cantiere). In questi giorni fioccano classifiche sull’anno appena passato quindi, mi sono detta, potrei farne una anch’io.
Mi è piaciuto scorrere il mio anno di letture, con l’aiuto del vecchio aNobii. Credo che questa potrebbe diventare una bella tradizione per salutare l’anno trascorso e prometto che per il 2017 sarò anche puntuale e lo posterò a fine Dicembre.

Comincerei dai libri che non mi sono piaciuti, così ci togliamo subito il pensiero.

Boy meets boy, di David Levithan
Forse il peggiore dell’anno, tanto che l’ho inserito anche nella rubrica “Carta straccia”, in cui non finisce quasi nessun romanzo. L’ho trovato inverosimile, contesto e personaggi esagerati, storia praticamente nulla (ci credete che non me la ricordo neanche?).
La cosa peggiore è che l’autore mi piaceva molto. Darò altre possibilità ai suoi romanzi – ho in wishlist “Ogni giorno” e, se mi perdonate la ripetizione, uno di questi giorni mi deciderò a leggerlo – perché sono affezionata a lui, ma questo ha guadagnato un deciso pollice verso.

Mary Poppins, di Pamela L. Travers
Ci sono alcuni film di Natale che mi piacciono più di altri. Ad esempio apprezzo Il Grinch solo dopo qualche anno che non lo guardo perché è troppo esagerato per certi versi, ma Mary Poppins rimane uno di quelli che guardo sempre volentieri. Ogni. Santo. Natale.
Scoprire che un film è migliore del libro è sempre traumatico e, in un certo senso, un tradimento per me. Vado in giro a proclamare l’amore per i libri, consiglio questo e quello, e alla fine la pellicola batte il cartaceo?! Alto tradimento. Ci sono già stati, in passato, film che mi sono piaciuti più dei libri, tuttavia questa è la prima volta che il libro mi rovina il film.
Forse sono troppo distante dai libri per bambini dell’epoca, o troppo affezionata alla Mary Poppins di Julie Andrwes… Ma sarà anche colpa di quella del libro, severa e insopportabile!
Niente da fare: preferirò sempre Dick Van Dyke che balla con i pinguini.

Per fortuna i libri veramente pessimi sono terminati. Non vi sottopongo a quelli che non mi sono piaciuti, solo a quelli proprio difficili da terminare. La differenza fra quelli poco sopra e quelli che non mi sono piaciuti è la seguente: non posso dire che non fossero bei libri, solo che non incontravano il mio gusto. Di quei due là sopra, invece, non salverei nulla.
In fondo quest’anno mi è andata più che bene, da tutti i punti di vista!

On writing, di Stephen King
Ho parlato di questo libro in una recensione, ma mi ripeterò: un buon manuale, non prettamente tecnico ma forse per questo più appassionante.
Non lo consiglierei a chi ne vuole sapere più di tecnica, anche perché alcuni dei consigli di King sono più adatti alla prosa in lingua inglese, inoltre non bisogna dimenticare che lui parla sempre della letteratura popolare, diciamo per le masse (che poi mi sembra giusto, dato che è quello che scrive lui).
Consigliatissimo a chi ha bisogno di ispirazione, di una spinta! Di trovare quella voglia frenetica che spinge lo scrittore, o l’aspirante tale, a prende la penna in mano e scrivere.

Le terrificanti storie del vascello nero, di Chris Priestley
Non amo le raccolte di racconti, che abbiano o meno una cornice. Non sono mai stata attratta dall’horror, seppur per ragazzi. Non mi attirano particolarmente le storie di pirati, o di mare.
Questo è il libro che, da solo, è riuscito a fare eccezione a tutte le mie tare da lettrice. Una raccolta di racconti horror, per ragazzi, con tema il mare, i pirati, i viaggi oltreoceano. Ogni storia è ricca di dettagli, sorprese, e fa salire un brivido lungo la spina dorsale, per poi lasciarci di stucco con il finale.

Altri due sono i romanzi che ricordo con moltissimo piacere in quest’anno, ma siccome ve ne ho parlato pochi post fa non voglio diventare noiosa. Vi basti sapere che sono La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Dìaz e Wonder, di R. J. Palacio. Se volete leggere qualcosa di questi romanzi cliccate pure qui.

Per oggi ho finito. Immagino che adesso andrò a leggere qualche altro libro. Finirà nella lista dell’anno prossimo? Chissà…