martedì 31 gennaio 2012

Primo in classifica

   Oh, lo so, ci ho messo davvero un sacco a cominciare questa recensione! Il fatto è che è un periodo molto confuso, ne scriverò presto, se la confusione passerà…

   Be’, che dire? “Il prigioniero di Azkaban” è forse il mio preferito nella saga di Harry Potter. Perché? Be’, semplicemente perché, dopo i primi due, ci lasciamo alle spalle una storia che sembra ormai doversi ripetere all’infinito (tanti misteri a Hogwarts e alla fine chi c’è dietro? Toh, guarda un po’: Voldemort!) per addentrarci in una trama molto più complessa, una trama che non termina con il libro ma che si protrae per tutta la saga. A mio parere è qui che inizia il bello.
Questo però lo si intuisce solo alla fine del libro, il che non toglie nulla alla trama. Per la prima volta, per fortuna, non abbiamo a che fare con Voldemort, ma con il suo braccio destro, Sirius Black, che è molto più inquietante dato che non è uno spiritello ma un uomo in carne e ossa (forse molte più ossa, ma comunque spaventoso).

   Devo ammettere che, una volta letto tutto il libro, sebbene risulti piacevole, non si può fare a meno di etichettare tutto quanto, a parte le ultime cento pagine o giù di lì, come appunto ‘piacevole’, perché il finale è qualcosa di incredibile. Incalzante, non si può smettere di leggere! Alcune delle cose che ho apprezzato di più sono state la storia dei Malandrini, la Giratempo, e i Dissennatori.
   Vorrei lasciare i Malandrini per ultimi, perché meritano una digressione alquanto lunga.


   Partiamo dalla fine: i Dissennatori. Credo che siano una delle invenzioni più spaventose della Rowling! A immaginarli mi vengono i brividi lungo la spina dorsale. Alte figure incappucciate che succhiano via tutta la felicità e l’anima delle persone. È ovvio che ancora una volta sia Harry quello che ne risente di più, e la spiegazione non fa una piega, ma sono sempre un po’ combattuta quando si tratta di vittimizzare così Harry. Harry l’Orfanello, Harry che Dovrà Sacrificarsi per Tutto il Popolo, Harry che Ha un Cuore d’Oro e i Nervi d’Acciaio… bah, maglio lasciar perdere – disse la fan di Voldemort.

   Piuttosto, la parte della Giratempo è perfetta. Anche solo immaginare i doppioni di Harry e Hermione che spiano i loro sé stessi del passato è qualcosa di surreale, divertentissimo. Non è un concetto nuovo il viaggio nel passato, è già stato sviscerato a lungo in altri libri, in altri film, in molte cose. Non è certo un’invenzione di J. K., ma rimane comunque un concetto molto complesso, che lei ha saputo trattare in una ventina di pagine circa. Il fatto, comunque, che Hermione usi tutto l’anno la Giratempo per partecipare a più lezioni di quante dovrebbe è esilarante! Proprio da Hermione, la adoro solo per averci pensato!

   Infine, passiamo alla mia parte preferita: ossia, i Malandrini.
   A questo punto della saga siamo talmente addentro al mondo di Harry Potter che un po’ di misteri dal passato ci volevano. Personalmente adoro la storia dei Malandrini, quattro ragazzi che ne fanno di ogni a scuola, non ci potrebbe essere cosa più semplice di questa, ma nella sua semplicità c’è del mistero che si interseca con la trama. Il Platano Picchiatore, le assenze del professor Lupin, l’astio di Piton, tutto viene spiegato. E ancora peggio il tradimento di Minus, la scoperta di chi è veramente Sirius Black, il ribaltamento di una storia da così a così! La Rowling è stata molto abile nell’inserire tutto ciò alla fine del libro, un sacco di informazioni vengono date in ogni pagina, ogni parola contiene la risposta a una domanda, e questo è ciò che non ti permette di staccare gli occhi dalla pagina!

   Questo volume, per me, è uno dei migliori della saga. Forse il migliore fra tutti, ma quando avrò finito del tutto di rileggere vi saprò dire. Fin ora “Il Prigioniero di Azkaban” ha raggiunto il primo posto nella mia classifica.

mercoledì 25 gennaio 2012

Virtuoso e dispotico

   Sono anni che voglio leggere “Fight Club”.
   Finalmente l’ho fatto.

   Se avete letto il libro, sapete bene che è inutile cercare di fornire una trama senza sembrare dei pazzi o senza far sembrare il libro una cazzata di dimensioni colossali. In effetti, non so neanche se questa possa definirsi una recensione vera, insomma non so neanche cosa pensare di questo romanzo.
   Ci sono delle cose, però, che mi hanno colpito.
   Credo seriamente che Chuck Palahniuk abbia qualche serio problema, anche se certo dicono che fra la follia e la genialità c’è una linea molto sottile… Non saprei dire se lui l’avesse già oltrepassata quando ha scritto “Fight Club”, o magari stava proprio lì lì per saltarla a piè pari. Comunque sia le cose che mi hanno colpito di più sono il tema della violenza e l’ideologia anticonsumistica portata all’estremo. Oltre a questo il finale è da discutere, mette una certa angoscia.
   La maggior parte della gente dice di aborrire la violenza con tutto sé stesso. Una parte della gente accetta un certo tipo di violenza, come ad esempio il bullismo, o la caccia, o che ne so io non l’avete ancora capito che sto sparando cacchiate a raffica?, troppo confusa da un argomento tanto ampio anche solo per pensare?
   La verità, credo io, è che in realtà tutti commettiamo atti di violenza ogni giorno, anche senza rendercene conto, senza volerlo, senza averlo in qualche modo programmato. Badate bene che la violenza non è solo gridare, o picchiare, o minacciare, la violenza è anche psicologica, e anche se entrambi i tipi di violenza – fisica e mentale – vanno a mio parere condannati, credo che il secondo sia un po’ più malevolo.
   Penso che scatenare la violenza a piccole dosi sia in qualche modo catartico, e in “Fight Club” questo certo viene detto, neanche tanto fra le righe. Se la nostra rabbia, la nostra frustrazione, tutte le cose negative che abbiamo dentro, non le sputiamo fuori in qualche modo, quelle si accumulano. Tutti si sfogano in maniera differente, ma un pizzico di violenza credo ci sia in tutti questi metodi. Vediamola dal punto di vista di un alieno: anche semplicemente fare ginnastica è violenza contro sé stessi; insomma me ne sto a lesionare i miei muscoli fino a che non sudo come una capra nel deserto, cosa dovrebbe pensare il mio amico alieno di me?
   Cosa succede, però, quando questa rabbia si accumula? E quando l’unico modo che c’è per farla uscire è ricorrere alla violenza consapevolmente, a tanta violenza, da usare senza cautela tutta in una volta.
   Allora si aprono i fight club.
   Quello che mi ha lasciato basita in questo libro è proprio che, in un caso estremo, ha ragione. È terrificante da immaginare, ma se qualcuno incanalasse tutta questa violenza per scopi ovviamente non bellissimi (perché è dura pensare che la violenza possa portare qualcosa di bello) che cosa potrebbe succedere? Scommetto che al mondo ci sono migliaia di persone che si sentono frustrate come il nostro Protagonista (in mancanza di un nome userò il maiuscolo per riferirmi a lui), e una parte di loro poi finiscono sul giornale perché sparano all’impazzata su un autobus, si suicidano, cercano di sparare al Papa o che so io.
   In definitiva, “Fight Club” racconta di come il mondo sarebbe se tutti decidessero di collaborare, una volta ogni tanto, per scaricare la loro folle violenza contro tutto e tutti, con un motivo diverso per ognuno. Chi non ne può più al lavoro, chi ha perso tutto, chi ha paura, chi è semplicemente annoiato. Per combattere quel che sentiamo dentro, combattiamo contro qualcun altro, senza limitazioni, e ci sentiremo meglio. Ecco cosa dice. In un angolo della mia testa, non stento a credere che abbia ragione.
   E qui arriviamo al secondo argomento che ho trovato interessante.
   Tyler Durden vuole riportare il mondo intero a un’epoca preistorica. Distruggere le civiltà, vivere senza il superfluo. Questo viene detto varie volte nel libro, viene ripetuto ancora e ancora. Inutile dire che credo che sia il pensiero di un folle, e nessuno può contestarmi perché, se lo facesse, significa che ne ha utilizzate di cose superflue per arrivare a questo misero articolo sul blog.
   Nonostante sia folle, e se succedesse qualcosa del genere rimpiangerei il mio divano comodo, il mio pc per scrivere, e milioni di altre cose, devo ammettere che la curiosità ha spesso il sopravvento.
   Immaginate di vedere una città in disastro post apocalittico, non un anima per strada, tutti rinchiusi dentro quel che rimane delle rovine a ripararsi perché sta venendo buio, e una luce non la possiamo accendere con un solo pigiare di tasto.
   Per quanto sia orribile, la cosa mi affascina in maniera pericolosa. Ho pensato un sacco di volte a come sarebbe se decidessi di mollare tutto e andare a vivere in un isola deserta. L’uomo ha più risorse di quanto ci possiamo immaginare noi ora, sosia sputati di Homer Simposon, per sopravvivere. Si attacca alla vita con i denti e con le unghie e non la molla fino a che non è al limite.

   L’ultima parte di questa recensione/pensiero: il finale del libro.
   Il nostro amico Protagonista ha perso ormai ogni potere su Tyler, e per eliminare lui si spara. Non è descritto alla perfezione che cosa accade, ma in pratica io ho capito (o forse solo immaginato) che lui rimane in coma. Siamo quindi tutti salvi? No, affatto: quel che ha creato è talmente perfetto che i fight club vanno avanti senza di lui, e continuano incessantemente ad avvicinarsi al loro scopo.
   Ho detto che questa fine mette angoscia, perché? Se mi metto nei panni del Protagonista non posso fare a meno di sentirmi impotente. È una sensazione frustrante, immaginate di capire esattamente che cosa succede, immaginate di vedere il mondo farvi ciao ciao con la mano prima di buttarsi nel baratro e di non poter fare nulla.

   Senza senso per tre quarti, il libro ti lascia senza fiato nelle ultime cento pagine. E tu Devi Continuare A Leggere. È come un ordine, leggi!
   Se lo iniziate non c’è scampo, seguirete questo dispotico ordine. Però possiamo anche ammettere che alla fine sia una lettura che porta al virtuosismo, è raro che un romanzo faccia ragionare così tanto. Non c’è conclusione logica a questi ragionamenti, ma tanto non c’è neanche nel libro per cui non dobbiamo sentirci idioti. Ci sentiamo semplicemente confusi, come se avessimo appena ricevuto un pugno in piena faccia, in mezzo ad una folla urlante, con il nostro avversario che magari è piccolo e gracile, niente scarpe e niente camicia, perché queste sono le regole del combattimento in un Fight Club.

mercoledì 18 gennaio 2012

Uomo, animale disordinato

   Ho scoperto questo libro per caso e ho atteso di comprarlo per mesi interi, perché prima non lo trovavo più, poi non avevo tempo per leggere neanche la scatola dei cereali al mattino (sì, lo faccio, a volte me ne vergogno) e poi è arrivato miracolosamente il Natale, e con lui tutte le promesse del “te lo regalo per Natale”, che mi hanno fatto aspettare fino al 25 di Dicembre per avere quel maledetto libro fra le mani.
   Ecco, a saperlo in anticipo, non mi sarei agitata tanto.


   Mamma mia, è da un po’ che non leggo un libro e quando lo finisco sono invasa da un orgasmo da fine lettura. Non è qualcosa da malati, ve lo giuro, è più una soddisfazione insieme mentale e fisica, anche se in effetti quando termino un libro di solito sono sdraiata sul divano, e di fisico c’è ben poco. Ecco, la parte fisica arriva quando il libro mi è davvero piaciuto, è raro che accada…
   Orgasmi a parte, Bianconi ha sempre scritto dei testi che mi sono sempre piaciuti moltissimo, e anche sentirlo cantare mi piace. Insomma, tutta la sua figura mi piace, ha il fascino dell’intellettualoide sexy (che con alte probabilità strozzerei appena dopo mezz’ora di conversazione perché non lo sopporto più, perché un pelo pessimista mi sembra). Credevo che leggere addirittura un libro intero scritto da lui mi avrebbe fatta sentire ancora meglio di come mi sento quando ascolto i Baustelle. Avevo letto critiche negative, è vero, ma non ho voluto crederci perché, in genere, io non credo alle critiche, io aspetto di leggere e poi decido. Anche questa volta ho tirato avanti, ma devo ammettere che gli altri avevano ragione.
   Non so come altro definire questo libro se non disordinato. Il che è un vero peccato perché sia la trama che lo stile non erano male.
   Oddio, be’, come trama forse non siamo proprio a livelli straordinari, nel senso che, se dovessi dire di cosa parla “Il regno animale” o farei scena muta o direi semplicemente «una porzione di vita milanese». Non ci sono avvenimenti eclatanti, e anche se non è detto che debbano esserci per forza per costruire un buon libro, ci sono autori che riescono a trasformare un nulla in qualcosa di emozionante. Bianconi ha scritto una storia che sembra andare alla deriva, senza sapere dove ci porterà, e che alla fine non ci porta effettivamente da nessuna parte. Per essere un nulla è leggibile, mettiamola così.
   Lo stile invece mi è piaciuto un po’ di più. Scorrevole, semplice, affatto pretenzioso, e descrizioni e aneddoti narrati in modo bellissimo. Non saprei dire esattamente il perché mi siano piaciute certe caratteristiche dello stile di Bianconi, così come non saprei dire esattamente come mai le sue canzoni mi piacciono tanto.


   La parte dolente e incriminante del libro: disordinato.
   Se prima avessi sentito qualcuno dire che un libro è disordinato lo avrei guardato storto e pensato che parla a vanvera per fare il figo. Ma ora… ora lo dico io, e ci credo fermamente.
   Che cosa significa che un libro è disordinato? Ecco, “Il regno animale” ha come protagonista Alberto, un giornalista free lance che si trasferisce per lavoro a Milano. Il primo capitolo è narrato in prima persona dal suo punto di vista, il secondo da quello di una sua fidanzata. Se lo schema si ripetesse per tutto il tempo non sarebbe un grosso problema, il punto è che la narrazione si sposta senza preavviso, e all’apparenza solo per comodità dell’autore, dalla prima alla terza persona, da un personaggio all’altro, avanti e indietro come un ubriaco che barcolla. Il quadro d’insieme è una narrazione frammentata, non omogenea, confusa, in altre parole disordinata. Molte storie vengono raccontate in questo libro, in realtà troppe.
   Se proprio qualcuno vuole togliersi il pensiero, come me, e leggere il libro di qualcuno che può scrivere canzoni bellissime, fatelo pure. Ma rimarrete delusi dall’animale più disordinato di tutti: l’uomo.

giovedì 12 gennaio 2012

Pendolari in amore

   Quando una vena prende il sopravvento sulle altre non si può fare a meno di seguirla.
   Sarà perché ho degli scatti di fuffosità, o magari perché è già da un bel po’ che non mi immergo in un qualsiasi fatato mondo rosa (credo che l’ultima volta sia stato con “Twilight” e dopo l’iniziale cieca emozione ho capito che c’era qualcosa che non andava in un vampiro che brilla); comunque sia tutta questa assenza di rose rosate mi ha portato in una sezione di EFP che non frequento spesso: le originali romantiche.
   Già di mio non leggo tantissime originali, e trovo molte di quelle romantiche un po’ troppo… non frivole, ma più adatte ad un pubblico di teenagers.
   Per saltare a pié pari il problema di ritrovarmi con un sacco di storie piene di errori grammaticali e fusti tenebrosi ho deciso di affidarmi al buon senso comune, e ho scelto un’autrice del fandom molto rinomata. Parliamo della donna che ha sfornato almeno millemila storie in un petosecondo, che ha fatto venire attacchi di cuore anche alle più vissute lettrici, e che ha incantato con i suoi personaggi così umani. Ebbene sì, parliamo di fallsofarc.

   C’è una vasta scelta di storie nell’account di fallsofarc, e quando decisi di sceglierne una mi ritrovai più nei guai del previsto. Inizialmente optai per “Lezioni di seduzione”, perché era la più popolare, ma dopo qualche capitolo smisi perché mi sono rotta dei 'belli e dannati', anche se poi si scopre che hanno un cuore d’oro, sono timidi, e che da bambini erano cicciosi e brufolosi. Così ho trovato qualcosa che sembrava più alla mia portata, qualcosa che avrei potuto apprezzare meglio.
   Per una che ha fatto la pendolare per anni e che continuerà a preferire l’autobus alla macchina perché così può ficcarsi le cuffie nelle orecchie ed estraniarsi dal resto del mondo, Linea 97 è un sogno. Un sogno ad occhi aperti puntati sullo schermo.
   All’inizio mi ha colpita di più la trama, perché un misterioso ragazzo con il cappuccio calato sulla testa è intrigantissimo! L’inizio della narrazione è facile da seguire, logico e quasi ovvio: due anime sole che ogni giorno si sfiorano su un autobus e un bel dì succede qualcosa di inaspettato e, track! ...facile da intuire no? Si scontrano. Cominciano a parlarsi, a conoscersi, a piacersi. La tensione rimane alta per parecchi capitoli mentre scopriamo sempre più cose sui protagonisti. Danielle, introversa e chiusa in sé stessa, e Peter, perennemente con il cappuccio sulla testa, che cosa avrà da nascondere? La voglia di soddisfare proprio questa domanda ci fa correre fino al capitolo rivelatore, nel quale Peter scopre (involontariamente) la cicatrice che gli deturpa metà corpo.
   Dopo questa rivelazione, che  in sostanza mi è parsa la più grande di tutta la storia, anche se l'autrice ne infila altre qua e là che però non hanno la stessa emozione, purtroppo la vicenda perde un po’ della sua dinamicità. C’è un continuo tira e molla fra Peter e Danielle, uno schema che diventa ripetitivo: tutti sono allegri, Peter dice qualcosa di stupido, Danielle si risente, momento di disperazione collettiva, poi chiacchiera a cuore aperto e successiva riconciliazione. Fine del cerchio che però è in perpetuo movimento, e ricomincerà con lo stesso programma fra qualche capitolo.
   La storia si risolleva, con mia grande allegria, verso la fine, quando tutto sembra andare a scatafascio. Scusate il francesismo ma, a questo punto, sono cazzi! Danielle è davanti a una scelta, è di fronte a quel dannato bivio che non si sa mai da che parte porterà, e chi di noi non lo ha mai sperimentato? Il classico “O una cosa o l’altra”, entrambe hanno punti pro e contro.
   Solitamente i finali non scontati sono quelli che amo di più, e questo non mi ha colta del tutto di sorpresa, però ci sono alcuni elementi che lo rendono veritiero, non la solita favoletta che finisce con il “E vissero felici e contenti”. Danielle e Peter hanno vissuto e faticato negli anni che l’autrice non ci ha descritto, preferendo un salto in avanti nel tempo, e anche se il fatto che si sposano fa tanto Disney ci sono elementi che ci fanno supporre anche una buona dose di vita vera per loro.

   Per quanto riguarda lo stile, assolutamente adatto alla storia: leggero, scorrevole, mai pesante, intrspezione quant basta per conoscere i personaggi.
   L'unica cosa che mi ha dato fastidio sono stati i dialoghi, per i quali sono molto pignola. Nessun ragazzo di oggi usa più certe espressioni, troppo costruite, troppo da libro stampato.

   Come sempre sono nemica dei protagonisti, che in questa storia sono un tantino stereotipati, e infatti il mio personaggio preferito è la matrigna, Janis. Semplicemente è il prototipo della matrigna cattiva, è antipatica, pigra, falsa e fa apparire Danielle ancora più sola e disperata (e insopportabilmente vittimista). Che cosa c'è di più stereotipato di questo? Non ci sono cambiamenti nelle matrigne fin da quando è uscito Biancaneve. Quindi perché mi piace tanto Janis? Il fatto è che all’improvviso, quando pensiamo di averla inquadrata, viene svelato un lato diverso del suo carattere, un lato sensibile che, matrigne o no, tutti abbiamo. In questo modo il personaggio è davvero a tutto tondo.

   In conclusione “Linea 97” è una storia che definisco godibile, anche con tutti i cliché del caso è piacevole e non sempre risulta scontata come potrebbe sembrare dalla mia cinica recensione (abbiate pazienza, anche io ho un cuore ma il Natale mi ha succhiato via le ultime stille di bontà, per di più ho finito la storia diverse settimane fa e adesso ragiono a mente fredda e calcolatrice).
   Se vi va di immergervi in una storia romantica e dolce, dimenticare per un po’ tutto quel che vi circonda, ed essere certi che tutti vivano felici e contenti, fallsofarc ha preparato per voi la storia adatta. Possibilmente gustatela prima di fare dei viaggi in autobus.

sabato 7 gennaio 2012

Dove stanno le anitre - prompt10

Svogliato commento

   Ed eccomi qui a recensire il film di HP nùmero dos dopo un bel po’ di tempo, più che altro perché non ho nulla da fare… Com’è  noioso il Natale. Menomale che con oggi finiamo.
   La prima cosa che con piacere si nota in questo film è che almeno gli effetti speciali hanno fatto qualche passo avanti. Non che non si possano notare ancora, in certe scene (ad esempio quando i Weasley vanno a prendere Harry dai Dursley con la macchina incantata), ma almeno non ci sono più gli orrori che c’erano nel primo film. Sono venuti davvero bene i folletti della Cornovaglia e il basilisco, li ho adorati!
   Mamma mia, mi sento davvero cattiva a parlare in questo modo. E’ come se volessi trovare a tutti i costi il pelo nell’uovo… il problema è che c’è un Ma!
   Ma in certi casi non si può fare a meno di pensare che la regia ci prenda per tonti: dicono alla fine dello scorso film che non si possono fare magie fuori da scuola, e Diagon Alley è decisamente fuori da scuola!, quindi perché Hermione mette a posto gli occhiali di Harry quando si incontrano a Londra?! Quale negligenza!
   Non che io ce l’abbia a morte con Daniel Radcliffe, infatti è migliorato come attore in questo secondo film. Ma paragonato agli altri rimane sempre un po’ in basso, a mio parere. Oh, povero, povero Daniel!
Comunque ho apprezzato tanto Jason Isaacs nei panni di Lucius Malfoy, così come Kenneth Branagh che interpreta Gilderoy Allock. Soprattutto il primo mi è parso perfetto, ce lo vedo molto bene come padre di Draco. Ora finalmente capiamo come mai è così insopportabile: come altro potrebbe essere con una tale guida paterna?

   Un altro bell’effetto speciale, ora che ci penso, è stato il Platano Picchiatore, anche se credo che avrebbero potuto documentarsi sulle piante di platano prima di farlo in quel modo, perché non ha quella forma. E poi è tutto spelacchiato anche se siamo a Settembre.
   Non mi è piaciuta molto Mirtilla Malcontenta, più che altro per il fatto che far interpretare a una trentenne (Shirley Henderson, classe 1965) una ragazzina di quindici anni o giù di lì mi pare un filo esagerato. Per di più è diversa dalla Mirtilla Malcontenta dei libri, che aveva i capelli lisci che le coprivano sempre la faccia e di certo non era civettuola come questa Mirtilla cinematografica.

   Mi sono messa a ridere un sacco comunque, perché tutti gli adulti trattano Draco come una pezza da piedi. Un po’ mi dispiaceva per lui, un po’ mi faceva morire dal ridere. Tipo, quando lui cade dalla scopa durante la partita di Quiddich suo padre (il suo stesso padre, povero!) lo guarda con disprezzo, durante il duello con Harry invece Piton lo prende e lo scaraventa in campo.
   Insomma, organizzerò un movimento: Contro i Maltrattamenti a Draco Malfoy Usati Solo per Fare Scena.
   E’ azzeccata la domanda di Harry: «Come posso parlare un’altra lingua senza saperlo?».
   Ora che ci penso, tutto “Harry Potter e la Camera dei Segreti” potrebbe cadere di fronte alle teorie di un linguista. Perché se Harry non parla serpentese allora non sente la voce nel muro, se non la sente non viene a sapere certe cose sulla Camera, se non le viene a sapere non può entrare nella Camera, e se non…!
   Un intera saga intera distrutta da una chiacchierata con un linguista.
   Bah, nel corso del film poi mi sono un filo distratta e ho perso la voglia, comunque non ci sono più altre cose interessanti da dire, a parte il fatto che ho riso da matti quando Allock perde la memoria.
   E… addio Richard Harris!

mercoledì 4 gennaio 2012

Quando non si ha nulla da fare e si postano fanfiction

   Non avevo niente da fare, e ho deciso di postare una One Shot che avevo lì da tempo.   Per la prima volta (tornerò, tranquilli!) nel fandom di Kuroshitsuji ecco a voi: Le parole del serpente. Come potete ben immaginare il protagonista assoluto di questa storia è Snake!


   Non ho più voglia di scrivere, quindi vi saluto...

martedì 3 gennaio 2012

Tagliata in due da Dexter, il Vendicatore

   È l’una e tredici del mattino, e queste sono le prime impressioni a caldo che ho avuto del primo romanzo di Jeff Lindsay, “Dexter, Il vendicatore”.
   Pubblicato per la prima volta nel 2004 con il titolo “La mano sinistra di Dio” (“Darkly dreaming Dexter”, in inglese), il libro ha avuto successo immediato, diventando un best seller. Questo ha fatto sì che nel 2006 ne venisse prodotta una serie dalla Showtime, che è diventata, oserei dire, più famosa del libro stesso. Ho conosciuto infatti per prima la serie televisiva “Dexter”, che mi ha oltremodo affascinata, e così dopo parecchio (all’alba della sesta stagione) mi ritrovo a leggere il libro.
   Essenzialmente ci troviamo di fronte alla stessa trama, e per chi ha visto la serie non è più una sorpresa così grande. Tuttavia nessuno gli risparmia la mia critica, perché, ahimè mi duole ammetterlo, ma questo è uno dei rarissimi casi in cui lo show televisivo ha fatto un lavoro migliore del libro.
   Non voglio però confrontare le due cose, assolutamente, perché la carta stampata ha meccanismi del tutto diversi da quelli della pellicola, ma se, nel loro ambiente, dovessi votare i due lavori, darei a questo libro un sei e mezzo, mentre la serie si prende come minimo un nove.
   Perché?
  
   Ovviamente non posso che ammirare la scelta del protagonista: un uomo orribile, un mostro, come lui stesso si definisce, un malato mentale, un serial killer! Se lo vedessimo al telegiornale lo chiameremmo in questi e molti altri modi, anche poco lusinghieri, ma di certo non: il fichissimo protagonista dell’ultimo libro che ho comprato. Non che io ammiri il lavoro dei serial killer, ma ammiro Jeff Lindasy per averci provato (ed esserci riuscito!) e aver preso come protagonista, come ufficiale “bravo ragazzo”, un assassino della peggior specie!
   Esistono già, nella storia della letteratura moderna e contemporanea, personaggi negativi protagonisti. Tuttavia credo che oggi l’immagine del serial killer sia il cattivone per antonomasia. L’idea di poterlo trovare affascinante, provare simpatia per lui, addirittura stare dalla sua parte, era qualcosa che non balenerebbe in testa a nessuno se non fosse per la bravura di un autore. E qui torno ad ammirare Lindsay, che ha reso un personaggio socialmente inaccettabile il nostro eroe.
   A questo punto sorge spontanea una domanda: «Come ha fatto?». Purtroppo non ho nessuna teoria al riguardo, perché qui arriviamo al nodo negativo di questa recensione, ovvero lo stile.
   Dire che non mi è piaciuto non è del tutto vero. La narrazione in prima persona rende possibili certe… confidenze, certe frasi che usiamo nel parlato ma che solitamente non useremmo per uno scritto, ed è proprio questo che a volte non mi piace: credo che lo scrittore si prenda troppe licenze con questo escamotage. E in “Dexter” di licenze ne sono state prese parecchie! È una questione di gusti, me ne rendo conto, ma credo che in questo Lindsay abbia esagerato.
   Passiamo ad un altro punto che mi ha fatto riflettere. Il tono del romanzo è di certo leggero, il protagonista tende a buttare tutto sul ridere anche nelle situazioni più cupe, e questo è di certo un bene secondo me, perché altrimenti il tutto sarebbe troppo serioso, e allora sì che ci renderemmo conto che il nostro amato protagonista è un brutale serial killer che ode voci che lo incitano ad uccidere! Il che lo renderebbe piuttosto spaventoso, per nulla simpatico, no no… Quindi in pratica mi è piaciuto questo andare avanti in maniera divertente, ironica.
   Arriviamo al punto dolente, perché ce ne sono un paio belli grossi.
   Questo romanzo manca di particolari, e i momenti di tensione svaniscono quando dovrebbero essere al loro picco.
   Punto primo: i particolari. L’autore si è dilungato molto a parlare di quanto Dexter si senta inumano, di quanto sia privo di sentimenti (la cui cosa poi viene smentita continuamente nel corso della narrazione, e soprattutto per come si risolve alla fine la storia), ma non ha dato alla trama e a certi aspetti della sua vita lo stesso spessore, cosa ingiustificata data la prima persona. Il protagonista avvia una ricerca quasi da detective, ma le intuizioni, il ritrovamento di prove e l’articolazione di ipotesi (queste ultime due poi sarebbero il suo lavoro) semplicemente non ci sono. Dexter va avanti a intuizioni, quasi a tentoni, e con una fortuna sfacciata riesce a risolvere la situazione! Inoltre la sua vita privata, già quasi inesistente, ha quel poco di slancio con la storia di Rita, che lui afferma essere importante per la sua facciata da persona normale, ma sembra che non appena Lindsay raggiunge il suo scopo (ossia, appunto, la scopa inteso come verbo) ci dimentichiamo di Rita, e dei passi avanti in una relazione che, mostro o non mostro, anche Dexter deve compiere, o per lo meno fingere.
   Infine i momenti di maggior tensione, verso la fine del romanzo, semplicemente scompaiono, anche se io ancora non ho capito il perché. Forse è solo perché già sapevo come andava la storia. Ma davvero, la parte che doveva emozionarmi di più mi ha lasciata quasi indifferente, anzi peggio! Ero in uno stato da «Ma quando la finiamo?» Mi sono ritrovata ad apprezzare di più tutto il resto del racconto, che il nodo cruciale della trama.
   Il finale, poi, è semplicistico. Non viene neanche spiegato per bene. Ecco, questo mi ha talmente indignata che non ho voglia neanche di spenderci parole. Dev’essere stato lo stesso stato d’animo di Linsday quando ha scritto quel maledettamente corto epilogo.

   Alla fine? Alla fine questo libro mi trova impreparata a dargli un voto finale. Probabilmente è a causa di Michael C. Hall, che nei panni di Dexter mi ha fatta affezionare a lui. È tutta colpa sua…
   Sono talmente divisa che sono certa di due cose: la prima è che mi è piaciuta più la serie, la seconda che continuerò a leggere i romanza di Dexter. Eh sì, possiamo dire che, alla fine, in modo piuttosto intricato, Lindsay ha vinto anche su di me.