giovedì 22 giugno 2017

Penna alla mano #4: Forze e debolezze

Ho un progetto in corso che non so quando vedrà la luce. Sono contenta di aver ultimato il precedente romanzo, ma adesso che ne ho preso le distanze non lo sento più mio. Non so che cosa succederà, ma per il momento rimane lì nel cassetto, preferisco dedicarmi ad altro. Un giorno vorrei pubblicare ancora, magari qualcosa di più lungo di un racconto, ma sicuramente voglio che sia una storia con cui sono perfettamente ‘allineata’, a cui credo con tutta ma stessa senza sforzo.
Mi è capitato, trovandomi così in difficoltà con il precedente racconto, di pensare perché il lavoro in cui mi ero lanciata con tanto entusiasmo ora non mi soddisfi più. Non è tanto una questione di stile, più che altro credo che sia l’intento della storia, il motivo per cui l’ho scritta, ciò in cui non credo più. Se ci ripenso la trovo immatura, incompleta, e per un po’ ho pensato a quali fossero i suoi punti di forza e quali i punti deboli.
Ho scoperto che quelli del romanzo coincidono con i miei punti forti e deboli, quelli che ho nella scrittura. È stato un esercizio utile perché mi ha permesso di abbandonare il particolare per vedere il quadro generale, e ho capito meglio quali sono qualità e difetti del mio processo creativo.

Fortuna che non sono una persona modesta.
Non che mi reputi una fuoriclasse, ma non fatico a trovare dei punti di forza, il che mi fa pensare che credo in me stessa quanto basta per creare un mix tra umiltà e capacità. Non amo le persone che fingono di buttarsi giù solo per sentirsi dire «Mannò!, che dici? Sei così bravo!», quindi cerco di non comportarmi così.
Ecco, una prima qualità di cui sono fiera è l’immaginazione. Ho sempre un mucchio di idee, non ho bisogno di sforzarmi per trovarne una, nascono naturalmente. Un’idea per una storia può scaturire da qualcosa che vedo in giro, da una conversazione con qualcuno, o da una riflessione. D’un tratto un concetto si trasforma nell’idea adatta ad un racconto. Me li scrivo tutti, questi spunti, perché sono talmente tanti che rischio di dimenticarli.
Questo prima di iniziare a scrivere. Per quanto riguarda la parte pratica mi hanno fatto i complimenti per i dialoghi, che risultano credibili e in linea con il carattere, l’estrazione sociale dei personaggi, e le situazioni.
Mi sono resa conto inoltre che riguardo alla trama seguo molto l’istinto. La pianifico inizialmente, e la faccio andare avanti seguendo uno schema che conosco già, ma se qualcosa non mi convince non lo forzo. Non mi spaventa uscire dai binari che ho preconfezionato, se sento che è la cosa giusta da fare. A questo proposito mi è capitato di dover rivoluzionare completamente una storia (magari dall’inizio e dopo un sacco di pagine già scritte, perché farmi mancare questo brivido?!) per una piccola modifica che ho scelto di fare in seguito. Nemmeno questo mi spaventa; posso apportare modifiche gigantesche per sistemare un dettaglio, il tempo o la fatica che mi occuperà non mi interessano – anzi, non mi pesano. Peno che questo sia un insegnamento che mi ha dato tempo fa la mia professoressa di arte. Piuttosto di continuare a insistere su un dettaglio errato, cercando sistemarlo a poco a poco, mi diceva di andare di gomma e rifare tutto per ottenere i risultati che cercavo.
Ultimo pregio, anche questo di cui sono orgogliosa, è che ascolto i consigli. Nonostante a volte detesti il mio carattere, che esplode a tradimento come un vulcano attivo in attesa solo di una scusa per eruttare, sono piuttosto razionale. Dopo la lettura di una storia da parte di più persone analizzo le problematiche trovate da ognuna di loro e cerco di migliorarla in base a quelle, suddividendo fa le critiche che riguardano il gusto personale e quelle che sottolineano un problema oggettivo della storia. Ricevere critiche mi dispiace, ovvio, ma le ascolto tutte senza cercare giustificazioni né arrabbiarmi, e dopo aver aggiustato il tiro in base a queste i risultati se vedono sempre.

Ma si sa, la severità più inflessibile viene proprio da noi stessi, e trovo anche parecchi difetti nel mio modo di scrivere. La maggior parte sono più evidenti a me, problemi che riguardano il primo abbozzo di trama o la primissima stesura del testo. Nonostante questo sono difetti da correggere sicuramente, perché al lettore arrivano, seppur in maniera molto vaga.
Spesso mi capita, mentre organizzo la trama, di creare dei nodi che poi non riesco a sciogliere. Mi capita di intrecciare tanto le vicende da non trovare più io stessa il famoso bandolo della matassa,  più semplicemente di mettere i miei personaggi in situazioni tanto terribili che solo un deus ex machina può salvarli – il problema è che io odio i deus ex machina, perché sono proprio l’ultimo appiglio a cui l’autore può aggrapparsi e, a mio parere, sono segno di una scrittura che deve ancora maturare. Per risolvere queste magagne mi ritrovo a dover fare modifiche che non avrei voluto fare, che però la maggior parte delle volte mi portano via del tempo. Come ho detto prima non mi dispiace rimboccarmi le maniche e modificare una buona parte di testo, ma un conto è farlo perché senti che è la cosa giusta da fare, un altro è dover sistemare lì dove c'è uno sbaglio. So che è per la buona riuscita della storia, tuttavia via mi rendo conto che se solo riuscissi ad organizzare subito tutto al meglio, non mi ritroverei con questi problemi.
Poi c’è la mancanza di organizzazione e le lunghe tempistiche. Ci metto tanto a scrivere, forse proprio perché fatico a pensare ad uno schema pratico da seguire. Penso che se riuscissi a trovare un metodo andrei molto più veloce, ma fin’ora quelli che ho provato non hanno dato i risultati sperati. Avevo sentito dire ad esempio che scrivere tot parole al giorno aiutava a tenersi allenati, a non ‘staccarsi’ dalla storia, e per qualche mese l’ho fatto, per un precedente progetto. Ho terminato in tempo record ma mi sono resa conto che scrivere era diventato un processo meccanico. Le pagine che sfornavo diligentemente mancavano di anima, erano un puro esercizio senza cuore.
Oltre alle cose più pratiche trovo un altro difetto della mia scrittura, che si può definire forse di stile. Credo che i miei personaggi non spicchino particolarmente. A volte mi sembra che abbiano un carattere nebuloso, che non influisce sulla trama, quando invece secondo me il carattere dei personaggi dovrebbe avere molto peso. Tutto dipende dalle scelte dei protagonisti, la storia si dipana seguendo i percorsi determinati dalle loro azioni. Ma cosa determina le loro azioni? Il carattere, e tutto ciò che vi è legato. Il background culturale, l’infanzia, i desideri e le passioni, le paure, le esperienze e gli insegnamenti ricevuti dalla vita. Tutto questo a volte manca nei miei personaggi, me ne rendo conto, e rimangono macchie indistinte. Le loro motivazioni sono forti, ma mancano di spessore.
Ultimo mio cruccio è l’impazienza. Quando devo revisionare una storia sono molto frettolosa, vorrei farlo subito quando invece sarebbe meglio lasciarla da parte… a lievitare, come una pagnottina. Se non aspetto e non mi distacco dalla storia rischio di essere ancora troppo coinvolta e di non vedere ciò che va migliorato, quindi di presentare ai lettori una storia che non esprima tutto il suo potenziale.

Ho riletto il post e, sebbene mi dia un colpo in testa nel leggere l’ultima parte riguardo a tutto ciò in cui potrei migliorare, sono contenta sia di aver trovato delle qualità che dei difetti nel mio modo di scrivere.
Significa che riesco ad essere obiettiva con me stessa, non cerco scuse e voglio migliorarmi, ma vedo anche motivi di orgoglio e so di essere cresciuta in questo ambito della mia vita. Credo sia importante trovare una via di mezzo o si rischia di abbattersi o, al contrario, di pensare di essere già arrivati quando, in realtà, non si sono fatti che pochi passi.
Io ho fatto alcuni passi. A volte ho evitato la caduta, altre sono inciampata. L’importate è sapere come e perché si è rovinati a terra, per impedire che accada di nuovo. Ecco, il post che avete appena letto è servito a questo.

martedì 13 giugno 2017

Carta straccia #3: Il ristorante degli amori ritrovati – Ito Ogawa

Era da parecchio, per fortuna, che non incappavo in un libro da inserire in questa rubrica. Questo romanzo ha riportato in auge Carta straccia nel modo peggiore possibile: avevo grandi aspettative per “Il ristorante degli amori ritrovati”, pensavo davvero che sarebbe stata un’ottima lettura, una di quelle che ti scaldano l’animo e ti fanno venire voglia di rimanere a casa, con la coperta addosso (o un ventilatore, che in questo momento sarebbe più gradito), un tè caldo in una mano (coca cola ghiacciata) e un libro nell’altra.
Ma mi sbagliavo. Non è quel tipo di libro. Ma almeno c’è una nota positiva, lo cancellerò dal Kindle e sarò libera di dimenticarmene.

Ringo è appassionata di cucina e conosce tutto sia della cucina tradizionale giapponese, perché la nonna le ha insegnato tutto quello che sa, che di quella etnica, perché ha lavorato in diversi ristoranti e fatto esperienza.
Il giorno in cui il suo fidanzato scompare, portandosi via tutte le loro cose, a Ringo non resta altro da fare se non tornare nel piccolo paese di montagna dal quale proviene. Peccato che lì abiti ancora sua madre, con la quale non è mai andata d’accordo.
Dopo qualche momento di indecisione Ringo pensa di mettere a frutto le sue conoscenze in cucina e ristuttura il granaio della madre per farne un ristorante. Realizzato con materiali di recupero e deciso a utilizzare i prodotti che la terra può offrire, il ristorante prende vita e, con il suo menù peculiare, attira molti clienti. Infatti Ringo decide che Il ristorante lumaca servirà solo un gruppo, una coppia o un cliente alla volta, per il quale il menù sarà personalizzato a seconda dell’occasione.
Sembra una coincidenza ma, dopo aver mangiato al Ristorante lumaca, gli avventori trovano l’amore, riprendono contatti con qualcuno che credevano di aver perduto, o rimettono in sesto la loro vita riuscendo infine a lasciarsi alle spalle i dolori passati.
Proprio questo accade alla madre di Ringo, che ritrova il suo grande amore di quando era ragazza. Scopre però allo stesso tempo di essere malata e che le restano pochi mesi di vita. Dopo aver conosciuto meglio sua madre, Ringo si rimbocca le maniche e prepara il menù per il giorno del suo matrimonio.
La madre di Ringo muore poco dopo e la ragazza, che serberà nel cuore il suo ricordo, si getta a capofitto nel suo lavoro al ristorante. Cucinare la rende felice e mangiare ciò che prepara rende felici gli altri, decide quindi che essere una cuoca sarà il suo futuro.

Meh…
Che dire? Avevo accennato al fatto di aver avuto un sacco di speranze per questo romanzo, e infatti è così. È molto strano perché sono state deluse al massimo ma, allo stesso tempo, non lo sono state. La storia ha tutte le caratteristiche per essere un gran bella storia, ma è riuscita a rovinare tutto con un solo elemento: lo stile.
Ito Ogawa
Non mi sono informata sull’autrice ma forse si tratta di un’esordiente. Il fatto è che sembra di leggere un esordiente, si capisce che è un esordiente e, se non lo è, allora è nei guai. Ogni cosa si svolge troppo in fretta e con troppa facilità. Non c’è una vera e propria trama, non ci sono problematiche che i protagonisti affrontano, il pettine non giunge mai al fantomatico nodo (forse alla fine, con la notiza della morte imminente della madre, ma il tutto nelle ultime venti o trenta pagine). Sembra un resoconto dei fatti, per di più stilato da una persona rancorosa e superba.
Ringo passa quattro quinti di libro a detestare sua madre e, quando scopre che lei è malata, ogni risentimento passa come per magia. Invece di cogliere questo momento come un’opportunità per affrontarsi, capirsi, spiegarsi, le due donne non fanno che guardarsi da lontano e sperare di essere più vicine, cosa che non accade, ma si comportano come se avessero risolto i problemi che le separano da sempre.
Ho voluto leggere questo libro perché parlava di cucinare, di cibo, della bellezza di preparare un buon pasto per le persone che amiamo, di come il cibo e la cucina siano parte fondamentale di ciò che siamo. Peccato sembrasse il menù di un ristorante. Volevo immergermi per qualche attimo nell’atmosfera tranquilla di quando fai lievitare una focaccia e intanto la casa si riempie dell’odore della pasta, o il vapore della verdura che si alza quando togli il coperchio e avverti tutto il profumo degli ingredienti freschi, o ancora il rumore della carne che sfrigola quando la metti sull’olio bollente e comincia a rilasciare i succhi. Questo intendo io per romanzo che parla di cucina, l'atmosfera magica che si crea quando si cucina con passione e si assaggia (incuranti delle calorie!) un piatto preparato con amore.
L’unica nota positiva sta nell’ambientazione. Siamo in un piccolo paese di montagna perso in mezzo al Giappone. La vita segue il ritmo della natura e tutto è più tranquillo, silenzioso, lontano dal caos e dalla fretta irrazionale della città. Le persone sono più semplici, cortesi, e il paesaggio di cui si può godere ogni giorno è un regalo.

Conclusione? Non leggetelo.
Davvero, mi capita raramente di dirlo ma questa è una di quelle volte. Non leggetelo, perché vedere un romanzo pieno di possibilità rovinato così è ancora peggio di trovarne uno che ne è completamente privo.

Nonostante le mie critiche pare che in Giappone abbia avuto successo,
tanto che ne è stato tratto un film.

martedì 6 giugno 2017

Oceano mare – Alessandro Baricco

Quando ho aperto il blog pensavo che avrei recensito ogni singolo libro e che sarebbe stato bellissimo. Poi mi sono resa conto che leggo troppi libri per poterli recensire tutti, quindi ho deciso di parlare solo di quelli che mi sono piaciuti molto, o che non mi sono piaciuti affatto. Poi ho visto che non sempre ho qualcosa da dire su una lettura, perché mi lascia un po’… meh. Non mi è dispiaciuta, ma non mi è nemmeno piaciuta, quindi ne verrebbe una recensione scialba. E questi sono i motivi per cui di solito non scrivo recensioni.
Poi leggo Baricco, e mi ricordo che ci sono libri di cui non riesco a parlare.
Potrei dirvi della trama di “Oceano mare”, dei personaggi, del finale, dello stile, ma non hanno ancora inventato delle parole adatte a descrivere cosa significano certi romanzi. Una cosa simile mi è successa con “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano”, ma all’epoca non avevo un blog. Adesso che mi sento quasi in dovere di spargere il germe della lettura a più persone possibili, mi chiedo come si possa parlare di un libro talmente impenetrabile come questo.
Dopo tanto pensarci ho capito che non si può.
Quindi lascerò parlare il libro stesso.

“Edel, c’è un modo di fare degli uomini che non facciano del male?”
Se la deve esser chiesta anche Dio, questa, al momento buono.

Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. […]Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle
“Ti aspettavo.”

La natura ha una sua perfezione sorprendente e questo è il risultato di una somma di limiti. La natura è perfetta perché non è infinita.

Aveva perso un po’ di quello smalto… gli si era appannata l’anima, se capite cosa voglio dire. Era come se si fosse aspettato qualcosa di diverso, lui, di proprio diverso. Non era preparato a quella normalità lì.