Sui treni, per salvarsi, per
fermare la perversa rotazione di quel mondo che li martellava di là dal vetro,
e per schivare la paura, e per non farsi risucchiare dalla vertigine della
velocità che certo doveva continuamente
bussargli nel cervello quanto meno nella forma di quel mondo che strisciava di
là del vetro in forme mai viste prima, meravigliose certo, ma impossibili
perché il solo concederglisi per un attimo istantaneamente rimetteva in corso
la paura, e di conseguenza quell’ansia densa e informe che cristallizzata in
pensiero si rivelava a tutti gli effetti nient’altro che il sordo pensiero della
morte – sui treni, per salvarsi, presero l’abitudine di consegnarsi a un gesto
meticoloso, una prassi peraltro consigliata dagli stessi medici e da insigni
studiosi, una minuscola strategia di difesa, ovvia ma geniale, un piccolo gesto
esatto, e splendido.
Sui treni, per salvarsi,
leggevano.
Linimento perfetto. La fissa
esattezza della scrittura come sutura di un terrore. L’occhio che trova nei
minuscoli tornanti dettati dalle righe la nitida scorciatoia per sfuggire
all’indistinto flusso di immagini imposto dal finestrino. Vendevano, nelle
stazioni, delle apposite lampade, lampade per la lettura. Si reggevano con una
mano, descrivevano un intimo cono di luce da fissare sulla pagina aperta.
Bisogna immaginarselo. Un treno in corsa furibonda su due lame di ferro, e
dentro il treno un angolo di magica immobilità ritagliato minuziosamente dal
compasso di una fiammella. La velocità del treno e la fissità del libro
illuminato. L’eternamente cangiante multiformità del mondo intorno e
l’impietrito microcosmo di un occhio che legge. Come un nòcciolo di silenzio
nel cuore di un boato.
Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, Milano, RCS Libri, 1997,
settima edizione, pg. 245
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