Iniziai a leggere “Le ceneri di Angela”
parecchio tempo fa, nel 2010. Lo abbandonai dopo nemmeno cento pagine perché
era straziante. Non esagero.
Nel suo essere di una sincerità
impietosa, tuttavia, lo ricordavo anche molto divertente, così quando poco
tempo fa l’ho ritrovato a casa di mia mamma ho deciso di rubarlo e, dato che
ricordavo cos’era successo nella parte già letta, ho ricominciato da dove mi
ero interrotta.
Probabilmente, il motivo per cui questa
storia è molto triste, è che mentre la leggi sai che si tratta di
un’autobiografia. L’unico modo in cui sono riuscita ad andare avanti nella
pietosa lettura è stato ripetermi: «Tanto poi lui va in America, scrive un
libro e diventa ricco e famoso, così non deve più preoccuparsi di sua madre che
mendica il cibo e dei suoi fratelli che muoiono di fame, e di tutti che si
vergognano di essere così poveri.» Sì, lo so, è una farse lunga da ripetersi,
ma leggere questo libro senza aggrapparsi ad un po’ di speranza è impossibile e
anche molto doloroso.
Non ho mai letto autobiografie in vita
mia, a parte quella di Roal Dahl, “Boy”, che però, come l’autore tende subito a
precisare, «non si tratta di un’autobiografia ma di una raccolta di fatti
accaduti, perché le autobiografie di solito sono lunghe e noiose.»
I genitori di Francis McCourt, entrambi irlandesi,
erano andati in America per cercare fortuna e lì si erano stabiliti per qualche
anno. A causa della grande depressione che segue la prima guerra mondiale
tornano con i due figli, Francis e Malachy, a vivere in Irlanda, più
precisamente a Limerick.
Frank McCourt senior viene dall’Irlanda
del nord e tutti lo considerano uno strano. Perde continuamente il lavoro perché
quando arriva giorno di paga va al pub a bersi tutto quanto, rincasa tardi e
sveglia i figli per far loro cantare canzoni patriottiche e fargli promettere
che moriranno per l’Irlanda, e la mattina dopo non si presenta al lavoro.
Angela Sheehan in McCourt tenta in ogni modo di fermarlo, arrivando persino a
chiedere che la paga del marito venga consegnata a lei, ma quelli delle
fabbriche sanno che se una moglie viene a chiedere la paga del marito è perché
lui se la beve tutta la pub, e non ce lo vogliono un ubriacone a lavorare nella
loro fabbrica. E allora via un altro lavoro.
La famiglia, che nel frattempo si
allarga con l’arrivo di due gemelli e una bambina, sopravvive a stento grazie
al sussidio – e anche quello va in bevute – e alla carità. Gli anni passano, i
bambini crescono e ne nascono altri, mentre altri ne muoiono, per gli stenti o
le malattie.
Frank senior va in Inghilterra con
l’intenzione di trovare lavoro e mandare soldi alla famiglia, ma una volta
partito nessuno lo sente più. Frankie junior, il fratello maggiore e ormai uomo
di casa, si arrangia allora come può per aiutare la famiglia. Con piccoli
furtarelli e lavoretti qua e là, Frankie porta a casa qualche scellino già
dall’età di tredici anni, e quando ne
raggiunge diciannove ha messo da parte abbastanza denaro per prendere una nave
e andare in America che, i suoi genitori lo dicono sempre: è la terra delle
possibilità.
Raccontato in prima persona dal punto di
vista dello stesso Frankie, lo stile è secco, sbrigativo, sincero ma
avvolgente.
Sembra di ascoltare la storia raccontata
di prima mano dal piccolo protagonista, con l’ingenuità tipica di un bambino
che crede ciecamente in quello che gli adulti dicono e non usa tanti giri di
parole. Non manca comunque una buona dosa di ironia che, soprattutto quando si
parla di adulti, chiesa e in generale di tutti i benpensanti, trabocca dalla
pagina.
I personaggi sono tratteggiati
vivacemente e tanto bene che sembra di conoscerli e di capirli. Alcuni sono
cupi e non sempre positivi, come Francis senior, che si redime ogni tanto
quando racconta le storie ai suoi figli, li fa ridere e li consiglia,
raccomandandosi che devono sempre confidarsi con lui piuttosto che vivere nella
preoccupazione. Altri personaggi sono velati da un manto di rammarico, di
impotenza e di angoscia, come Angela. Altri ancora compaiono per brevi periodi,
colorando la vita di Frank con i loro bizzarri comportamenti e le loro strambe
idee, come ad esempio i suoi compagni di scuola, gli insegnanti o i datori di
lavoro più tardi. Ogni personaggio porta con sé luci e ombre, e questo li rende
estremamente complessi e reali.
La Limerick degli anni ’30 e ‘40, dove
si svolge l’intera vicenda, riprende vita, a partire dai vicoli più bui e
poveri dove abitano famiglie come quelle dei McCourt, e sebbene venga molte volte
maledetta come cittadina di provincia, viene voglia di vederla.
La chiesa, che all’epoca svolgeva un
ruolo molto più attivo nella comunità, diventa uno degli elementi chiave della
vicenda, nella buona e nella cattiva sorte. Frank e i compagni di classe, cui
sin da piccoli vengono inculcati a forza i valori della Chiesa Cattolica, si domandano
spesso che cosa voglia dire l’uno o l’altro comandamento, arrivando a teoria
spesso esilaranti, e sono convinti che ogni piccola cosa sia peccato. Ma alla
fine, come commenta Frankie stesso, «se fai un peccato tanto vale farne un
altro perché la condanna è sempre la stessa. Un peccato: dannazione eterna. Dieci
peccati: idem.»
Immagine tratta dal film omonimo del 1991. |
Non posso che consigliare caldamente
questo libro a chi è incuriosito dalla vicenda, però vi avverto che non dovete
peli sullo stomaco né essere facili al pianto, perché rischiate di dover girare
con un pacchetto di kleenex oltre al libro.
È vero che non si tratta di uno di quei
romanzi che narrano di un grande amore che vince su ogni cosa, o di un
protagonista coraggioso e senza macchia. Questa è una storia semplice, in cui
viene svelato anche il lato più debole e umano dei protagonisti, in cui viene
mostrata la miseria senza veli. Proprio per questo, tuttavia, ha qualcosa di
molto confortante, perché nonostante tutto c’è sempre speranza.
In un modo o nell’altro, ci insegna
questo libro, tutti possiamo arrivare alla nostra America.
Quando ho scoperto dell'esistenza di questo libro era il periodo in cui era uscito il film che NON ho visto perché non me la sentivo di guardare un drammone (almeno questa era l'idea che me ne ero fatta). Quindi non ho letto il libro ma ho letto, tempo dopo, gli altri due di McCourt e quindi, visto il modo in cui scriveva, ho pensato diverse volte che avrei dovuto provare a leggere Le ceneri di Angela. L'idea era che il suo stile anche "leggero" (non so se sia proprio il termine giusto) avrebbe reso più sopportabile la lettura. Però tu dici che invece comunque il rischio di pianto è alto...quindi sono punto e a capo, rimando ancora :D
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