La sincerità è ciò che vorrei ci fosse
alla base del blog – così come vorrei che fosse alla base di ogni cosa ma, be’,
comincio dal mio piccolo. Sono sincera nelle recensioni, quando parlo della
blogosfera, quando parlo di me e così voglio continuare a fare.
È facile essere sinceri quando si
recensisce un libro il cui autore è straniero, o morto, o ha scritto un libro
fantastico e noi non facciamo che aggiungere lodi ed altre lodi. Diventa un po’
più complicato quando l’autore ci invia un suo scritto, quando lo conosciamo o magari
è un nostro amico.
Forse sono io l’unica paranoica, e anche
questa volta mi sto fasciando la testa prima di rompermela. Il fatto è che ci
rimango male a dire a qualcuno che non mi piace qualcosa che ha scritto,
disegnato o ideato, perché so quanto impegno ci si mette e quanto fegato ci
vuole per sottoporre quest’idea ad altri e stare a sentirne le critiche.
Non conosco affatto l’autrice di cui sto
per recensire il libro ma dato che è italiana, vivente, e probabilmente ha
contatti quotidiani con il web in quanto non è a far compagnia a Harper Lee in
una casa di riposo, ho l’ansia che possa in qualche modo arrivare a questo
minuscolo blog e leggere questo minuscolo post. E scoprire che non le piace
affatto ciò che penso del suo libro. D’altra parte mi dico che gli autori sono
abituati a critiche belle e brutte, e che la mia sarà sicuramente “un granello
di polvere nell’occhio di un gigante”.
Quindi mi rimbocco le maniche e mi
appresto a recensire “Quella vita che ci manca”, di Valentina D’Urbano.
(Tanto non lo leggerà mai!)
Siamo alla periferia di Roma, a metà
degli anni ’90, nel quartiere più malfamato che possiamo immaginare: la
Fortezza. Non è un nome scelto a caso, perché il quartiere ha davvero muri e
sentinelle all’ingresso, e se hai la faccia di uno che non dovrebbe essere lì
ti sparano e tanti saluti.
Qui è dove vive la famiglia Smeraldo, in
una casa occupata dove manca spesso la luce, il gas, e tutto ha una patina di
vecchio e usurato. Persino quelli che vivono lì hanno un’aria usurata. Letizia,
madre di quattro figli avuti da tre padri diversi. La primogenita Anna,
trent’anni e un destino di solitudine già scritto. I fratelli Alan e Vadim, l’uno
spietato e l’altro ritardato. E infine il più piccolo, Valentino, che
nonostante il degrado in cui vive e la sua vita spietata, conserva una dolcezza
e una sensibilità rari nelle persone.
La famiglia Smeraldo si arrangia come
può, ma chi porta i soldi veri a casa sono Alan e Valentino che, ormai
specializzati in furti di merce e auto, escono di notte con la scusa di aver
trovato un lavoro come guardiani notturni. La vita sembra già decisa, perché
chi abita alla Fortezza ha solo due possibilità: fuggire a dispetto di tutti,
pensando solo ai propri interessi, o vivere come già fanno gli Smeraldo.
Le cose cambiano per Valentino quando
incontra Delia, una ragazza che si è trasferita a Roma da poco. Più grande di
lui e con una vita differente, fuori dalla Fortezza, la vita che Valentino
sogna e che non osa prendersi. Il ragazzo la conquista nonostante la sua
reticenza e Delia riesce ad andare oltre alle apparenze e a conoscere chi si
cela dietro l’aria da criminale di Valentino. Nonostante mentalità diverse e
desideri opposti i due riusciranno a convivere, per incamminarsi assieme verso
un destino che si scriveranno da soli.
Ho trovato serie difficoltà nello
scrivere questo piccolo riassunto, e qui principalmente sta il difetto del
libro. La trama è inconsistente.
Probabilmente è un fatto di gusti, ma l’ho
trovata veramente povera. Non esiste un vero fulcro della storia, non ci sono
reazioni di causa-effetto se non alla fine – e per fine intendo proprio le
ultime venti pagine. Leggiamo per oltre duecento pagine di furti, liti in
famiglia, del degrado, della sofferenza, delle piccole felicità, per poi
ricominciare daccapo. Purtroppo alla lunga stancano, e non perché lo stile, la
storia, o la scena che leggiamo in sé, ma perché non hanno un motivo per essere
scritte.
Facciamo un esempio di un altro tipo.
Nei film di Quentin Tarantino ci sono spesso dialoghi apparentemente inutili
fra i protagonisti, su argomenti che nulla avranno a che vedere con il film e
la trama, ma sono fatti per far capire allo spettatore il rapporto che
intercorre fra due personaggi. In “Quella vita che ci manca” è come se ogni
scena fosse stata scritta con quello scopo. Ma a pagina settanta direi che ho
intuito com’è la famiglia Smeraldo, il loro background e la loro storia, e ora
voglio sapere se succederà qualcosa!
Probabilmente si tratta di gusti e
basta, ma personalmente mi piace vedere i personaggi agire in base a qualcosa,
e reagire di conseguenza ad un fatto. Ad esempio Harry Potter vuole uccidere
Sirius Black perché pensa che abbia tradito i suoi genitori. Non Vadim fugge di
casa per vedere la ragazza di cui si è innamorato e la cosa finisce in nulla.
Il libro è tutto un susseguirsi di “finisce in nulla” fino alla fine, dove
finalmente abbiamo degli ingranaggi che si muovono tutti assieme a formare una
storia. Le scelte dei personaggi portano a conseguenze, che si intrecciano con
le scelte di altri personaggi e così via, come un cesto di vimini che senza una
fascetta si sfalda.
Peccato che il tutto duri una ventina di
pagine e poi finisca il libro.
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Valentina D'Urbano |
Ammetto di essere un po’ irritata con
questo romanzo, perché ho adorato i personaggi e mi dispiace vederli in una storia
che però non mi appassiona.
I personaggi, tutti quanti, sono
estremamente reali, anche quelli che vengono citati meno spesso. È come se
ognuno di loro avesse due facce: quella che vede la società e quella che ci
mostra l’autrice. Così la maggiore Anna passa dalla classica zitella che
nessuno si è preso a essere la donna che ha consapevolmente sacrificato la sua
felicità per la famiglia. Alan e Valentino passano da giovani criminali a
ragazzi cresciuti troppo in fretta, le cui responsabilità sono troppo grandi e
pressanti.
Credo che il mio personaggi preferito
sia, tuttavia, Vadim. Il fratello scemo. Forse perché mi ispira tenerezza, o
forse perché i suoi ragionamenti limpidi e sinceri mi hanno fatta sorridere.
Fatto sta che ho adorato leggere di lui, la sua sincerità infantile è
divertente e mi piace il fatto che, nonostante sia effettivamente ritardato,
non gli sia stata negata una parte importante nella storia, una parte come
quella di tutti gli altri personaggi. Ha i suoi crucci, le sue speranze, i suoi
problemi e pensieri, e l’essere un po’ scemotto non gli preclude pro e contro
della vita. Proprio come non lo fa nella realtà.
Un’altra cosa che ho apprezzato molto è
lo stile.
Non ho mai letto altro di Valentina
D’Urbano ma lo stile mi ha dato l’impressione di essere volutamente un po’
grezzo, come per voler avvicinarsi alla storia e ai personaggi, che certo non
sono raffinati o ricercati.
Mi piace il fatto che il modo di
scrivere si allinei al tipo di storia che leggiamo, perché è come immergervisi
ancora di più. Un po’ come ha fatto Dante con la Divina Commedia, tutto aulico
e compito nel Paradiso e più volgare e rilassato all’Inferno.
A questo punto sarei curiosa di leggere
altro della D’Urbano, giusto per capire se scrive proprio così o se cambia
registro a seconda della storia e dell’ambientazione.
Spero di non avervi annoiati con questa
recensione un po’ lunga, ma soprattutto spero di non avervi dissuaso a comprare
il libro nel caso lo aveste adocchiato in libreria. Non è un brutto libro,
semplicemente non piace a me. Ma penso sempre che se qualcuno lo ha scritto – e
indubbiamente se lo ha fatto lo ha anche amato – c’è qualcun altro che lo
leggerà volentieri e che potrà amarlo allo stesso modo.
Ho
solo sentito pareri positivi, in realtà, su “Quella vita che ci manca”, e forse
questo post sarà solo l’accezione che conferma la regola.