lunedì 30 marzo 2015

Cito testualmente #3

E siamo arrivati alla fine del mese, con l’ultima rubrica. Mi piace ‘Cito testualmente’, perché mi pare di arrivare alla fine di un percorso e poter trarre delle conclusioni.
Le citazioni, secondo me, hanno questo potere di dire tutto e niente. Possiamo leggerle e trovarci d’accordo, ma estrapolate dal loro contesto a volte hanno un significato diverso o diventano una di quelle frasi ad effetto da tirare fuori ogni tanto per fare colpo. Quello delle bad girls è uno di quei temi che portano ad una citazione di questo tipo.
Intanto io sono giunta alla conclusione di non essere una bad girl. Troppo faticoso, stancante, troppo finto e teatrale per i miei gusti. Ci ho provato quando avevo quindici o sedici anni, ma pian piano mi sono accorta che non faceva per me. Sono una brava ragazza, e la citazione che vi lascio me lo conferma: perché io adoro tenere questo blog, che è un po’ come un diario.
 
Sono le brave ragazze a tenere un diario. Le cattive non ne hanno tempo. ̴ Tallulah Bankhead
 
 

venerdì 27 marzo 2015

Se avessi un Tardis

Non sono una fan di “Doctor Who”, non l’ho mai guardato e non ho voglia di farlo perché, cacchio!, otto stagioni sono tante. Comunque so di cosa parla e so che il tanto amato Dottore viaggia con una cabina della polizia inglese, chiamata Tardis, dove e quando vuole.
Quindi ecco la mia grande idea: glielo chiederò in prestito! E con il Tardis potrò andare ovunque e incontrare tutti gli scrittori che voglio!
Ma chi sarebbero? Cosa potrei dire loro, e cosa farei assieme a loro? So che sembra incredibile, ma ci ho pensato seriamente. Ora non mi resta che contattare Il Dottore e farmi prestare questo Tardis.
 
Roald Dahl
Roald Dahl
La mia prima tappa sarebbe senza dubbio lui, l’idolo incontrastato della mia infanzia!
Se lo incontrassi gli offrirei un ricco pranzo e mi farei raccontare di quando era bambino e andava in vacanza a Oslo, di tutte le sue avventure nei collegi inglesi, e di quando ha fatto il pilota di aerei durante la Seconda Guerra mondiale.
 
J. R. R. Tolkien
Il posto in cui preferirei incontrarlo è l’Università dove insegnava, il suo ufficio di professore. Mi vestirei come un’allieva molto anni ’50, mi farei la coda di cavallo, prenderei un paio di libri sottobraccio, e mi avvierei lì.
Ho letto da qualche parte che Tolkien amava parlare dei suoi personaggi e delle sue storie tanto che, si dice, alla sua ennesima uscita sulla Terra di Mezzo un collega scrittore abbia esclamato: «Basta! Ancora con questi cavolo di elfi?!» Be’ Tolkien, non ti preoccupare, potrai trovare in me un’attenta e avida ascoltatrice.
 
Isabel Allende
Isabel Allende
Tornando nel presente, ci terrei molto ad andare a trovare Isabel direttamente a casa sua. Il vantaggio è che potremmo parlare in spagnolo (per quanto i miei parenti mi prendano in giro per il mio pessimo accento), e nel frattempo passeggiare sulla spiaggia, sulla riva dell’oceano.
Ho l’impressione che non le domanderei nulla sui suoi libri, perché i suoi sono di quelli sui quali vorrei tenere un’aura di mistero. Questo comunque non toglie che poi dovrebbe autografarmi una copia di “La città delle bestie”.
 
Jane Austen
Chiaramente, questa è una tappa obbligata. Prima o poi doveva saltare fuori.
Credo che lei sia l’autrice che più avrei curiosità ad incontrare per conoscere il suo carattere. Non si può negare che, oltre ad una grande scrittrice, sia stata una donna insolita. Mai sposata, decide di intraprendere una carriera che, all’epoca, era tutta maschile.
L’immagino come una persona forte e determinata, consapevole del proprio ruolo ma decisa a ottenere tutto ciò che può. Andremmo in una sala da tè e faremmo merenda con tè e biscotti, molto british.
 
Clive Barker
Clive Barker
Okay, lo ammetto. Andrei da lui solo per rubare uno dei suoi quadri (possibilmente quello che ritrae tutte le isole di Abarat, da appendere esattamente al centro del salotto!). Tuttavia mi sembra anche un ottimo candidato per uscire a bere qualcosa. Faremmo tardi al bar e parleremmo di libri e di arte tutta la sera!
 
J. K. Rowling
Anche questo, si sapeva, era scontato.
Metterei la Rowling sotto di brutto, perché prima dovrebbe autografare tutti e sette i miei libri di Harry Potter, poi la costringerei a rivelarmi gli oscuri segreti di ogni personaggio e, infine, ad organizzare una pizzata con gli attori dei film.
(Ma com’è che ci metto sempre in mezzo il cibo?! Fermatemi.)
 
Dante
Potrei risultare poco popolare, fra gli studenti, o fin troppo scontata per i letterati. Rimane il fatto che se potessi andrei subito a trovare Dante. Magari niente cibo in questa occasione, perché devo ammettere che le bettole fiorentine del 1300 non mi allettano molto.
La cosa che mi piacerebbe più di tutte è sfatare, anche per me, questo mito di Dante. Non perché non sia un autore notevole, ma perché è stato anche un semplice uomo. Lo conosco come autore, come grande della letteratura italiana, appunto come mito. Mi piacerebbe, quindi, incontrare l’uomo nella sua semplicità.
 
Stephen King
Stephen King
Dato che fare tutti questi viaggi da sola sarebbe noioso, mi sembra giusto farmi accompagnare da qualcuno. Sceglierei Il Fidanzato, dato che mi appoggia in tutto, e poi non mi sembra giusto negargli dei viaggi nello spazio-tempo storico, quando un Tardis ci viene offerto con così tanta generosità.
Per premiarlo della sua pazienza e bontà – perché non è mica da tutti mettersi in frac per Jane Austen e in palandrana da contadino medioevale per Dante – lo porterei a conoscere Stephen King, il suo autore preferito. Penso che andrebbero d’accordo, passerebbero tutto il tempo a parlare di musica metal.

mercoledì 25 marzo 2015

“Ogni giorno come fossi bambina” – Michela Tilli

Poco fa ero in penuria di libri e, evidentemente preoccupato per il mio stato mentale, Il Fidanzato ha deciso di regalarmene uno. E cosa c’è di meglio per una lettrice senza libri (non pensate sconcezze, eh)?! Comunque mi sono fiondata su questo libro come un affamato farebbe su un cosciotto di agnello.
Sapevo già di cosa parlava la storia, perché l’ho usata per una rubrica di Gennaio, tuttavia non mi aspettavo certo che sarebbe stato così emozionante. L’ho letto d’un fiato e poi l’ho guardato come se avessi fra le braccia un tesoro, in realtà reggevo fra le mani “Ogni giorno come fossi bambina”, di Michela Tilli.
 
Arianna ha diciassette anni e crede di essere una vergogna per la sua famiglia perché è stata bocciata a scuola, passa tutto il giorno al computer a curare il suo blog e la sua cerchia di amici virtuali, ma soprattutto perché è grassa. Non riesce a comunicare con i suoi genitori né tantomeno con suo fratello, così come non ce l’ha fatta con i compagni di classe e gli insegnanti. L’unico momento in cui è veramente sé stessa, in cui esprime davvero ciò che pensa e dice a voce alta e senza paura ciò che prova, è quando ha lo schermo a proteggerla. Lo schermo copre il suo corpo troppo tondo e la sua vita, così breve, ma già così piena di rimpianti e sbagli, secondo Arianna.
Argentina ha passato gli ottanta, è sola, vedova, e con una figlia ingombrante che la considera una vecchia che sta cominciando a perdere qualche rotella, di cui deve prendersi cura come si fa con un bambino. Non le lascia i suoi spazi, la sua privacy, e anche se nessuno lo ha mai detto apertamente sembra che sia sua figlia a decidere per lei che cosa Argentina può o non può fare.
Le vite di queste due donne si incrociano quando la badante di Argentina lascia il lavoro, punta da un’affermazione acida dell’anziana signora. I genitori di Arianna prendono al volo l’occasione per smuovere la vita della figlia, in maniera alquanto scioccante per lei: le sequestrano il computer, lo installano a casa di Argentina, e le dicono che potrà usarlo solo durante le ore di lavoro, cioè quando andrà a casa della signora a darle una mano con le pulizie, cucinare, e farle compagnia.
La convivenza non è facile, ma se per Argentina avere quella ragazza in casa è a volte un fastidio e a volte un vero aiuto, per Arianna diventa una situazione curiosa. Si rende presto conto che l’anziana signora nasconde qualcosa, che a volte è guardinga, nervosa, e la manda via con delle scuse per rimanere sola in casa.
Un giorno Arianna scopre delle lettere nascoste in un armadietto. Lettere d’amore inviate da Grassano, il paese in cui Argentina è nata, e scritte da e per l’uomo di cui lei era innamorata prima di sposare suo marito e trasferirsi a Milano. Ora che il suo segreto è stato rivelato, Argentina avrà il coraggio di partire? E Arianna saprà destreggiarsi in un viaggio che richiede decisione e una non comune faccia tosta?
 

Michela Tilli
Ammetto di essere di parte nel recensire questo libro, e forse mi ha coinvolta più del normale perché anche io, qualche anno fa, per un po’ ho fatto compagnia ad una signora anziana. Non c’è stato modo di scoprire se scambiasse o meno lettere d’amore con qualcuno, perché ci sono stata appena una settimana, tuttavia mi ricorderò per sempre l’esperienza perché è stata noiosissima e un po’ terrificante.
Ho riconosciuto molta verità in questo romanzo: la timidezza e l’insicurezza di Arianna, la scontrosità di Argentina e le debolezze dovute all’età. Michela Tilli è riuscita a mostrare i sentimenti e le emozioni di due donne ai poli opposti della vita con grande empatia e naturalezza. Entrambe le protagoniste ci sono chiare nel loro modo di pensare e nei loro timori. Se anche non ci troviamo in nessuna delle due fasce d’età (anche se io sono più vicina ad Arianna e probabilmente anche per questo mi sono immedesimata molto in lei) ci sono chiare le difficoltà di entrambe ed è facile capirle.
Argentina vuole tornare nel paese dove è nata, che ha amato, e vedere quel ragazzo con il quale da giovane scambiava nient’altro che occhiate innocenti. Ma come sarà incontrarsi da vecchi? Lui avrà una famiglia, una moglie, dei figli, una storia, e che diritto ha lei di andare lì e oltrepassare quelle lettere, farsi vedere e diventare reale? E Arianna, che vede la sua vita già a soli diciassette anni un completo fallimento, bocciata a scuola e con un aspetto che non le piace avere. Non riesce a parlare francamente con le persone, non riesce a farlo nemmeno con la sua famiglia, e l’angoscia l’idea di affrontare un viaggio con Argentina, un viaggio di cui lei dovrà tenere le redini.
 
Per concludere degnamente questa recensione e smettere di blaterare su questo libro – perché, lo sento, potrei proseguire per ore – non posso fare altro che consigliarvi caldamente di leggerlo. Non ci sarà passaggio o frase che non rispecchi in pieno l’umana natura e sentimenti che cono comuni a tutti noi.
E, detto questo, vado a cercare informazioni su altri libri di Michela Tilli.

lunedì 23 marzo 2015

Tra le righe #3: Lisbeth Salander

Ero piuttosto indecisa sul personaggio ideale della bad girl, non tanto perché non ce ne siano, ma perché ne volevo una veramente tosta e allo stesso tempo reale. Alla fine è stato qualcun altro a scegliere per me, e cioè il sito “Parole a colori”.
“Parole a colori” è un sito che seguo spesso, anche se mi interesso alla sezione dedicata ai libri e alla narrativa e basta (ma se anche le altre sono ricche, interessanti e curate come quella dedicata ai libri senz’altro vale la pena dargli un’occhiata). Qualche tempo fa, leggendo i nuovi articoli, ho scoperto che la fortunata trilogia Millennium, di Stieg Larsson, verrà continuata da un altro autore.
I primi tre libri erano infatti, nelle intenzioni di Larsson, una sorta di preludio ad una serie composta da ben dieci volumi. Protagonista sempre Lisbeth Salander, aiutata dal giornalista e amico Mikael Blomkvist.
Chi mi conosce sa che “Uomini che odiano le donne” è stato il libro che mi ha fatto capire quanto i gusti personali possono essere bellamente ignorati di fronte ad un buon libro. Non mi sono mai ritenuta un’appassionata lettrice di gialli o thriller, tuttavia ho amato questa serie, che mi ha presa moltissimo dall’inizio alla fine (come dimenticare le barriere di zaini che costruivo a scuola, sul banco, per nascondermici dietro e leggere “La ragazza che giocava con il fuoco”? Awww... bei ricordi!).
Essendo Larsson deceduto a causa di un attacco cardiaco ormai più di dieci anni fa, qualcuno ha pensato bene di affidare la stesura dei suoi romanzi ad un altro autore, lo svedese David Lagercrantz, che basandosi sugli appunti che lo scrittore ha lasciato pubblicherà gli altri libri. La sua fatica ha già un titolo, “Ciò che non uccide”, e una data di pubblicazione mondiale, il 27 Agosto. Non mi dilungo a dire cosa ne penso, credo che aspetterò di leggere il romanzo – o di schifarlo, ancora i miei sentimenti non sono chiari nei suoi confronti.
Il punto della situazione è questo, comunque: Lisbeth Salander. Si è insediata nel mio cervello e non vuole saperne di uscire. Qualsiasi altra candidata alla rubrica sembra troppo buona a paragone suo, o troppo esagerata fino ad essere una caricatura. Quindi parliamo di Lisbeth Salander, e speriamo che dopo la rubrica esca dalla mia testa.
 
Lisbeth Salander interpretata da Noomi Rapace
Nome: Lisbeth Salander
Libro: Trilogia Millennium
Immaginato da: Stieg Larson
Segni particolari: un enorme drago tatuato lungo tutta la schiena e un’espressione poco amichevole.
 
Dall’aspetto al suo modo di rapportarsi con gli altri, Lisbeth Salander non fa una buona impressione. Ma lei vuole così. Lo stile gotico-punk dei suoi vestiti la fa sembrare subito una bad girl, e scopriamo che lo è non solo nell’aspetto quando vediamo che il suo lavoro consiste nell’hackerare computer per scovare informazioni riservate. Oppure quando scopriamo il suo liberismo sessuale, o le sue amicizie particolari come quelle con altri hacker, pugili in pensione, spogliarelliste o giornalisti che lo stesso stato vuole eliminare.
Ma non è solo questo. Leggendo scopriamo il perché Lisbeth è la persona che è diventata. Il suo passato è fosco, non libero da accuse di prostituzione, di aggressione, di assunzione di sostanze illegali, ma si può attribuire il tutto ad una famiglia poco attenta? La risposta ci viene data da Larsson soprattutto nel secondo libro. Lisbeth Salander è figlia di una spia dell’est Europa rifugiata in Svezia, un uomo violento e malvagio, che maltratta la madre di Lisbeth fino a danneggiarle il cervello, e tuttavia lo stato continua a proteggerlo per assicurarsi i suoi servigi. Dopo che le autorità le voltano le spalle, Lisbeth, alla sola età di undici anni, capisce che solo lei può rendere giustizia a sé stessa, e se necessario è disposta a farlo anche con mezzi non convenzionali.
Per correttezza ho messo anche l'interpretazione di Rooney Mara,
anche se per me Lisbeth avrà sempre il volto di Noomi.
Questa è la parte della bad girl, ma il vero motivo per cui ho scelto Lisbeth Salander per la rubrica è che, nonostante sia una cattiva ragazza in tutto e per tutto, con certi comportamenti sfugge ai canoni prefissati del personaggio e diventa una personalità reale. Ad esempio quando la sorprendiamo ad osservare Mikael Blomkvist con ogni sognanti da ragazzina innamorata, o quando si prende cura del suo vecchio tutore colpito da ictus come farebbe una figlia, o ancora quando tenta in maniera impacciata di riallacciare i rapporti con i suoi amici dopo una lunga assenza. La Lisbeth Salander che crediamo di conoscere si sfalda, allora, e prende le sembianze di una persona diversa, di una persona vera.
Questo personaggio mi è sempre piaciuto, perché è «la donna che odia gli uomini che odiano le donne». Credo che sia uno di quelli su cui ho veramente poco da ridire. Anzi, a pensarci bene, non ho nulla da ridire su Lisbeth Salander, il che è incredibile. Posso solo sperare, però, che i prossimi romanzi, pur non essendo firmati da Stieg Larrson, siano altrettanto coinvolgenti e non snaturino questa eroina che ho amato tanto.

mercoledì 18 marzo 2015

L'ingrediente segreto

Ammetto di avere dei gusti particolari in fatto di libri. O meglio, di non essere quasi mai soddisfatta al cento per cento. Trovare un libro che mi affascini completamente è difficile, perché ci sarà molto spesso qualcosa che secondo me poteva essere evitato o fatto meglio.
Un po’ è sfortuna essere così dannatamente pignoli (o snob, se preferite), perché capita sempre meno spesso di trovare un libro nel quale immergersi senza riserve. Uno di quelli che finisci di leggere con gli occhi sognanti e che chiudi con rammarico, chiedendoti come mai è finito così in fretta ma sapendo che quella è la fine giusta.
Forse questa pignoleria è dovuta al fatto che leggo molti libri. In effetti è normale, per una persona che legge molto, diventare di gusti difficili ed essere sempre meno stupefatta davanti a certi stili, racconti, personaggi, che per un lettore ‘occasionale’ sono originali ma per chi ha già letto molto sono qualcosa di già conosciuto.
Dopo aver chiuso l’ennesimo libro soddisfatta e allegra, ma non propriamente invasa da quel senso di felicità che ci prende quando finiamo un libro che ci ha rapiti, mi sono fatta delle domande. Che cosa deve avere un libro per piacermi?
Darmi una risposta è stato difficile, ma alla fine ce l'ho fatta! Ecco a voi i miei sforzi...
 
Un po' di atmosfera prego...
 
Originalità
Oggi giorno scrivere qualcosa di davvero originale è difficile.
Gira e rigira, alla fine si trovano trame simili se non addirittura uguali. Somigliano a quelle di altri libri, o prendono ispirazione dalla storia dell’uomo oppure somigliano – guarda un po’ – a quel vecchio film che ci è capitato di vedere una volta in tv.
Penso che l’originalità ormai non sia più nelle trame quanto nei dettagli di un libro, nelle piccole cose. Possono essere luoghi di fantasia mai esplorati, personaggi interessanti o il fulcro della trama che ruota attorno a qualcosa di particolare, ma è quasi certo che ci saranno analogie o somiglianze ad altre storie.
Nel complesso, tutti i libri o quasi potrebbero essere catalogati sotto un genere in particolare, ma ci sono dettagli che li portano ad essere non solo il genere nel quale la libreria lo ha relegato, ma qualcosa di più.
 
Veridicità
Una cosa che, a mio parere, è molto importante in un libro, è il rispetto per l’universo che l’autore ha creato. L’essere veritieri. Il far sì che la storia che stiamo leggendo possa davvero essere accaduta.
Con questo non intendo dire che i libri fantasy o fantascientifici sono esclusi da quelli che considero buoni romanzi, non stiamo parlando di ciò che è possibile, ma di ciò che potrebbe esserlo anche se si parla di un mondo immaginato.
Persino un libro ambientato nel nostro paese e ai giorni nostri può essere incoerente con sé stesso e risultare un pessimo romanzo, magari perché succedono cose assurde, come gli eroi che scappano da una cattedrale vecchia di centinaia di anni prendendo a pugni una parete (l’ho visto accadere, sul serio). Allo stesso tempo un romanzo fantasy può essere più reale, poiché vediamo che il cavaliere non riesce a volare sul suo drago a causa di escoriazioni causate dalle squame dell’animale o simili altri piccoli dettagli che danno alla storia un sapore di realtà.
 
Il cuore della trama
Leggendo, mi sono resa conto che preferisco di gran lunga i romanzi che hanno un centro, un fulcro, una ragione che muove tutto il resto. Non mi piace invece quando il libro che leggo è una serie di scene che, seppur descrivano la vita dei personaggi e il modo di rapportarsi fra loro, non portano a nulla.
Preferisco i libri ‘a puzzle’, ossia i libri che non possono rimanere senza un tassello, che senza una determinata cosa non sarebbero più completi, non avrebbero più senso. Se mi capita di leggere un capitolo per poi pensare che, anche senza di lui, il racconto funziona benissimo, allora c’è qualcosa che non va. Se i tasselli che si possono eliminare diventano troppi, il libro non rientra decisamente fra i miei preferiti.
 
 
Queste sono le tre cose fondamentali che un libro deve avere per piacermi. Attenzione però, perché pensandoci bene posso elencarvi centinaia di libri che rispettano questi canoni e che, tuttavia, non sono fra i miei preferiti o non mi hanno colpita più di tanto.
Sono giunta alla conclusione che manchi un quarto elemento all’insieme.
L’ingrediente segreto.
Ovvero il motivo per il quale non sappiamo spiegare perché un libro ci piace tanto. Perché funziona così anche nella vita, no? Quando amiamo qualcuno non riusciamo a spigare bene agli altri come mai. Ne elenchiamo i pregi, gli adorabili difetti, ma qualcosa sfugge sempre alla nostra spiegazione e non riusciamo mai a far capire davvero perché quella persona è tanto speciale per noi.
Quella cosa è l’ingrediente segreto. Non si può definire, non è mai uguale per tutti e cambia a seconda di come ci sentiamo e di come siamo. Non è sempre individuabile, ma quando c’è si sente la differenza. Quando c’è, quel libro diventa il più bello che abbiamo mai letto.

lunedì 16 marzo 2015

Sono scrittore #3: Kathy Acker

Per il tema della bad girl ho fatto un sacco di ricerche, e devo dire che mi è piaciuto molto. Alcuni potrebbero prendermi per pazza, ma mi ha fatto quasi rimpiangere la scuola. Adoravo fare ricerche, era uno dei miei compiti preferiti oltre i temi e i disegni (liceo artistico power!). Sono felice di aver trovato un altro motivo per fare ricerche, questo blog mi dà sempre più soddisfazioni!
A parte questo oggi vi parla di una bad girl autrice di libri, che con i suoi romanzi e il suo modo di fare schietto, senza peli sulla lingua, ha sconvolto buona parte della società occidentale benpensante. Vi parlo di Kathy Acker.
 
 
Nata a New York nel 1947, Kathy Acker ha sempre dimostrato di essere una persona fuori dagli schemi. Da bambina andava matta per i pirati, si domandava perché non potesse essere come loro, e perché non esistessero pirati donne. Fu proprio questa sua passione ad avvicinala ai libri e alla lettura: solo nei libri si potevano trovare dei veri pirati, delle avventure mozzafiato, e solo con i libri poteva fuggire da un mondo nel quale si sentiva oppressa.
Dopo gli studi, la Acker non intraprese subito la carriera letteraria. Sappiamo che ha lavorato come stripper, forse per bisogno o forse un po’ per sfidare le convenzioni sociali e familiari. Ha infatti sempre avuto un rapporto conflittuale con la madre, che l’avrebbe voluta la classica ragazza a modo, e forse proprio questo ha spinto la Acker ad essere più pirata possibile. Non ha mai lesinato su tatuaggi e piercing, e si dice fosse bisessuale nonostante si sia anche sposata – più di una volta.
Del tutto a suo agio anche con l’avvento di internet e quella sorta di libertà di espressione che porta con sé, Kathy Acker pubblica online i suoi lavori, senza censurarsi ma non senza provocare scandalo, tanto che l’America On Line aveva cancellato i suoi lavori dalla rete. Tuttavia la Acker non si arrende e, grazie ad alcuni amici, viola i sistemi e pubblica nuovamente i suoi lavori sul web, guadagnandosi anche l’appellativo di “literary terrorist”.
Nel 1996 Kathy Acker si ammala di cancro al seno e muore l’anno successivo a Tijuana, Messico, ma non senza aver cercato medicine alternative e aver pubblicato saggi sull’inefficienza dei medici e della medicina occidentale.
 
 
Grazie alla sua fame di lettrice entra in contatto con moltissimi autori, stili narrativi e tematiche dei più svariati. Fra le sue influenze ci sono soprattutto autori americani, il più apprezzato dei quali dev’essere stato William S. Burroughs, del quale riprende infatti diverse tecniche. Ci sono poi i movimenti letterari degli anni ’50 e ’60, come il gruppo del Black Mountain College e il movimento Fluxus, gruppi di artisti moderni e visionari, decisi a rompere tutte le regole sino ad allora inventate e seguite. Oltre a questi troviamo anche il femminismo francese e autori classici europei fra le influenze della Acker, che riempie i suoi romanzi di modernità senza tralasciare i classici.
Le tecniche narrative che utilizza sono sperimentali, come cut-up e pastiche, che riprendono il dadaismo degli anni ’20 e consistono nel mischiare varie parole apparentemente a caso per formare un testo. La Acker si rifà molto anche alle sue stesse esperienze biografiche, usando però ironia e immagini forti.
I temi da lei più utilizzati sono la violenza, il suicidio, il masochismo, le diversità sessuali, usati come esercizio del potere del più forte sul più debole. Ciò che si ripropone è analizzare i ruoli femminile e maschile nella letteratura e nella società, dando la sua versione dei fatti, la sua opinione, e sa che il miglior modo per farsi sentire è attirare l’attenzione grazie ad uno stile personale e unico.
La prima opera della Acker risale al 1972, è “Politics”, una raccolta di saggi e poesie. La critica ignora questo libro ma ad accoglierlo con calore è la scena punk rock di New York, in mezzo alla quale l’autrice si fa conoscere.
Il successo vero arriva con un re-telling del classico di Dickens “Grandi speranze” (1983), al quale seguono alcuni lavori dello stesso stampo, ma anche romanzi curiosi e affascinati, come “My death My life by Pier Paolo Pasolini” (1987) nel quale il regista in prima persona narra la sua morte e ne risolve il caso.
 
Non conoscevo quest’autrice ma quando ho letto la sua biografia mi è parsa subito adatta per la rubrica.
Una bad girl in tutto e per tutto, nella vita e nella scrittura. Non ho mai letto nessuno dei suoi romanzi (anche se ora che la conosco, chissà, potrei trovare qualcosa che mi incuriosisce) ma, indipendentemente da questo e dai gusti letterari, oggi ci vorrebbe proprio un voce forte che dice quello che pensa senza peli sulla lingua.

mercoledì 11 marzo 2015

Quella vita che ci manca - Valentina D'Urbano

La sincerità è ciò che vorrei ci fosse alla base del blog – così come vorrei che fosse alla base di ogni cosa ma, be’, comincio dal mio piccolo. Sono sincera nelle recensioni, quando parlo della blogosfera, quando parlo di me e così voglio continuare a fare.
È facile essere sinceri quando si recensisce un libro il cui autore è straniero, o morto, o ha scritto un libro fantastico e noi non facciamo che aggiungere lodi ed altre lodi. Diventa un po’ più complicato quando l’autore ci invia un suo scritto, quando lo conosciamo o magari è un nostro amico.
Forse sono io l’unica paranoica, e anche questa volta mi sto fasciando la testa prima di rompermela. Il fatto è che ci rimango male a dire a qualcuno che non mi piace qualcosa che ha scritto, disegnato o ideato, perché so quanto impegno ci si mette e quanto fegato ci vuole per sottoporre quest’idea ad altri e stare a sentirne le critiche.
Non conosco affatto l’autrice di cui sto per recensire il libro ma dato che è italiana, vivente, e probabilmente ha contatti quotidiani con il web in quanto non è a far compagnia a Harper Lee in una casa di riposo, ho l’ansia che possa in qualche modo arrivare a questo minuscolo blog e leggere questo minuscolo post. E scoprire che non le piace affatto ciò che penso del suo libro. D’altra parte mi dico che gli autori sono abituati a critiche belle e brutte, e che la mia sarà sicuramente “un granello di polvere nell’occhio di un gigante”.
Quindi mi rimbocco le maniche e mi appresto a recensire “Quella vita che ci manca”, di Valentina D’Urbano.
(Tanto non lo leggerà mai!)
 
Siamo alla periferia di Roma, a metà degli anni ’90, nel quartiere più malfamato che possiamo immaginare: la Fortezza. Non è un nome scelto a caso, perché il quartiere ha davvero muri e sentinelle all’ingresso, e se hai la faccia di uno che non dovrebbe essere lì ti sparano e tanti saluti.
Qui è dove vive la famiglia Smeraldo, in una casa occupata dove manca spesso la luce, il gas, e tutto ha una patina di vecchio e usurato. Persino quelli che vivono lì hanno un’aria usurata. Letizia, madre di quattro figli avuti da tre padri diversi. La primogenita Anna, trent’anni e un destino di solitudine già scritto. I fratelli Alan e Vadim, l’uno spietato e l’altro ritardato. E infine il più piccolo, Valentino, che nonostante il degrado in cui vive e la sua vita spietata, conserva una dolcezza e una sensibilità rari nelle persone.
La famiglia Smeraldo si arrangia come può, ma chi porta i soldi veri a casa sono Alan e Valentino che, ormai specializzati in furti di merce e auto, escono di notte con la scusa di aver trovato un lavoro come guardiani notturni. La vita sembra già decisa, perché chi abita alla Fortezza ha solo due possibilità: fuggire a dispetto di tutti, pensando solo ai propri interessi, o vivere come già fanno gli Smeraldo.
Le cose cambiano per Valentino quando incontra Delia, una ragazza che si è trasferita a Roma da poco. Più grande di lui e con una vita differente, fuori dalla Fortezza, la vita che Valentino sogna e che non osa prendersi. Il ragazzo la conquista nonostante la sua reticenza e Delia riesce ad andare oltre alle apparenze e a conoscere chi si cela dietro l’aria da criminale di Valentino. Nonostante mentalità diverse e desideri opposti i due riusciranno a convivere, per incamminarsi assieme verso un destino che si scriveranno da soli.
 
Ho trovato serie difficoltà nello scrivere questo piccolo riassunto, e qui principalmente sta il difetto del libro. La trama è inconsistente.
Probabilmente è un fatto di gusti, ma l’ho trovata veramente povera. Non esiste un vero fulcro della storia, non ci sono reazioni di causa-effetto se non alla fine – e per fine intendo proprio le ultime venti pagine. Leggiamo per oltre duecento pagine di furti, liti in famiglia, del degrado, della sofferenza, delle piccole felicità, per poi ricominciare daccapo. Purtroppo alla lunga stancano, e non perché lo stile, la storia, o la scena che leggiamo in sé, ma perché non hanno un motivo per essere scritte.
Facciamo un esempio di un altro tipo. Nei film di Quentin Tarantino ci sono spesso dialoghi apparentemente inutili fra i protagonisti, su argomenti che nulla avranno a che vedere con il film e la trama, ma sono fatti per far capire allo spettatore il rapporto che intercorre fra due personaggi. In “Quella vita che ci manca” è come se ogni scena fosse stata scritta con quello scopo. Ma a pagina settanta direi che ho intuito com’è la famiglia Smeraldo, il loro background e la loro storia, e ora voglio sapere se succederà qualcosa!
Probabilmente si tratta di gusti e basta, ma personalmente mi piace vedere i personaggi agire in base a qualcosa, e reagire di conseguenza ad un fatto. Ad esempio Harry Potter vuole uccidere Sirius Black perché pensa che abbia tradito i suoi genitori. Non Vadim fugge di casa per vedere la ragazza di cui si è innamorato e la cosa finisce in nulla. Il libro è tutto un susseguirsi di “finisce in nulla” fino alla fine, dove finalmente abbiamo degli ingranaggi che si muovono tutti assieme a formare una storia. Le scelte dei personaggi portano a conseguenze, che si intrecciano con le scelte di altri personaggi e così via, come un cesto di vimini che senza una fascetta si sfalda.
Peccato che il tutto duri una ventina di pagine e poi finisca il libro.
 
Valentina D'Urbano
Ammetto di essere un po’ irritata con questo romanzo, perché ho adorato i personaggi e mi dispiace vederli in una storia che però non mi appassiona.
I personaggi, tutti quanti, sono estremamente reali, anche quelli che vengono citati meno spesso. È come se ognuno di loro avesse due facce: quella che vede la società e quella che ci mostra l’autrice. Così la maggiore Anna passa dalla classica zitella che nessuno si è preso a essere la donna che ha consapevolmente sacrificato la sua felicità per la famiglia. Alan e Valentino passano da giovani criminali a ragazzi cresciuti troppo in fretta, le cui responsabilità sono troppo grandi e pressanti.
Credo che il mio personaggi preferito sia, tuttavia, Vadim. Il fratello scemo. Forse perché mi ispira tenerezza, o forse perché i suoi ragionamenti limpidi e sinceri mi hanno fatta sorridere. Fatto sta che ho adorato leggere di lui, la sua sincerità infantile è divertente e mi piace il fatto che, nonostante sia effettivamente ritardato, non gli sia stata negata una parte importante nella storia, una parte come quella di tutti gli altri personaggi. Ha i suoi crucci, le sue speranze, i suoi problemi e pensieri, e l’essere un po’ scemotto non gli preclude pro e contro della vita. Proprio come non lo fa nella realtà.
 
Un’altra cosa che ho apprezzato molto è lo stile.
Non ho mai letto altro di Valentina D’Urbano ma lo stile mi ha dato l’impressione di essere volutamente un po’ grezzo, come per voler avvicinarsi alla storia e ai personaggi, che certo non sono raffinati o ricercati.
Mi piace il fatto che il modo di scrivere si allinei al tipo di storia che leggiamo, perché è come immergervisi ancora di più. Un po’ come ha fatto Dante con la Divina Commedia, tutto aulico e compito nel Paradiso e più volgare e rilassato all’Inferno.
A questo punto sarei curiosa di leggere altro della D’Urbano, giusto per capire se scrive proprio così o se cambia registro a seconda della storia e dell’ambientazione.
 
Spero di non avervi annoiati con questa recensione un po’ lunga, ma soprattutto spero di non avervi dissuaso a comprare il libro nel caso lo aveste adocchiato in libreria. Non è un brutto libro, semplicemente non piace a me. Ma penso sempre che se qualcuno lo ha scritto – e indubbiamente se lo ha fatto lo ha anche amato – c’è qualcun altro che lo leggerà volentieri e che potrà amarlo allo stesso modo.
Ho solo sentito pareri positivi, in realtà, su “Quella vita che ci manca”, e forse questo post sarà solo l’accezione che conferma la regola.
 
 

lunedì 9 marzo 2015

Segna(la)libro #3: “Ragazze cattive”, di Joyce Carol Oates

Il tema delle rubriche di questo mese è proprio quello del titolo del libro che vado a segnalarvi: le ragazze cattive.
La figura della bad girl, che va contro le regole e sembra divertirsi a farlo, è una delle più antiche della letteratura. Personalmente penso che sia sempre un personaggio affascinante e, se reso bene dall’autore, molto efficace. Come ogni personaggio un po’ precostruito, che conosciamo già e dal quale ci aspettiamo determinate cose, rischia sempre di cadere nel banale o nell’esagerazione, e diventare grottesco. Tuttavia in una società dove tutti ci aspettiamo che la figura femminile sia principalmente buona e dolce, la cattiva ragazza fa sempre un certo effetto.
Per introdurvi nel mondo delle bad girls inizio con il presentarvi un romanzo che parla proprio di loro. Ma attenzione, perché qui non stiamo per conoscere cattive ragazze solo nell’apparenza, ma quelle cattive sul serio.
Joyce Carol Oates (1938 – ancora in vita) è famosa per essere una delle autrici americane più prolifiche. Scrisse “Foxfire: confessions of a girl gang”, titolo originale del libro, nel 1993 e il successo fu tale che ad oggi ne sono stati tratti due film.
 
La storia di una ‘gang’ al femminile nella provincia americana degli anni cinquanta. Cinque ragazze con un passato difficile, legate dallo stesso desiderio di fratellanza e ribellione, arse da un’indomabile furia liberatrice. Maddy Monkie, cronista del gruppo, Goldie, che dietro la femminilità nasconde un temperamento esplosivo, Lana, bionda tipo Marilyn, Rita, timida e umiliata, ma soprattutto Legs Sadowsky, eroina indistruttibile, la cui intelligenza nutrita di rabbia e spirito di vendetta, fa di lei una rivoluzionaria. Un sodalizio totale, che è patto di difesa e di aggressione contro il cuore buio della società americana, dove si annidano violenza, maschilismo e discriminazione.
 
 
Ho scelto questo libro, fra tutti, perché ne conosco la storia. Avevo visto il film del 2012, più fedele a quanto pare della versione degli anni ’90 con protagonista Angelina Jolie, ma non avevo idea che fosse tratto da un libro. L’ho scoperto facendo ricerche per il tema di questo mese, così dato che il film mi aveva colpita ho deciso di segnalarvi il romanzo.
Confesso di essere molto curiosa anch’io perché il film, sebbene all’inizio mi sembrasse strano e insolito, mi ha affascinata. La storia è avvincente, i personaggi ben caratterizzati e l’atmosfera che si crea è di impalpabile ansia. Sembra che debba succedere qualcosa di incredibile e catastrofico da un momento all’altro.
Spero che anche il libro sia così, e in realtà dal romanzo mi aspetto molto di più. Intanto se qualcuno di voi lo ha già letto può dire che ne pensa, oppure se la trama vi ha incuriosito… be’, non vi resta che leggerlo.
 
Joyce Carol Oates
 

venerdì 6 marzo 2015

Blogghismo e femminismo

Ebbene dopo aver ceduto alla curiosità e aver letto il libro, ho di nuovo ceduto alla curiosità e guardato il film. Attenzione, mica scaricato in formato pirata e guardato al buio nella solitudine della mia casa. No, l’ho visto al cinema, assieme alle mie amiche! Quando ti promettono una serata fra donne così divertente grazie solo ad un film, che fai, non ne approfitti?
Sì, sto parlando di “Cinquanta sfumature di grigio”.
 
So che ci sono già centinaia di recensioni nel web riguardo questo film, ma questa non è una di quelle. Ci tengo a precisarlo, perché a quanto pare leggendo in giro si trovano solo lunghissimi scritti che criticano brutalmente il film e che probabilmente non sono interessati tanto a scrivere la recensione quanto alle visualizzazioni e ai commenti che questa riceverà.
Ovviamente è bello ricevere commenti, è bello che qualcuno legga ciò che scriviamo. Ma scrivere qualcosa non per il gusto di farlo o di condividere piuttosto che per i commenti non è onesto a mio parere. Sapete cos’hanno in comune tutte le recensioni sul film di “Cinquanta sfumature di grigio” che ho letto? Sono tutte sarcastiche e cercano di essere taglienti e spiritose – non sempre riuscendoci, tra l’altro.
Questo, si capisce, per ammiccare al lettore. Per fargli capire che quello che sta leggendo è un post innovativo, divertente, che segue le mode del momento e lo fa con ironia. Così il lettore di blog pensa: «Caspita! Dovrei proprio seguire questo sito così divertente e interessante!»
Tuttavia dopo la centesima recensione uguale alla prima che ho letto penso che tutti questi blog non sono poi così interessanti né innovativi, sono solo alla ricerca del post che gli darà notorietà. La qualità di questi blog non può quindi che essere pessima, diciamocelo. Perché quando scrivi qualcosa perché sembra facile e popolare ma non perché ti diverte allora c’è qualcosa di sbagliato.
 
Questa borsa riassume in due frasi tutto quello che io ho detto in trenta righe.
 
Tutto questo ragionamento per arrivare ad un semplice fatto: il film non è poi così male.
Nei giorni prima di andare a vederlo mi ero psicologicamente preparata ad una noia senza fine e ad un incazzatura bestiale, dato come mi aveva ridotto il libro. Invece poi sono uscita dal cinema e, be’, non si può dire che andrei a rivederlo e non credo che guarderò il seguito, ma le mie parole – e le mie amiche possono testimoniarlo – sono state «pensavo peggio».
Pensavo peggio perché da come ne parlavano sembrava che dovessimo andare a chiedere il rimborso del biglietto, e quelli del cinema non avrebbero battuto ciglio perché avrebbero capito il grado di cretinaggine che ci era stato proposto. Invece è stato guardabile, di sicuro non così male come lo hanno messo giù praticamente tutti, sul web, sui giornali, in televisione.
Ma andiamo con ordine.
 
Partiamo dal presupposto che non si può trarre un bel film da un brutto libro. La storia è identica a quella che ha scritto la James e, come il libro, mi ha procurato una rabbia non indifferente perché lui è uno stalker, esagerato e impiccione. Inoltre la storia è inverosimile perché si conoscono appena ma si comportano come se stessero assieme da anni. Tutte queste cose le sapevamo già, perché sono difetti del libro. Non si può incolpare il film per essergli stato fedele.
Fra le critiche che ho sentito in giro si parla della recitazione. Non è da premio Oscar, su questo non ci piove, ma ho visto gente recitare molto ma molto peggio. Forse lui non è il massimo, ma lei mi è piaciuta invece e, a chi ha fatto le critiche di turno, chiedo: «Ma voi come avreste reagito nell’entrare in una stanza piena di fruste e altri giochi sessuali sadomaso? Avreste urlato? Sareste scappati? Vi sareste messi a ridere?» Non si può fare altro che essere stupiti, vagamente affascinati e forse incuriositi. E questo ci è stato mostrato. Il film non è inverosimile per la tematica sessuale, ma perché è frettoloso, come il libro.
Una cosa che devo invece criticare al film è il nudo. Non che mi diano fastidio le scene di nudo – non sarei mai andata a vederlo altrimenti – ma è estremamente sessista. Passiamo un film intero a vedere ogni singola parte di lei, di lui solo le chiappe. Ora, non vorrei sembrare assatanata, ma perché di lui non possiamo vederlo, ‘sto fantomatico pisello che sembra essere il sogno erotico di ogni donna?! Solo per una questione di principio!
Perché il corpo della donna si può mostrare interamente nudo e quello dell’uomo no? Vediamo una vagina (che poteva anche darsi una rasatina, fra l’altro), non possiamo vedere anche un pene già che ci siamo? Tanto ormai…
Insomma, questa cosa mi ha dato immensamente fastidio. Non lo trovo equo, non lo trovo corretto nei confronti delle donne. Il film non parla di quello, ma inconsciamente e forse senza neanche volerlo insegna che il corpo della donna può essere mercificato, quello dell’uomo no. La donna non ha bisogno della privacy del proprio corpo, che non è importante, non importante come quella  del corpo maschile. La figura femminile non ha bisogno di essere coperta, può benissimo rimanere a nudo di fronte al mondo intero. Mentre quello degli uomini conserva ancora la sua privacy, e così il suo rispetto.
 
Non so cos’è diventato questo post. Un po’ si getta contro i blogger furbi e un po’ condanna il modo in cui viene ancora trattata la figura femminile. Un po’ difende e un po’ affonda “Cinquanta sfumature di grigio”, ma quello che volevo dire all’inizio in realtà è: questo è un film come un altro.
Siamo noi a renderlo un fenomeno, da soli lo innalziamo a molto più di quello che è e che vuole essere. Perché se togliamo il rumore che gli abbiamo creato attorno “Cinquanta sfumature di grigio” non è altro che un film d’amore. E per essere un film d’amore, non è neanche male.

mercoledì 4 marzo 2015

Hunger Games, Il canto della rivolta - Suzanne Collins

Come sempre quando c’è da recensire un libro molto discusso sono incerta e un po’ titubante. Se ne dicono talmente tante e il pensiero è stato talmente influenzato (il mio, poi, che vado a leggere recensioni da ogni parte, pfff!, figuriamoci) che dire qualcosa di nuovo o interessante è complicato. E come sempre io arrivo dopo, mooolto dopo.
Per quanto riguarda  “Il canto della rivolta” pensate che lo avevo in libreria da Luglio e non lo volevo leggere. Un po’ perché ho sempre preferito i film per svariate ragioni (accaniti fan del libro, non uccidetemi), un po’ perché non volevo che la trilogia finisse – che poi è la stessa ragione del perché ci ho messo cento anni a finirlo e altri cento per scrivere la recensione.
Non credo ci sia bisogno di fare un riassunto del libro, per quella piccola fetta che non lo ha ancora letto comunque sappiate che questo commento non è esente da spoiler.
 
Per quanto riguarda lo stile non mi dilungo: semplice, scorrevole, un libro per ragazzi come un altro. Non ci sono picchi di poesia ma nemmeno strafalcioni giganteschi. Si adatta al pubblico cui è dedicato.
Per quanto riguarda il resto, invece, ho parecchio da dire.
Una delle trovate più geniali della Collins è stata l’esistenza del Distretto 13. Senza la sua esistenza nessuno dei ribelli avrebbe potuto effettivamente combattere una rivolta. Sebbene ne avessero le motivazioni appaiono piuttosto spersi e ancora restii per un passo del genere. Il Distretto 13, con la sua organizzazione meticolosa, quasi maniacale e totalmente finalizzata alla guerra, è ciò che permette alla scintilla di divampare dopo che questa è scoccata.
Ho letto in giro di commenti del tipo: «Com’è possibile che i Distretti non si siano ribellati prima? Con tutto ciò che Capitol City ha fatto loro, e contando che la città dipende interamente dai Distretti per ogni piccola cosa, che ci voleva a ribellarsi?» A queste persone dico che la loro è una critica senza senso. Una ribellione avviene quando il popolo ne ha abbastanza, ma questo non significa che non debba raggiungere situazioni veramente critiche. Pensate alla Rivoluzione Francese: la popolazione è dovuta arrivare a morire di fame e di stenti e le classi non nobili subire parecchie umiliazioni prima di decidere di ribellarsi, eppure nessuno si chiede come mai non l’abbiano fatto prima.
Una cosa che non mi è piaciuta molto del libro è stata la strategia militare – se così si può chiamare. Le motivazioni e i modi per le quali i ribelli si muovono, militarmente parlando, sono poco chiare. Durante tutta la narrazione non mi è mai stato chiaro il perché facessero certe manovre piuttosto che altre, né che cosa ne guadagnassero se è per questo. L’unico momento in cui tutto si è capito perfettamente è stato durante la presa del Distretto 2. Il resto è nebbia.
 
Ho apprezzato molto i nuovi personaggi, come Boggs e la Coin, e mi è piaciuto come altri siano stati approfonditi, ad esempio Finnick e Joanna Mason.
In particolare però ho rivalutato Prim, che si è guadagnata La Coppa del Personaggio Preferito. Nonostante sia fisicamente debole e, in alcuni casi, solo fonte di problemi – se pensiamo che se non fosse per lei i libri non avrebbero mai avuto inizio, in quanto Katniss non si sarebbe mai offerta volontaria ai 74esimi Hunger Games! – in questo libro capiamo che Prim è indipendente, decisa e ha un animo maturo molto più forte di quello di molti altri personaggi.
Un altro che mi è piaciuto molto, soprattutto per il suo cambiamento ben marcato e utile ai fini della trama, è Peeta. Mi era sempre parso strano e sin troppo bello che Peeta fosse una persona così buona, persino un po’ ingenua, nonostante gli orrori del mondo in cui vive. Seppur sotto tortura, Peeta cambia interamente il suo modo di essere, di pensare, di agire, di vedere il mondo e di reagire ad esso. Oltre ad essere un elemento che detta legge nello svilupparsi della vicenda, il cambiamento di Peeta è interessante anche per la storia d’amore fra lui e Katniss.
E, a proposito di Katniss, ho qualcosa da ridire su di lei. Ovviamente, come in tutti gli altri libri, l’ho adorata per essere un po’ antieroina, perché nonostante sia la protagonista si comporta come se non volesse esserlo e interpone agli interessi di Panem i suoi e il benessere delle persone che ama. È indisponente, capricciosa e anche un po’ arrogante, ma lima alcuni dei suoi difetti nel corso della storia, il che è un bene perché il personaggio dimostra un’evoluzione ponderata nel tempo. Quel che non mi convince è il suo stato psicologico.
Nel primo libro era, com’è ovvio, determinata anche se impaurita e impreparata a quello che sarebbe successo. Nel secondo gli strascichi dei primi Hunger Games le fanno avere degli incubi che la fanno dormire male, e fin qui tutto comprensibile. Nel terzo libro, senza spiegazioni, diventa all’improvviso psicopatica! Senza una ragione, apparentemente. Tra la fine di “La ragazza di fuoco” e “Il canto della rivolta” passano poco meno di un paio di settimane, settimane che per altro Katniss passa al sicuro a guarire in infermeria nel Distretto 13. E allora perché quando la vediamo diventa completamente fuori di testa?! Scappa davanti alle rose, rifugge il contatto umano, ha attacchi di tristezza in cui piange e attacchi di rabbia in cui se la prende con tutti. Non è che non sia comprensibile il suo stato d’animo, ma non si capisce come mai sia diventata pazza in maniera così improvvisa.
 
Suzanne Collins
 
Non posso dire che questo sia il mio volume preferito della saga di Hunger Games.
A livello di storia è perfetto, una degna conclusione. L’unico difetto è forse aver voluto scrivere di così tanti avvenimenti in un libro tutto sommato piccolo. Gli altri due libri erano occupati da una sorta di introduzione, di preludio ai giochi, e poi dai giochi stessi e basta. Qui scopriamo un nuovo Distretto, la ribellione comincia e viene vinta dai ribelli, vediamo il principio di una nuova forma di governo e i rapporti fra i personaggi cambiano completamente. Tutto viene sconvolto subito e in fretta. Il risultato, secondo me, è piuttosto caotico e frettoloso.
Nonostante questo ho apprezzato la trilogia di Hunger Games. Innovativa, appassionante e senza peli sulla lingua. Le spetta un posto di tutto rispetto fra i miei scaffali, anche se non sarà una delle mie preferite.