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domenica 19 novembre 2017

La figlia della fortuna – Isabel Allende

Non ricordo quando ho letto per la prima volta Isabel Allende, deve essere stato in terza media o poco dopo (a pensarci adesso infatti non è che capissi proprio tutti i passaggi), ma è una delle autrici che conosco da più tempo, e della quale ho letto molto. Ricordo ad esempio quanto fossi contenta dell’uscita di “La città delle bestie”, dato che già avevo letto “La casa degli spiriti” e mi era piaciuta. Inoltre la trilogia che ne seguì era per ragazzi, ed ero più felice di leggere una storia più leggera.
Il mio rapporto con la Allende dura da parecchio insomma, anche se è una di quelle autrici con la quale non sono al passo e che leggo sporadicamente, nonostante la apprezzi molto. Mi sono ricordata di lei qualche tempo fa e, non appena ne ho avuta l’opportunità, ho recuperato un suo vecchio romanzo e ho iniziato a leggere “La figlia della fortuna”.

Il 1800 è appena iniziato e Vàlparaiso è una delle cittadine più importanti del Cile. Viene scelta come approdo dai fratelli Sommers, che fuggono da uno scandalo che li ha colpiti in Inghilterra, e lì decidono di mettere radici. La famiglia è composta da tre fratelli, il capitano John, che passa più tempo per mare che in terra, l’uomo d’affari Jeremy e dalla solare e bellissima Rose. Quando quest’ultima si trova davanti alla porta una neonata avvolta in un panciotto la adotta e la cresce come una figlia, dandole il nome di Eliza.
La bambina cresce alla maniera inglese, imparando come ci si comporta da signorina e con tutti gli agi di una lady, pur sviluppando un forte legame con la sua terra grazie alle cure della domestica, una india che lei chiama Mama Frésia. L’idillio finisce quando la ragazza si innamora di Joaquin Andieta, un giovane dalle idee rivoluzionarie con il quale intreccia una relazione passionale, fatta di incontri sussurrati, di sogni per il futuro e di piani per fuggire insieme. Almeno fino a quando non accadono due cose: in California scoppia la febbre dell’oro ed Eliza rimane incinta.
Joaquin si imbarca verso l’avventura e l’ignoto, con l’intento di tornare ricco e sposare Eliza, senza sapere che lei aspetta un figlio. Passano poche settimane e la ragazza, che nasconde a fatica la gravidanza, prende una decisione folle, ma ferma: raggiungerà il suo amato in California.
Grazie all’aiuto di un giovane medico cinese riesce a salire su una nave come clandestina, ma durante la traversata perde il bambino. Quando i due sbarcano a San Francisco scoprono un mondo ricco di possibilità, libero dalle regole che conosceva Eliza e bisognoso dell’aiuto che un medico come Tao Chi’en può offrire.
Tuttavia la California si rivela anche molto diversa da ciò che raccontavano. Invece della terra ricca di pepite d’oro che promettevano esiste solo la fatica dei minatori, un dilagante razzismo contro gli stranieri di ogni dove, che i gringos non fanno che fomentare, e terre ignote e sconfinate, pericolosissime se percorse da soli.
Eliza si mette in viaggio alla ricerca di Joaquin Andieta, pur tenendosi sempre in contatto con Tao Chi’en, cheè diventato il suo più caro amico. Per viaggiare più comoda e sicura si finge uomo, e si spaccia per il fratello minore di Andieta, così che i viaggiatori e le compagnie che trova lungo la strada cominciano a chiamarlo ‘el chilenito’. Ma i mesi passano e i ricordi dell’amante si fanno sfocati, i contorni della sua immagine svaniscono fra le terre selvagge della California, che inghiotte tutti i suoi tentativi. Joaquin Andieta si fa sempre più lontano dal cuore e dalla mente di Eliza, occupata da altre avventure e da nuovi affetti, mentre all’orizzonte comincia a profilarsi l’immagine di un bandito la cui storia assomiglia pericolosamente a quella di Joaquin.

Ultimamente con i libri è un periodo un po’ sfigato. Fatico a trovarne uno che mi catturi e ne ho lasciati molti a metà (fortuna che con la biblioteca i rimpianti sono meno!). Circa a metà di questo romanzo stavo per arrendermi e scartarlo come l’ennesimo che non è stato di mio gusto, perché una buona parte è dedicata all’infanzia e all’adolescenza di Eliza.
All’inizio è piacevole, come tutti i libri della Allende. L’autrice immerge il lettore nella storia con una delicatezza e un calore tali che leggerla è come rientrare a casa mentre fuori nevica, e trovare un camino acceso e dei colori vivaci a darci il benvenuto. Si conoscono i personaggi, si apprezza il ritmo della storia, calmo ma inarrestabile. Dopo un po’, tuttavia, forse proprio per chi già conosce la Allende, la storia comincia a perdere di attrattiva.
L’infanzia dorata e sognante della protagonista, in un Chile presentato in maniera estremamente vivida, somiglia molto a quella di altre sue eroine, tanto che ci si chiede quando finirà. Ma se tenete duro e riuscite a superare lo scoglio, il resto è tutto in discesa. Infatti dopo la partenza di Eliza il romanzo diventa più avvincente, abbandona le tinte rosa che ha mantenuto fino a questo momento e il realismo magico tipico dell’autrice si smorza. Ed ecco che il libro diventa speciale, caratteristico: un romanzo d’avventura, ambientato nel selvaggio west di metà ottocento!

Oltre a questo, ho adorato tutti i personaggi, cosa che fino ad ora non mi era mai successo. Tutti, anche quelli che rimangono in secondo piano o quelli più eclettici, sono veri e adorabili e nascondono una natura umanissima dietro cliché studiati, che definirei più che altro preconcetti. Ogni personaggio si comporta come ci aspettiamo che si debba comportare, almeno fino a un certo punto. Mano a mano che li si conosce si scoprono sempre più segreti, si capisce il perché delle loro azioni e del loro carattere, cambiano assieme alla storia e si lasciano alle spalle il personaggio un po’ maschera con il quale avevano iniziato il viaggio.
Il mio preferito è Tao Chi’en, il medico cinese reinventatosi cuoco su una nave. La storia di Tao Chi’en, per buona parte della sua vita noto solo come Il Quarto Figlio, è avvincente, appassionante, dolce e triste al tempo stesso. Sono rimasta conquistata dalla furbizia di Tao, che trova modo più volte di salvarsi la pelle, è avido di apprendere e, anche se ha vacillato in alcuni periodi della sua vita, si è rimesso in piedi e ha infine deciso di dedicarsi vita ad una causa nobile, seppur pericolosa.
I fratelli Sommers sono alcuni dei miei personaggi preferiti, per forza di cose quella che mi è piaciuta di più è Rose, perché è la più approfondita. Una donna elegante, allegra, che ha preso quel nubilato forzato che lo scandalo le ha imposto come l’opportunità per vivere libera. I piccoli segreti della donna, che vengono svelati tutti solo alla fine del romanzo, le conferiscono un’aura di mistero che non si vuole penetrare, per mantenere intatta la figura affascinante di lei.
Anche il gruppo delle tre prostitute, dette Colombe Infangate, capitanate dalla mastodontica Joe Spaccaossa e accompagnate da Babalù Il Cattivo e da un bambino indiano, mi è piaciuto. A completare il gruppo sarà El Chilenito, che metterà le sue doti di pianista a servizio dell’attività della Spaccaossa, creando con gli altri ciò che più si avvicina a un focolare nelle due carrette trainate da cavalli che usano come rifugio.

L’unica cosa che non ho apprezzato è la fine del romanzo, che secondo me si svolge troppo velocemente. Tutto viene spiegato e sistemato (anche se una parte viene totalmente lasciata all’immaginazione del lettore, e molto lo veniamo a sapere da piccole rivelazioni riguardo al futuro, che l’autrice ha sparso lungo la narrazione), ma troppo in fretta per i miei gusti, come se la narrazione dovesse finire in fretta e furia.
Ho letto il libro sul kindle e quando ero alla fine ho cominciato a chiedermi se il file non fosse danneggiato, perché mi segnalava che stavo per terminare il libro, ma mi sembrava ci fossero ancora così tante cose da dire!, e non potevano essere dette in così poco tempo. Invece la Allende le ha dette, con la sveltezza e il rigore di un riassunto, quasi, e la cosa mi è dispiaciuta.

“La figlia della fortuna” rimane un romanzo godibile, che a tratti mi ha appassionata molto, anche se non lo ritengo uno dei migliori lavori di Isabel Allende.
Ovviamente questo non significa che non leggerò altri suoi romanzi! Avrò sempre un occhio di riguardo per quest’autrice, che ha la capacità di incantare con le sue storie.


mercoledì 28 dicembre 2016

Roderick Duddle – Michele Mari

Passo da una recensione difficile all’altra. Ne inizio oggi una nuova e sono sicura che ci metterò qualche giorno per finire (vediamo, ho iniziato prima di Natale, sono passati i giorni fatidici e fra poco è il nuovo anno, sì, ci ho messo un po’. A proposito, buone feste!). Così, su due piedi, vi dico che questo romanzo mi ha appassionata, l’ho letto con entusiasmo e aspettativa, lo consiglio a tutti e vorrei proprio che poteste leggerlo subito per dirmi cosa ne pensate!
Ma proprio perché mi è piaciuto tanto vorrei tradurre in un ragionamento più complesso e darvi delle motivazioni che siano meno astratte, perché questa è una storia che merita di essere letta. In quanto tale non posso che sforzarmi per darvi più di un valido motivo per leggere “Roderick Duddle”, di Michele Mari.

Impossibile parlarvi della trama, perché è più complessa e ingarbugliata di un gomitolo di lana dopo che ci ha giocato un gatto. A grandi – grandissime – linee posso darvi una piccola introduzione:
Giunta alla vecchiaia senza eredi e con un grosso peso sulle spalle, la ricca lady Pemberton decide di rintracciare la figlia che aveva dato tempo addietro ad un convento per lasciarle la sua eredità. Dopo alcune ricerche viene a sapere che la ragazza, che lavorava in un postribolo chiamato l’Oca Rossa, è morta e le ha lasciato un nipotino, tale Roderick. Per provare la sua identità il bambino ha un medaglione, che fu lasciato da una più giovane lady Pemberton alla figlia neonata quando venne abbandonata al convento, e che questa a sua volta in punto di morte ha lasciato al figlio.
La Badessa del convento in cui era stata abbandonata la ragazza vede subito in quella l’occasione per ottenere l’eredità della famiglia Pemberton: farà sì che il convento si occupi della tutela del bambino e, alla morte di lady Pemberton (che sembra ogni giorno più vicina), curerà il patrimonio fino a che il bambino non avrà compiuto i diciotto anni. Scopre però che il bambino è stato cacciato dall’Oca Rossa dal proprietario, il signor Jones, che lo teneva con sé solamente perché sua madre era viva. Quando Jones capisce che potrebbe ottenere qualcosa di quell’immensa eredità manda alcuni uomini in cerca di Roderick.
Allo stesso tempo la Badessa, stanca di aspettare, falsifica il medaglione, prende un bambino orfano, lo spaccia per il vero Roderick, lo fa adottare, e invia un killer a uccidere il vero bambino.
Allo stesso tempo i due malviventi inviati da Jones a recuperare Roderick vogliono guadagnarci qualcosa di più, quando capiscono che c’è una grossa somma in ballo.
Allo stesso tempo Roderick incontra un marinaio che lo prende sotto la sua ala.
Allo stesso tempo il convento trama per uccidere lady Pemberton!
Allo stesso tempo…!
Ora capite perché è meglio che scopriate da voi la trama di questo romanzo. Di più non posso dirvi perché non ci capireste niente, e anche perché vi rovinerei la sorpresa.
Mi riesce difficile immaginare come l’autore sia riuscito a rimanere al passo con la sua stessa storia, tanti sono i personaggi e i sotterfugi, tante sono le ipotesi che ognuno di loro fa e che causano un malinteso dopo l’altro. Nel caso dovessi mai incontrarlo sarei curiosa di domandargli se aveva uno schema dettagliato da qualche parte, un grafico a torta o dei disegnini magari.

Oltre alla trama la prima cosa si può notare in questo romanzo è lo stile. L’opera fa pensare, sia per le atmosfere che per linguaggio, a Dickens. Roderick diventa così una sorta di Oliver Twist ma, grazie all’ironia dell’autore, acquista tratti moderni e la narrazione si fa più leggera, meno drammatica sicuramente, più vicina ai romanzi di avventura e alle satire, che ai drammi con cui il romanziere britannico. Ho apprezzato molto il linguaggio che usa Michele Mari: frasi lunghe, parole desuete, spesso si esibisce in voli pindarici non da poco ma l’attenzione del lettore non ne risente.
L’unico difetto che gli posso trovare è di aver esagerato un poco con gli intrighi, tanto che le parti in cui i personaggi cercavano di raccapezzarsi sulla vicenda erano diventate ad un tratto incomprensibili. Dopo un po’ me le facevo scivolare sotto gli occhi, impaziente di arrivare alla fine del paragrafo, perché tanto sapevo che non ci avrei capito nulla.
La quantità di personaggi potrebbe far pensare che siano trattati con superficialità, ma non è così. I principali sono inquadrati alla perfezione, tanto che alla scomparsa di alcuni mi sono dispiaciuta e per la vita – o la morte – di altri mi sono rammaricata.
Avevo iniziato a leggere questo romanzo pensando che si trattasse di una storia di avventura concepita per i ragazzi, ma mi sbagliavo di grosso. Il mondo in cui veniamo catapultati è sì realista ma, proprio per questo, crudo. I personaggi si muovono in base a interessi economici, forti passioni, desideri oscuri, e per questo sono senza scrupoli.

Ho riletto ora la mia recensione e, ahimè, devo ammettere che non è questo granché. Realizzo ora che “Roderick Duddle” è un romanzo che va aldilà delle mie capacità di critico!
Insisto però nel consigliarvelo, anche se questo post è uno fra i più sconclusionati che io abbia mai scritto, perché fra le pagine di questo tomo si nasconde una storia avvincente, dei personaggi incredibili, piccoli atti di coraggio e di amore, grande ironia, uno stile elegante e un’ironia pungente, la cura per i dettagli.

Una storia, in sintesi, che merita di essere letta.

lunedì 25 gennaio 2016

Segna(la)libro #6: Soulless, The parasol protectorate book I – Gail Carriger

Ogni tanto trovo anche materiale per le rubriche, quindi eccomi qui per segnalarvi un libro di cui ho sentito ben poco parlare, ma che mi sento di consigliare.
Primo di una pentalogia e romanzo d’esordio dell’autrice, “Soulless” viene presentato come una romanzo steampunk. Purtroppo non ho qualcosa con cui confrontarlo, ma devo dire che di steampunk vi ho trovato giusto una spruzzatina, ma forse è un’impressione mia. L’ho trovato un libro scorrevole, leggero, uno di quei libri da leggere quando si ha voglia di qualcosa di non troppo impegnativo, ma comunque piacevole. Non privo di difetti ma sicuramente originale e degno di esser letto.
Il peggior difetto di questo romanzo è che è pieno di refusi, in questo caso però è colpa dell’editore. Anche se un romanzo non ha la pretesa di essere chissà cosa sta alla casa editrice revisionarlo e presentarlo bene al pubblico. Un vero peccato, perché altrimenti sarebbe stata una lettura ancor più piacevole.
La soluzione è, nel caso la trama vi interessi, leggerlo in lingua!
 
Nella Londra di fine ottocento, uomini, vampiri e lupi mannari hanno imparato a convivere, ma questo non vuol dire che l’esistenza della giovane Alexia Tarabotti non sia piena di problemi. Innanzitutto non ha un’anima, un bello svantaggio se si vuole trovare marito. Suo padre è morto e , per aggiungere sfortuna alla sfortuna, era pure di origine italiana! Quando un vampiro l’aggredisce – uno sgarbo imperdonabile nell’etichetta – e lei lo uccide con il suo parasole, le cose sembrano davvero precipitare: la regina Vittoria in persona manda l’inquietante Lord Maccon (un lupo mannaro volgare e trasandato) a svolgere le indagini. Ma non è finita: la popolazione di vampiri di Londra inizia ad essere misteriosamente decimata, e tutti sembrano ritenere Alexia colpevole. Chi vuole incastrarla? Riuscirà la ragazza a sfruttare a proprio vantaggio l’impermeabilità ai poteri soprannaturali di cui gode essendo senz’anima? O i suoi guai non sono ancora finiti?

venerdì 2 gennaio 2015

Le tredici vite e mezzo del Capitano Ors Blu - Walter Moers

   Non ricordo esattamente quando decisi di comprare “Le tredici vite e mezzo del Capitano Orso Blu”, di Walter Moers. Mi sembra di conoscerlo da sempre ma, dato che la prima pubblicazione risale al 1999, non posso averlo conosciuto prima.
   Ricordo bene, però, dove lo comprai.
 
   Una volta, nella piazza principale della mia città, c’era una piccola libreria seminascosta, alla quale si accedeva da sotto i portici che sorgono tutto intorno al perimetro della piazza, scendendo delle scale di ferro battuto. Era una libreria bellissima. Piccola, stipata di scaffali di legno traboccanti libri e con i muri in pietra. Purtroppo ha chiuso diversi anni fa, ma ricordo ancora la bella sensazione che si provava entrando in quella libreria.
   Non fraintendetemi, io adoro perdermi in qualsiasi libreria, ma non è più bello scovare un piccolo negozietto che passa quasi inosservato? Non è più divertente entrare, accompagnati dal suono del campanello, e incrociare un sorriso e un cenno con il libraio? Magari un signore anziano, d’altri tempi, che ci saluta con una gentilezza differente. E non è più magico venire attratti da una copertina che non è né più né meno in vista delle altre, tornare a casa con il proprio libro sottobraccio, e poi scoprire che si tratta di un libro così perfetto per noi, così importante?
   Di certo non è come entrare in una Mondadori o Feltrinelli qualsiasi, dal soffitto alto, gli scaffali tutti uguali, e gli stessi titoli messi per bene in bella vista in ogni singolo punto vendita.
   Non so perché parlo di questo, dato che quella che vado a fare è una recensione e basta. Sapete già, tuttavia, che i mie post vanno un po’ dove gli pare. Inizio con un’idea precisa e poi vado alla deriva.
   Meglio passare alla recensione.
 
Walter Moers
   Nato apparentemente dalla spuma del mare, il Capitano Orso Blu è appunto questo: un orso, di colore blu. Dovete sapere che ogni orso colorato che si rispetti, nel continente di Zamonia, è destinato a vivere ventisette vite. Il Capitano in persona ce ne racconta la metà, perché è giusto che ognuno abbia i suoi piccoli segreti.
   Il primo ricordo di Orso Blu è quello di una grande nave, nera e gigantesca, che incute terrore nel piccolo orso, così piccolo da entrare nel guscio di una noce. Talmente piccolo, in effetti, da poter essere tranquillamente salvato dai mini pirati e portato a bordo della loro minuscola nave. Lì Orso Blu impara ad essere un perfetto marinaio ma, crescendo, i mini pirati sono costretti ad abbandonarlo – non senza tristezza e rammarico – sull’isola degli spiriti Coboldi.
  Passiamo così da un’avventura all’altra in compagnia del Capitano, e queste avventure sono talmente diverse fra loro che sono considerate come vite differenti. In un susseguirsi di personaggi improbabili e situazioni ancor più assurde, esploriamo «il continente di Zamonia, dove tutto è possibile tranne la noia.»
   Certo non ci si può annoiare con il caleidoscopio di invenzioni di Moers. Fra i più memorabili non posso non citare Deus Ex Machina, un sauro da salvataggio che salva il prossimo solo all’ultimo minuto, e come dimenticare il Dottor Abdul Noctambulotti, il teorico del buio con sette cervelli? Per non parlare della testa del gigante Babbaleo, così grande che Orso Blu dovrà attraversarla passando da un orecchio all’altro – peccato che la testa sia ancora perfettamente funzionante!
   Sorge comunque una domanda sin dall’inizio del libro: da dove viene Orso Blu? Non esistono altri orsi come lui nel mondo, non ne ha mai incontrati, ma come mai si trovava all’interno di una noce? Abbandonato in mezzo all’acqua?
   Non ho intenzione di dirvi altro, sappiate solo che sono domande legittime da porsi, e che forse, fra una vita e l’altra, il Capitano potrebbe scoprirlo.
 
   Una delle cose più belle di questo libro sono i disegni e la particolare grafica. Vi ho riportato apposta alcune pagine perché possiate vederli. Sono stati realizzati dall’autore stesso, e so che esistono edizioni a colori, anche se la mia è in bianco e  nero.
   Oltre ai disegni, senza preavviso possiamo trovarci davanti ad una pagina tutta nera, con le parole stampate in bianco. Oppure metà e metà. Oppure possiamo trovare una pagina interamente occupata da una sola, gigantesca lettera.
   Vi posso assicurare che l’autore aveva i suoi buoni motivi per inserire un grosso BOOM all’interno del libro. Un BOOM che doveva occupare un bello spazio, altrimenti come facevamo a renderci conto del rumore assordante a cui Orso Blu andava incontro?
   Il perché poi ci andasse incontro lo lascio scoprire a voi. Potrebbe avere a che fare con la gigantesca nave Moloch, che solca le acque senza approdare mai in nessun porto. O magari con il buco dimensionale che si trova nel mezzo della Grande Foresta. Oppure… be’, è ragionevole pensare che se c’è una testa senza gigante, da qualche parte ci sarà anche un gigante senza testa.
   Ma chi può dirlo, in fondo siamo a Zamonia.
 
 

lunedì 29 dicembre 2014

Cronache del Sunflower - Harriet

   Era da parecchio che non recensivo una storia Originale di EFP, e non perché non ne legga (cerco sempre nuove storie) ma perché sul blog recensisco solo storie che mi piacciono molto e che ritengo valide, alla stregua di un libro.
   Penso che alcune storie che lì si trovano siano molto belle e degne di essere distribuite, ecco perché mi piace recensirle e fare loro un po’ di pubblicità. Trovare una bella storia non è facile, lo ammetto, cercando bene tuttavia si ha la possibilità di imbattersi in opere veramente belle, fiori rari che vale la pena cogliere, come “Cronache del Sunflower”, che ho trovato sulla pagina di Harriet.
 
 
   Il poco più che ventenne Amir ha sempre avuto il desiderio di trasferirsi a Londra per studiare letteratura, è quindi con grandi aspettative ma anche grandi timori che si trasferisce lì da Karachi, in Pakistan. Caso vuole che incontri Joel Bennett, un inglese doc tanto ricco quanto sfaccendato, che gli offre un lavoro, guidato più dall’istinto che dalla ragione.
   Amir si ritrova così a casa di Bennett come ragazzo tuttofare e, dopo, come gestore del teatro che l’uomo ha ereditato, il Sunflower. Il teatro ha una lunga e misteriosa storia alle spalle, ma negli ultimi anni è stato lasciato abbandonato a sé stesso. Al ragazzo spetta il compito di dirigere i restauri e organizzare una stagione teatrale.
   Senza rendersene conto Amir, Joel e gli amici che hanno vicino entrano a far parte di un mondo che convive con il nostro, un mondo invisibile spesso ignorato. Il Sunflower è infatti infestato dagli spiriti, così come tutta Londra lo è, e Amir si scopre un ottimo esorcista.
   Gli spiriti del Sunflower e di tutta la città cercano questo giovane, nuovo esorcista perché li aiuti a risolvere le loro questioni terrene e possano passare oltre. A volte basta una chiacchierata o una partita a scacchi, altre volte Amir si ritroverà coinvolto in duelli e, altre ancora, non dipenderà da lui liberare gli spiriti.
   Sullo sfondo di una Londra che mescola il moderno al vittoriano, storie e personaggi si incontrano per formare una trama appassionante ma al tempo stesso delicata. Fra vicende a volte avventurose, a volte soprannaturali, a volte estremamente umane, Amir andrà incontro, piano ma inesorabilmente, alla battaglia per salvare il teatro, minacciato da entità ancor peggiori della morte.
 
   Lo ammetto, ho iniziato a leggere questa storia solo perché era ambientata a Londra. Mi è sempre piaciuta e, dopo esserci stata, mi piace ancora di più e tutto ciò che è british, dalle vecchie signore che bevono tè ai beefeaters, scatena la mia simpatia. Andando avanti ci si rende conto che non è tanto Londra ad avere un ruolo fondamentale per la narrazione – se non fosse che lì il teatro è molto più popolare che qui da noi – ma ormai ero troppo presa per rendermene conto.
   Una delle cose più belle di “Cronache del Sunflower” è la sua semplicità. Non che l’autrice si avvalga di un linguaggio e uno stile poveri, tutt’altro, è il modo in cui gli avvenimenti si srotolano ad essere genuino e tranquillo. Questo non ci toglie la presenza di scene d’azione o intense, ma fa sì che l’universo creato da Harriet non abbia forzature e sia, al contrario, naturale.
   Non ci sono particolari teorie o riti di cui si avvale il protagonista per esorcizzare fantasmi. La magia viene nominata poche volte, usata ancora meno, e l’arma più grande di Amir è la sua umanità e la particolare sensibilità che lo contraddistingue.
   I personaggi rispettano inizialmente certi cliché che vengono piano piano sfaldati, una volta che li conosciamo meglio. Abbiamo così l’opportunità di vedere il cambiamento interiore di Joel Bennet. Possiamo conoscere un simpatico medico-fantasma e la sua assistente (viva), che hanno ancora dei pazienti e li incontrano nel cimitero. Abbiamo persino la possibilità di conoscere il Sunflower, con il suo spirito eclettico e la sua energia “da drago”, che si presenta sotto forma dell’androgina Stella.
   Il mio personaggio preferito, tuttavia, rimane Amir. Troppo gentile e corretto per essere vero, troppo perfetto nella sua positività e nelle sua fede verso il prossimo, ma anche così è diventato il mio personaggio preferito! Forse è perché penso che tutti dovremmo essere un po’ più come Amir, e mettercela tutta a fare quello che ci piace e in cui siamo più bravi, circondandoci di persone che ci vogliono bene e rimanendo fedeli a noi stessi. Mi duole ammetterlo, Amir è un personaggio sin troppo positivo per essere realistico e completo, ma è diventato il mio preferito, quindi me ne frego.
 
   “Cronache del Sunflower” non assomiglia a niente che abbia letto fin ora. È una storia soprannaturale che però si concentra sulle vicende umane più che sull’azione, che pur ci viene mostrata nei momenti e nei modi giusti.
   Lo dico e spero di farlo un giorno: se “Cronache del Sunflower” venisse pubblicato andrei a comprarlo senza pensarci due volte.

giovedì 25 settembre 2014

La fiaba dimenticata - Miss Day

   È da molto tempo che non recensisco una fanfiction (per curiosità sono appena andata a controllare e in effetti, sì, è da maggio).
   Ne ho lette parecchie di storie in questi mesi, per verificarlo basta andare a guardare la mie liste di EFP, ma dato che con le fanfiction sono molto più selettiva che con i libri, ne finisco pochissime, e ne metto fra i Preferiti ancora meno. Di queste poche elette, ne recensisco una minima parte. Insomma, come direbbe Bilbo Baggins:
 
 
   Di regola, metto fra i preferiti solo storie terminate, ma a che cosa servono le regole, se non per essere infrante?
 
   Mi sono lanciata nella lettura di “Lafiaba dimenticata”, di Miss Day, perché non ho mai trovato una long su Narnia che mi piacesse davvero, ma questa sembrava promettente, anche se non eccedeva nell’originalità.
   Diciamocelo, le fanfiction su Narnia si basano principalmente su due fatti: uno, Caspian è figo; due, Caspian ha bisogno di una fidanzata. Motivo per cui la maggior parte delle long in questo fandom sono delle Susan/Caspian o delle Nuovo Personaggio/Caspian. E per ‘nuovo personaggio’ solitamente intendo una ragazza cazzuta che vive già a Narnia o una ragazza cazzuta che abita nel nostro mondo. Il risultato è il medesimo, entrambe finiscono per ammaliare il giovin sovrano e passare lunghi paragrafi ad avvertire fremiti, guardarsi imbarazzati o sfiorarsi causandosi misteriose scosse elettriche (l’elettricità statica a Narnia è un grosso problema, a quanto pare).
   “La fiaba dimenticata” non sembrava una storia molto diversa dalle altre, in realtà, ma ogni tanto tutti abbiamo bisogno di qualcosa di romantico e fuffoso, non è vero? Per sentirci un po' diabetici...
 
 
   Be’, maledizione! Ho fatto appena in tempo a pregustare la fuffosità della fanfiction quando ho scoperto che è rimasta abbandonata!
   Per farla breve, l’autrice ha lasciato perdere la fanfiction e con molte probabilità anche il fandom, EFP e magari persino scrivere – una terribile perdita per il sito, oserei dire. Leggendo, non mi ero resa conto che la storia fosse ancora in stato “In corso” (sono babba, lo so), e quando ho iniziato a intravede i capitoli finali ma nessun avviamento ad un finale degno, mi sono documentata. E ho scoperto che l’ultimo aggiornamento risaliva ad anni fa.
   Ho avuto uno shock, una paralisi e un colpo della strega tutti assieme – quest’ultimo in particolare sarà dovuto alla strega della fanfiction in questione. Alla fine, senza esitare, tristemente felice di poter dare una fine immaginaria in cui tutti i cattivi morivano e i buoni vivevano assieme felici e  contenti per il resto dei loro giorni, ho messo la storia fra i Preferiti, anche se non era finita.
   L’unica altra storia per cui l’ho mai fatto è stata una traduzione del fandom di Harry Potter, “Drop Dead Gorgeous”, che consiglio a tutti i fan.
   Ah, misteriosa Miss Day, se mai leggessi questa recensione ascolta la supplica di una povera lettrice: continua la tua fanficion, torna fra i lidi di EFP! Io e altre centinaia di lettrici ti aspetteremo qui, in spasmodica attesa.
 
   Mi ritrovo quindi a consigliare una fanfiction non finita, ma giuro che ne vale la pena.
 
   Penelope è una giovane ragazza che abita a Strawbury, un piccolo paesino di campagna in Inghilterra. Lavora come domestica per la ricca signora Wingfield e abita nella sua villa assieme ad un maggiordomo francese, una cuoca superstiziosa, una governante severa, altre due domestiche della sua età e, naturalmente, la povera signorina Wingfield, che perenni mal di testa costringono a bere gocci di whisky in continuazione.
   Un giorno, in una libreria, Penelope incontra due ragazzi che non conosce, che si rivelano subito essere Lucy ed Edmund Pevensie. Lucy fa una sorta di predizione a Penelope, parlandole di alcuni specchi cui dovrebbe fare attenzione.
   Casa Wingfield, nel frattempo, riceve un regalo sgradito: un grosso armadio in legno massiccio, che viene collocato in una stanza e presto dimenticato.
   La sera stessa tutte le luci della casa si spengono e, alla loro riaccensione, ogni specchio, dal più grande e maestoso fino a quelli da toletta e portatili, recano dei simboli sconosciuti. Penelope trova l’unico specchio rimasto vuoto nella stanza dove è stato relegato l’armadio. La curiosità la spinge a studiarlo e aprirlo, e l’incredulità ad entravi dentro quando una brezza leggera proveniente dall’armadio stesso le scuote i capelli.
   Una volta a Narnia, dopo un fortuito incontro con il re Caspian e l’uccisione di una strega che rapiva bambini, viene accolta a corte e comincia a vivere lì.
   E qui è dove s’interrompe la nostra fiaba. Sì insomma, sul più bello!
 
 
   La storia, a questo punto, lascia molti interrogativi che non sto a raccontarvi, e mi piange il cuore a pensare che non scoprirò mai com’è andata a finire! Ma parliamo dei pregi di questa fanfiction, perché come l’ho descritta io non sembra avere nulla di nuovo rispetto a molte altre storie del fandom.
   Narrata in prima persona dalla stessa Penelope, la storia ha un non so che di naif che ricorda il libro vero e proprio, anche se ormai usiamo immaginare il moviverse di questa raccolta. Ogni paragrafo ha qualcosa che fa sorridere per la semplicità e l’ironia con cui vengono narrati gli eventi. I personaggi sono vagamente stereotipati, ma in maniera adorabile, un po’ come potremmo stereotipare la nonna che fa le torte. Sono tutti  perfettamente calati nel loro ruolo, ma in maniera naturale, mai forzata.
   Una delle cose che mi è piaciuta di più della storia è che tutto viene raccontato con precisione, ma non è noioso. Abbiamo l’opportunità di scoprire dettagli che nel film e nel libro non ci sono, dettagli che a volte sono anche un po’ crudi, ma veritieri.
    L’altra cosa che ho apprezzato – direi amato – è la protagonista, Penelope. Non è un personaggio stereotipato e ha molti difetti. In parole povere, non si tratta di una Mary Sue. Penelope è molto pigra e anche bugiarda, ha scarsa stima di sé e tende a parlare a vanvera. Gli aspetti più negativi del suo carattere vengono limati dalla sua permanenza a Narnia, la ragazza impara ad essere meno fannullona e impara quanto sia prezioso avere qualcosa da fare, inoltre impara a farsi sentire, a farsi rispettare e ad aiutare gli altri.
   Purtroppo non posso continuare con la lista dei miglioramenti di Penelope, perché la storia si è interrotta. Sappiate comunque che è diventata uno dei miei personaggi preferiti.
 
   Be’? Ancora qui? Muovete le chiappe (o in questo caso le dita) e andate a leggervi la storia!
   Magari se siamo in tanti ad attendere il seguito potremmo firmare una petizione per farci inviare i restanti capitoli.

giovedì 2 gennaio 2014

Hunger Games La ragazza di fuoco - Suzanne Collins

   Sarà la ferma decisione di tornare a scrivere, o le vacanze natalizie che mi permettono più tempo libero, ma leggo come un treno e non voglio fermarmi. Questo implica che abbiamo, a distanza di non molto, un’altra recensione.
   Come potete ricordare avevo recensito il primo Hunger Games con entusiasmo, e ora a distanza di quasi un anno mi ritrovo a leggere il secondo. Forse a causa della leggera immaturità che ho riscontrato nel primo libro, non sono impazzita per comprare il secondo appena dopo averlo finito, e probabilmente è per questo che ho aspettato così tanto tempo per leggerlo. In effetti “Hunger games – La ragazza di fuoco” è il regalo di un’amica per Natale, per cui non è vero neanche che l’ho comprato. Comunque sia ho apprezzato moltissimo il regalo e ho letto con avidità.


   La prima cosa da dire di questa seconda prova di Suzanne Collins è che il libro è sicuramente più maturo del primo, sia a livello di personaggi che di trama. Sia perché Katniss è meno petulante e più simpatica, sia perché l’argomentazione è più ampia. Non si tratta più di salvare sé stessi e i propri cari, si tratta di salvare un popolo. In particolare la popolazione di Panem.
   Sono contenta perché, finalmente, ho trovato una protagonista che mi piace. Ammetto di nuovo che, se dovessi mai incontrare Katniss, le tirerei un ceffone dopo dieci minuti per la sua incredibile cocciutaggine e stupidità (insomma, si può che passa un intero libro a vedere che tutti le danno una mano e a non rendersi conto di nulla?!), ma lo farei con rispetto. Il personaggio di Katniss è molto migliorato dal libro precedente, intanto adesso non fa più la finta tonta riguardo ai sentimenti di Peeta e Gale, e non sfoggia la sua superiorità intellettuale di fronte agli abitanti di Capitol City. Inoltre Katniss ha incarnato una delle mie più profonde fantasie letterarie: un protagonista che non vuole essere protagonista. Almeno all’inizio. Katniss è la pedina fondamentale della rivoluzione dei distretti di Panem, ma non vuole esserlo. Per buona parte del libro desidera scappare e voltare le spalle a tutti, salvando quelli che ama e mandando a quel paese gli altri. Questa diatriba, in realtà, continua a roderla per tutto il libro e solo nelle ultime pagine si rende conto di essere lei quella che deve portare avanti la rivoluzione, altrimenti non lo farà nessuno. Per il resto del tempo, all’inespressa domanda: «Katniss, invece di vivere la tua vita da vincitrice, ti andrebbe di metterti in pericolo per migliaia di sconosciuti, mettendo così a rischio te stessa e chi ami?», lei risponde:
 
   Insomma, dove altro la trovate una protagonista come lei? Katniss prima di rassegnarsi ad essere Ghiandaia Imitatrice della rivoluzione è egoista, impulsiva, pensa solo a salvare Peeta e per lei gli altri possono anche crepare. Insomma è una persona reale, che non ha sempre intenti nobili e prende decisioni sagge e coraggiose.
   Continuando a parlare di personaggi, ecco, non si può avere tutto dalla vita. Perché Peeta, che nello scorso libro mi era piaciuto tanto, adesso comincia a stancare. Il bravo ragazzo che non farebbe male ad una mosca nella situazione del precedente libro era molto interessante. Ci si domanda come si comporterà una persona con il suo carattere negli Hunger Games. Ma ora che non si tratta più solo di “giochi” ma di vera rivoluzione, Peeta dovrebbe tirare fuori quel suo innato charme di cui tanto si vocifera e usarlo contro il presidente Snow. Invece lui riesce a ferirsi innumerevoli volte, dimostrare quanto è sensibile, quanto è innamorato di Katniss, e alla fine riesce anche a farsi catturare. Peeta, a mio parere, sarebbe un personaggio interessantissimo se gli permettessero di giocare d’astuzia. Come carne da macello nell’arena è sprecato! Lui dovrebbe essere colui che guida la rivoluzione dall’interno, con le sue parole infiammanti e la sua astuzia. Nell’arena, fa solo la figura del babbeo.
 
   A questo proposito arriviamo ad un altro punto che mi sta molto a cuore.
  La politica è la chiave di questo secondo libro. Ricorda moltissimo “1984” di George Orwell (probabile che vi sia almeno un po’ ispirato). La società è controllata, più che dalla forza, dalla psicologia, e quando Katniss entra in questo meccanismo le viene chiesto di fingere per la popolazione, per tenerla sotto controllo. Ho trovato molto interessante questo fatto, che nel libro precedente era stato appena accennato, e infatti la parte del libro che ho preferito è quella in cui sono fuori dall’arena.
   Solo una cosa ho trovato inconcepibile ma, purtroppo, è uno dei perni del libro. Un uomo che manipola la popolazione con leva psicologica – terrore e speranza – come il presidente Snow, non potrebbe mai indire degli Hunger Games come questi. Il compito di Snow è quello di tenere i Distretti in ordine e allietare Capitol City con i giochi. Usando vecchi tributi Snow crea agitazione fra i Distretti perché annuncia apertamente di essere a conoscenza dell’imminente idea di ribellione e avere tutta l’intenzione di combatterla, annunciando che "anche i più forti non possono competere con Capitol City". Inoltre manda a morte i precedenti vincitori, amati da tutta Capitol City, e così nemmeno alla capitale piacciono i settantacinquesimi Hunger Games. Sono dei giochi controproducenti, tanto che un uomo intelligente come Snow non li avrebbe mai organizzati. Il punto di quei giochi era uccidere Katniss, questo è logico, ma ci sono moltissimi modi per ucciderla o renderla inoffensiva. Snow, che tanto ama la psicologia, non userebbe la violenza.
   Il libro poteva essere molto più interessante se Katniss avesse guidato consapevolmente la rivoluzione da fuori l’arena.
 
Jennifer Lawrence, com'è comprensibile interpreta Katniss nel film.
 
   La storia comunque è bella anche così, e queste sono preferenze personali. Ci tengo poi a precisare che ho apprezzato moltissimo tutti i nuovi personaggi, e l’idea dell’arena/orologio era fantastica! Anche il finale mi è piaciuto molto, e adesso sono curiosa di sapere come andrà a finire.
 
   Ho visto anche il film, di “Hunger Games – La ragazza di fuoco”. Consiglio a tutti anche il film, se non altro perché ci sono un sacco di attori meritevoli, fra cui Jennifer Lawrence e Woody Harrelson (che sta meglio con i capelli lunghi che non dal vero), ma anche Philip Seymour Hoffman e Stanley Tucci. Soprattutto la Lawrence, è un’attrice fantastica e piena di talento. Devo ammettere che sono curiosa di vederla in altri film, e spero che ne faccia a valanghe. Penso che sia una donna di cui potrei anche innamorarmi!
   Comunque sia, non chiedetemi se è meglio film o il libro perché non vi so rispondere. Entrambi sono molto belli ma forse, per quel che sono, è riuscito meglio il film.

mercoledì 27 febbraio 2013

Hunger games - Suzanne Collins

   Spinta dalla curiosità e da quanto il film mi era piaciuto quando sono andata a vederlo l’anno scorso, ho letto Hunger Games, il nuovo fenomeno teenager librario di massa.
   Devo ammettere che anche se sapevo come sarebbe andato a finire mi è piaciuto moltissimo, e apprezzo che ci sia un fenomeno di massa diverso da un cattivo che s’innamora di una bella, sconfiggono altri cattivi con il loro aMMore e vivono per sempre felici e contenti.
 
Tipo questo... giusto per fare un esempio!
(Il commento della Meyer rende tutto ancora più sospetto.)
   Ci sono un bel po’ di cose da dire a proposito di Hunger Games, per cui mettetevi comodi e godetevi questa recensione.
 
La trama
   Katniss Everdeen vive nel Disdretto 12, il più povero fra tutti, in una terra che si chiama Panem (ex nord America). A causa di una rivoluzione dei tredici distretti (il tedicesimo venne poi letteralmente raso al suolo), attaccarono Capitol City, ogni anno, da settantaquattro anni, la capitale organizza gli Hunger Games, per tenere sotto controllo la nazione.
   Un maschio e una femmina di ogni distretto, di età compresa fra i dodici e i diciotto anni, vengono portati in un’arena per combattere fino alla morte. L’ultimo sopravvissuto vince gli Hunger Games e, oltre a salvarsi la vita, che non è male, diventa ricco e famoso in tutta Panem, siccome lo show è diretto in mondovisione ed è obbligatorio guardarlo.
   Per salvare la sorellina minore, che viene scelta alla Mietitura, Katniss si offre volontaria come Tributo per partecipare agli Hunger Games, e assieme a lei viene scelto Peeta Mellark, il figlio del panettiere, il classico ragazzo che non ucciderebbe neanche una mosca.
   Sul treno che li scorta a Capitol City conoscono il loro mentore, l’unico vincitore del distretto 12, Haymitch Abernathy. Durante i pochi giorni che passano da quando vengono portati a Capitol City Haymitch li aiuterà a capire come sopravvivere agli Hunger Games, consigliando loro come essere simpatici al pubblico e ai ricchi sponsor, che possono procurargli aiuto quando saranno nell’arena.
 
 
   A causa di una frase detta da Peeta il pubblico pensa che lui e Katniss siano innamorati, quando è palese che lo è solo Peeta, e Katniss pensa invece a come sopravvivere e tornare a casa dalla sua famiglia.
   Gli Hunger Games hanno inizio, e Katniss, nell’arena (un enorme bosco), riesce a sfuggire a tutti grazie alle tecniche di sopravvivenza imparate e alla sua abilità nella caccia. Il tempo passa e molti Tributi vengono uccisi, compresa la ragazzina di soli dodici anni con cui Katniss si era alleata, Rue.
   Quando l’annuncio che le regole sono state cambiate, e che i vincitori possono essere due, purché dello stesso Distretto, Katniss trova Peeta. Il ragazzo è ridotto in fin di vita, con un grosso taglio sulla coscia che si è infettato. Facendo finta di essersi innamorata di lui, Katniss ottiene il favore degli spettatori e degli Sponsor, che gli mandano cibo e medicine.
   Nell’arena rimangono solo Katniss, Peeta e Cato, uno dei più pericolosi Tributi. Cato rimane ucciso dalle belve che vengono create per mettere in difficoltà gli ultimi giocatori e rimangono solo Katniss e Peeta. Alla loro sopravvivenza gli organizzatori, detti Strateghi, cambiano idea e decidono che deve esserci un solo vincitore (come si suppone avessero già deciso fin dall'inizio), ma Katniss propone a Peeta di non dare loro nessuno vincitore, e di mangiare delle bacche velenose. All’ultimo secondo, appena prima di ingoiare le bacche, vengono proclamati entrambi vincitori dei settantaquattresimi Hunger Games.
   Alla fine dei giochi è chiaro che Katniss non è innamorata di Peeta e che il sindaco Snow di Capitol City reputa Katniss una pedina pericolosa. I due vincitori fanno ritorno nel distretto 12, ma la capitale non ha ancora perdonato Katniss.
 
Suzanne Collins
L’idea
   Non posso dire che quella della Collins sia stata un’idea del tutto nuova. Ad esempio c’è Battle Royal, in cui il principio è più o meno lo stesso, e quando siamo arrivati al decimo Grande Fratello in molti hanno espresso l’idea di «lasciarli rinchiusi senza cibo e vedere chi sopravvive alla fine.», il che, a mio parere, libererebbe il mondo da certa gente spaventosa. Tuttavia Susanne Collins l’ha pensata molto meglio di altri.
   In un certo senso è tutto molto semplicistico, le spiegazioni che vengono date riguardo agli Hunger Games e all’organizzazione del “nuovo mondo” creato dalla Collins sono molto basiche. Nonostante questo il romanzo non ne perde molto, ed essendo un libro indirizzato principalmente ad un pubblico di ragazzi la cosa è comprensibile.
   L’unico fatto che mi sento di criticare qui è il modo in cui vengono presi certi atteggiamenti. Mi spiego meglio: l’idea della morte e delle sue conseguenza psicologiche e sociali è presa alla leggera, a mio parere. Anche se si intuisce che i personaggi la ritengono una cosa orribile, non viene sprecata una parola al riguardo.
   Il mondo futuristico di Panem creato dalla Collins mi piace molto. Forse perché è così esagerato dal punto di vista estetico, e da un lato anche perché mi piace l’idea che ci siano degli Hunger Games. Non tanto per la storia dei “giochi” in sé, ma perché si aprono infinite possibilità riguardo a come la popolazione si potrebbe ribellare (e so che lo farà nel prossimi libri). Non solo con le armi, ma anche con la psicologia.
   In fondo viene detto chiaramente che gli Hunger Games non sono stati creati per dare al pubblico violenza, ma per far capire ai Distretti che Capitol City ha tutte le loro vite nelle sue mani. A questo punto i modi per rivoltarsi diventano centinaia, e la cosa più interessante è che riguardano soprattutto l’aspetto psicologico. Un esempio lampante è come Katniss e Peeta sono sopravvissuti: minacciando la malriuscita degli Hunger Games, lasciando la popolazione senza vincitori, alla fine sono riusciti a sopravvivere entrambi.
 
I personaggi nel film
Lo stile e i personaggi
   Stile semplice e adatto al pubblico che vuole colpire. Susanne Collins non è certo un genio della retorica, ma in questo caso è la storia la cosa più interessante, e lo stile non è essenziale per la lettura.
   La prima persona a mio parere è stata una scelta un po’ infelice, perché ti fa già capire come finirà il libro. Certo, uno potrebbe anche pensare che si tratti di un diario di memorie, o che la storia termini tragicamente, ma già dall’inizio si capisce che non è questo tipo di libro (sarebbe come se Harry Potter morisse e vincesse Voldemort!).
   I personaggi risultano a volte un po’ piatti, ma non tutti, e non in maniera tanto drammatica come in altri casi.
   L’unico difetto della protagonista (e il fatto che abbia trovato un solo difetto è già una conquista enorme!) è che, anche se Peeta le fa una corte spietata e per nulla nascosta, lei non si rende conto di nulla fino alla fine, il che è una cosa stupida dato che ci pensa un bel po’ a Peeta – nonostante la costante minaccia di morte che grava sulla sua testa. In compenso mi piace perché è un po’ stronzetta, perché si sbaciucchia Peeta senza ritegno per prendere in giro il mondo intero e avere più sponsor degli altri.
    Non pensiate che a me piacciano particolarmente i personaggi negativi, solo che mi piace vederli con qualche difetto. Inoltre, in una situazione di vita o morte, Katniss è del tutto giustificata a comportarsi da stronza, qualora lo volesse.
   Peeta Mellark mi piace come personaggio. La scrittrice le ha dato una personalità vera, a tutto tondo. Riesco a immaginare benissimo un tipo come Peeta nella vita reale, ed è per questo che mi piace. Forse anche per questa ragione mi dispiace molto per la sua sfortunatissima vita sentimentale. Fa la figura del ragazzo un po’ tonto, ma non credo che sia così: secondo me lui è ottimista, pensa sempre il meglio delle persone, e si capisce dal suo comportamento. Il fatto che si possano fare supposizioni come questa sul carattere di un personaggio, significa che è stato realizzato bene, o no? Non si possono fare supposizioni su personaggi noiosi o prevedibili.
   Gli altri sono poco o niente caratterizzati, perlopiù stanno sullo sfondo e si beccano la simpatia ma più spesso l’odio e il disprezzo di Katniss.
 
In conclusione
   Di certo leggerò anche gli altri libri, attendo i prossimi film con aspettativa, e sono molto curiosa di sapere come continuerà la storia. Sono molto esigente, e spero di non venire delusa, ma sono anche ottimista e credo proprio che i prossimi libri mi piaceranno.
   Felici Hunger Games, e possa la fortuna sempre essere a vostro favore!