venerdì 20 novembre 2015

Carta straccia #2: Noi siamo grandi come la vita – Ava Dellaira

Quando vedi una copertina come quella di “Noi siamo grandi come la vita”, di Ava Dellaira, ti affascina. Quando leggi di cosa parla, te ne innamori. Quando infine porti a termine la lettura… è allora è che capisci che era una gran fregatura (ed in quanto fregatura, vi farò degli spoiler).
 
La storia è raccontata dalla protagonista Laurel attraverso delle lettere che inizia a scrivere per un compito in classe assegnatole dalla sua professoressa: «Scrivi una lettera a una persona che non c’è più.» Laurel, che ha da pochi mesi perso la sorella maggiore May, scrive a Kurt Cobain, che era stato il suo idolo. Comincia così una fitta corrispondenza fra lei e molti personaggi famosi scomparsi. In queste lettere la ragazza racconta le sue esperienze, i suoi desideri, le paure, e più volte fa riferimento alla morte della sorella, parlandone come se fosse sua responsabilità.
In quell’anno di lettere mai spedite Laurel fa amicizia con due ragazze che, fra timori e gioie, si scoprono innamorate, con una coppia di giovani più grandi in cui ognuno dovrà imparare a seguire la propria strada, e si innamora di Sky, un ragazzo misterioso di cui nessuno sa molto. Vive con rabbia l’abbandono di sua madre che, dopo la morte della figlia più grande, ha cambiato città e abita lontano, e vede con rammarico il padre soffrire per la perdita della figlia maggiore.
Capiamo subito che l’amore di Laurel per la sorella era così grande da sconfinare nella cieca ammirazione. Voleva essere bella come lei, tosta come lei, avere il suo coraggio, il suo stile, ed entrare un po’ in quel mondo di adulti – o quasi – di cui May iniziava a fare parte, mentre a Laurel sembrava di rimanere fuori, piccola e insignificante.
Solo alla fine del romanzo la protagonista ha il coraggio di raccontare alla famiglia ciò che è successo veramente. Sua sorella frequentava di nascosto un ragazzo più grande e, con la scusa di andare al cinema con la sorellina, si vedeva con il fidanzato lasciando Laurel con un amico di lui, che la molestava. Il giorno in cui Laurel glielo confessa, May, ubriaca e triste a causa della sua relazione, ha un incidente e cade da una scarpata. Laurel porta per molti mesi con sé il peso di quell’incidente, poiché pensa che se non fosse stato per la sua rivelazione, forse May non sarebbe mai caduta.
Laurel infine ammette con sé stessa che sua sorella non era perfetta e non era forte come si mostrava davanti agli altri, ma decide di accettarla per quello che era, ricordandola solo con gioia.
 
Non so bene come cominciare questa recensione. Magari inizio col dire che questo romanzo mi ha fatta arrabbiare. Non gli trovo nemmeno un dettaglio che vada bene, né dal punto di vista stilistico né da quello morale.
In primis lo stile, non la cosa peggiore che ci sia nel romanzo ma una di quelle. Se pensiamo che le lettere sono scritte da una ragazza di quindici anni possiamo capire come mai sia semplice, senza troppe pretese, e i concetti di per sé infantili. Mi sta bene. Però deve essere coerente, proseguire nello stesso modo per tutta la narrazione. Verso la fine, momento di maggior coinvolgimento emotivo, l’autrice ha deciso di inserire in ogni pagina lunghe diserzioni dal taglio poetico e profondo, paragoni arditi, frasi ad effetto. Intanto mi domando perché prima non c’erano se a scrivere è sempre la stessa persona (per carità, si può maturare uno stile, ma deve essere graduale), e poi devo ammettere che dopo un po’ perdevano di qualsiasi funzione, diventavano addirittura fastidiose. Non perché a scriverle fosse una quindicenne, ma perché ne scriveva una ogni due righe.
Ava Dellaira
I personaggi sono quasi tutti senza spessore, prevedibili e in alcuni casi irrazionali. Laurel ad esempio si comporta per tre quarti del libro in maniera stupida, irresponsabile, a volte odiosa. Stiamo parlando di una ragazza che passa un momento difficile, oltretutto durante l’adolescenza. Ha perso la sorella, la sua famiglia si è disgregata, ha la sua prima cotta e deve affrontare tutti i giorni la scuola e le sue piccole battaglie. Da questo punto di vista è comprensibile che sia irresponsabile e a volte odiosa. Però ha quindici anni. E alla fine del libro ne ha sedici. Quindi spiegatemi perché all’improvviso Laurel ha questa illuminazione pazzesca e comincia a ragionare e comportarsi come un’adulta responsabile, passando in una settimana scarsa da una maturità di sedicenne ad una di una ventiseienne.
Ma non è questa la cosa che mi ha infastidito più di tutte. Credo che ci sia stata una grande mancanza di sensibilità da parte dell’autrice. Sono convinta che quando si trattano argomenti delicati sia giusto dare loro lo spazio necessario, l’importanza giusta. Lo spazio che nel romanzo viene dedicato ai soprusi che Laurel subisce sono una minima parte, e nessuno reagisce da normale essere umano quando lo scopre. Capisco che lei stessa non sappia come reagire, in fondo parliamo di una ragazzina e penso che in una situazione come quella anche molte donne non saprebbero cosa fare, ma quando lo dice ai genitori questi si limitano ad un «mi dispiace che ti sia accaduto questo». Poi la mandano dallo psicologo. …voglio dire, are you fucking kidding me? In quale universo un genitore reagisce così mollemente nel sapere di terribili traumi e ingiustizie perpetrati a danni dei propri figli?!
A meno che non lo faccia consapevolmente, apposta per turbare o per far pensare, un libro non può liquidare una faccenda importante come un molestatore di ragazzine in due pagine. La Dellaira ha preso una faccenda delicata come l’abuso e l’ha liquidata rendendola una macchietta trascurabile e apparentemente un ostacolo facilmente aggirabile della protagonista. Ha messo a posto la faccenda in due parole, tanto Laurel va dallo psicologo ed è di nuovo felice, i suoi genitori le chiedono scusa per non essersi resi conto di niente e lei diventa adulta e responsabile. Tutto sistemato no?
Mmmm.... no.
 
 
Ero convinta di questo libro. Un po’ per la copertina, lo ammetto (anche l’occhio vuole la sua parte, lo dico sempre al Fidanzato quando guardo Daryl di TWD), un po’ per le lettere a tutti quei personaggi famosi scomparsi, un po’ per il mistero della morte che aleggiava in tutta la storia, ma alla fine sono rimasta più che delusa, arrabbiata.
L’unica cosa che mi ha spinta a terminarlo è stato scoprire il famoso mistero sulla morte di May che, alla fine, mi ha fatta arrabbiare ancora di più.
Lo sconsiglio a chiunque e non mi sento di salvarlo sotto nessun punto di vista.

giovedì 5 novembre 2015

Abbasso la sezione per ragazzi!

Quando ero ragazzina e mi trovavo nella mia fase fantasy a livello acuto, in libreria gironzolavo sempre nel reparto dedicato ai ragazzi. Lì ho trovato moltissimi libri che ho amato e tutt’ora adoro e conservo gelosamente nella mia libreria – o per meglio dire nei mobili che si sono ritrovati loro malgrado ad essere librerie, dato che non so più dove mettere i libri.
Poco tempo fa mi è capitato di vedere, nella biblioteca dove vado di solito, il terzo libro della saga “Abarat”, di Clive Barker, negli scaffali dedicati a bambini e ragazzi.
Non conoscete questo titolo? Lo sapevo. Non lo conosce quasi nessuno, non ho mai incontrato nessuno che lo conoscesse, anzi di solito sono io a consigliarlo a tutti (se qualcuno di voi lo conosce me lo dica, lo lovverò).
Vi basti sapere che è dello stesso autore che ha scritto “Hellraiser”. Nel libro ci sono mostri con dieci occhi sparpagliati sulla faccia, altri con tre bocche che possono parlare con gli insetti e ci vivono pure, personaggi malvagi che schiavizzano bambini e altri che uccidono gente con i propri incubi. Non so di cosa fosse fatto Barker quando lo ha scritto, ma di certo era roba potente. E vi parlo solo del primo libro. Nelle sue intenzioni “Abarat” dovrebbe essere un pentalogia che, mannaggia a lui!, non è ancora finita. Comunque sia ho già letto l’ultima uscita in inglese e vi confermo che segue lo stesso andazzo del primo e del secondo libro.
Quindi la mia domanda è: perché si trova nel reparto bambini?
A questa domanda ne sono seguite altre, e da queste è nato il post che state leggendo.
 
 
Fino a quando abbiamo nove o dieci anni è giusto che i libri abbiano un’età consigliata. Quando i bambini sono piccoli anche due o tre anni fanno la differenza e magari si rischia di comprare un libro troppo semplice o troppo complesso.
Credo che si possano dividere per età fino alla preadolescenza, quando poi nei bambini vengono sparati ormoni come si aprono gli idranti su una folla. Spuntano i brufoli, i ragazzini cominciano a chiudersi in camera e a dire che i genitori gli fanno due palle così (posso appurarlo con la mia dolce nipote, che a volte desidero lanciare fuori dalla finestra, e non ha nemmeno quindici anni).
Quando si cominciano ad avere undici o dodici anni, allora mettere dei paletti sulle letture può essere più complicato. Ci sono romanzi con temi delicati che vengono però trattati con un’ottica comprensibile, ci sono libri dalla trama semplice e una prosa complessa. Inoltre si deve prendere in considerazione la maturità che un ragazzino di quell’età sta conquistando, che è del tutto soggettiva.
 
In un’intervista un signore che aveva letto, da bambino, “Lo hobbit”, ricorda la recensione che ne scrisse per suo padre, che aveva una piccola casa editrice ed era amico di Tolkien. Da bambino, lo consigliava ad altri bambini di circa nove anni. Rimasi basita quando vidi questa intervista perché io avevo letto “Lo hobbit” alle medie e lo avevo trovato un bel mattoncino, per quanto piacevole.
Questa è la prova che un ragazzino può leggere, comprendere e apprezzare molto più di quel che immaginiamo. Chiudere la loro immaginazione e la passione per la lettura nella ‘sezione per ragazzi’ non è giusto. Dovremmo solo informarci prima sui che libri vogliono leggere e, nel caso non siano adatti, non comprarglieli. Se non parlano di argomenti troppo adulti per la loro età, è un problema che siano faticosi da leggere? Davvero dobbiamo proteggerli dai classici perché sono pesanti, dai romanzi di formazione perché potrebbero avere qualche contenuto che li porta a farsi delle domande?
A volte mi sembra che dividere la sezione ‘per ragazzi’ dalle altre sia come dare un fermo alla lettura. Prima o poi questi ragazzi si stuferanno delle letture consigliate che, per l’80%, sono tutte abbastanza simili le une alle altre. Inoltre proteggerli dai libri brutti e cattivi non adatti a loro non è compito della libreria, bensì dei genitori o di chi vuole comprare loro un libro. Dando un’occhiata veloce queste persone possono capire subito che va bene “Harry Potter” e un po’ meno “Trono di spade”.
Cosa c’è di meglio di leggere un libro un poco ostico ma che ci piace, arrivare alla fine e vedere che ce l’abbiamo fatta? Più facciamo fatica a ottenere qualcosa, più siamo soddisfatti quando arriviamo al traguardo. Perché rendere la lettura qualcosa di facile? Qualcosa di scontato, senza emozione di per sé? Se diamo ai ragazzi libri facili non gli stiamo rendendo più comoda la vita, li stiamo allontanando dalla lettura. Leggere qualcosa che un team di esperti ha considerato adatto alla loro età significa fargli leggere qualcosa su concetti già assimilati. Vuol dire non scoprire. Mentre invece i libri servono proprio a quello, fare esperienze su qualcosa di nuovo.
 
 
Non mi aspettavo che questo post uscisse così ricco di contenuti, ma alla fine così è stato. Almeno, a me sembra ricco – forse è un’idea mia.
Le conclusioni che ne traggo sono le seguenti: Rivoluzione! Aboliamo le sezioni per ragazzi!
A parte gli scherzi, credo che sarebbe un buon modo per rendere la lettura più interessante per chi vi si avvicina da molto giovane. Forse farebbe bene anche ad alcuni adulti, pieni di libri seri e impegnativi, prendere in mano un romanzo e scoprire che si tratta di un libricino semplice, di poche pretese, che tuttavia li conquista.