domenica 11 novembre 2018

Furore - John Steinbeck


“Non è se possiamo, è se vogliamo. […] Perché se è ‘possiamo’, allora non possiamo niente, manco andare in California né niente; ma se è ‘vogliamo’, be’, allora facciamo come vogliamo.”

Lo so, questa frase infonde speranza. Ma non fatevi ingannare, la speranza è l’ultima cosa che si trova in “Furore”. O meglio, si trova, ma appena appena, giusto un goccio e solo dopo che ti è stata strappata via. Te la ripropongono solo per sadismo, immagino, perché è come se Steinbeck te la infilasse a forza sotto le unghie, assieme al sale grosso.
Dopo aver capito l’andazzo del romanzo ho cominciato a leggerlo aspettandomi il peggio in ogni pagina, e neanche così è stato abbastanza.

Negli anni ’30 molte zone del centro degli Stati Uniti vennero colpite da quella che chiamarono Dust Bowl, una serie di tempeste di sabbia che per anni impedirono agli agricoltori di coltivare la terra. La maggior parte delle famiglie finirono per indebitarsi e persero le proprietà, così buona parte della popolazione migrò in California, dove si diceva cercassero moltissimi braccianti.
Il romanzo narra del viaggio della famiglia Joad, che parte dall’Oklahoma carica di tutti gli ultimi loro possedimenti, su un vecchio furgoncino vendutogli a un prezzo disonesto. Macinano un kilometro dopo l’altro, in un viaggio estenuante, che si porta via gli anziani nonni a causa del dolore di lasciare la propria terra, unite alla fatica della traversata. La famiglia inizia così a disgregarsi, soprattutto quando le voci che cominciano ad arrivare alle loro orecchie dicono che di lavoro, in California, non ce n’è. I Joad non vogliono crederci – perché dovrebbero prendersi la briga di stampare volantini e far girare la notizia, se di braccianti non hanno bisogno? – e raggiungono la California.
È dura scoprire che le voci sono vere. Che le persone come loro, che hanno dovuto abbandonare le loro case, vivono ai margini della città, in baraccopoli sporche e miserabili, che procurano vergogna al solo vederle, per lo stato in cui sono ridotte e in cui si sono ridotti coloro che abitano. È dura scoprire che le persone che abitano le città li disprezzano, li chiamano okie, li credono fannulloni, ladri, agitatori di masse. Tutti pensano sempre il peggio di loro, che vivono nella sporcizia per scelta, e non perché non possono comprarsi neanche del sapone, che non vogliano lavorare ma piuttosto mangiare a sbafo, che desiderano paghe più alte per vivere nella bambagia, quando la verità è che con trenta centesimi al giorno non possono neanche sfamarci la famiglia.
I Joad si ritrovano insieme a moltissimi altri, centinaia, forse migliaia, a lottare per ottenere un lavoro. Lavori duri, malpagati, lavori che dai più disperati vengono accettati solo per un pasto caldo e un luogo dove dormire all’asciutto – sia anche un vagone abbandonato del treno o un baracca. Ed è allora che la rabbia cresce, quando i bambini hanno fame e gli uomini sono costretti a umiliarsi e non rispondere agli insulti per non finire in prigione, quando si abbassa la testa per non perdere il posto e ci si fa chiamare “maledetti okie”. La rabbia cresce ed esplode quando i grandi proprietari tacciono sullo stipendio e ti fanno pagare anche il sacco che usi per raccogliere il loro cotone. E quando chi ha il coraggio di alzare la voce viene ucciso e sul giornale annunciano solo di aver trovato l’ennesimo barbone morto a causa del freddo; e i campi dove sono montate le tende vengono dati alle fiamme; e i colpevoli non vengono mai trovati; e la polizia arresta invece chi vuole formare un sindacato con falsa accusa di vagabondaggio.
È allora che i grappoli del furore sono maturi.

Penso di aver parlato talmente tanto di questo romanzo, con così tante persone e così spesso, mentre lo leggevo, che adesso che mi trovo a scriverne la recensione non so più cosa dire.
…sul serio.
Vediamo cosa viene fuori con un po’ di flusso di coscienza.

La prima cosa che mi viene mente riguarda il linguaggio. Ne avevo avuto già un bellissimo esempio, di questo tratto di Steinbeck, con “Uomini e topi”. Un linguaggio semplice, grezzo, ma che arriva dritto al punto. Sapevo che quel breve romanzo era scritto per adattarsi in seguito a spettacolo teatrale indirizzato soprattutto alla classe medio/bassa, con un’istruzione piuttosto limitata, e pensavo fosse quella la ragione di tanta semplicità, ma non è così.
Essendo “Furore” un romanzo di più ampio respiro sono stata in grado di cogliere lo stile dell’autore, in questa scelta. Il linguaggio di Steinbeck si può definire ‘terra terra’, se vogliamo, grossolano, a volte proprio grammaticalmente sbagliato. Nei dialoghi è normale, essendo i protagonisti mezzadri che hanno un’istruzione minima, che venga utilizzato un linguaggio di questo genere, o il romanzo risulterebbe non veritiero, artificioso e forse addirittura fastidioso. Ma anche nel narrato Steinbeck sceglie di allinearsi a questo modo di parlare, limandolo appena, un modo spiccio ma estremamente schietto e diretto.
La cosa che mi è piaciuta di più di questo modo di scrivere è come contrasta con la profondità degli argomenti trattati. Esposte con questo linguaggio le lunghe dissertazioni che spesso occupano interi capitoli, creano una contrapposizione netta e quasi paradossale, eppure bellissima da leggere proprio per questo motivo. Credo di aver trovato, in questo romanzo, gli argomenti più profondi e toccanti di cui io abbia mai letto, come la vita e la morte, la colpa, il peccato, la povertà e ciò che si è disposti a fare per i propri cari, il dolore non fisico ma spirituale. In breve, la natura umana, che è ciò che Steinbeck riesce a tirare fuori in ogni occasione, in ogni storia, anche quella che ad una prima occhiata può sembrare unicamente un romanzo sociale. E togliere quella patina di sacralità da argomenti tanto complessi, che mai a mio parere riusciremo a comprendere fino in fondo, li rende in qualche modo più accessibili, più comprensibili. E ci fa anche rendere conto che è il pensiero fine a se stesso ciò che accomuna tutti gli uomini, che non importa il ceto sociale, la cultura, l’intelligenza. Ogni persona, in ogni epoca, è proprietaria di un mondo interiore immenso.

L’avete mai visto un fagiano, che vola tutto teso, bello con quelle penne disegnate e tutte dipinte, e pure gli occhi dipinti? Poi, bum! Lo raccattate, ed è solo un cencio insanguinato, e allora capite che avete sfasciato qualcosa che era meglio di voi; e manco mangiarlo vi cambia niente, perché avete sfasciato qualcosa che stava dentro di voi, e non la potrete riaggiustare.

E dopo questo stralcio non mi sento di dire più niente. Non c’è più niente che io possa dire che vada oltre, dopo questa frase (Steinbeck è riuscito a uccidere qualsiasi tentativo di spiegare il suo romanzo, con un estratto come questo).
Una delle più meravigliose del libro, per me, e che volevo condividere.