Ricordo benissimo come sono arrivata a
questo libro. In biblioteca avevo visto, fra le novità, “L’altro inizio”, che
mi aveva incuriosita sin dalla copertina. Leggendo la trama ho scoperto
che era il terzo della “MaddAddam Trilogy”, così sono incappata in “L’ultimo
degli uomini” (titolo originale: Oryx and Crake), dell’autrice canadese
Margaret Atwood.
Di solito evito le saghe ed è da anni
che non ne inizio una. Ha giocato a favore di questa il fatto che fosse già
conclusa, il che mi risparmia l’attesa spasmodica per il prossimo volume,
inoltre la trama è troppo, troppo interessante.
La narrazione alterna il presente al
passato senza uno schema preciso, apparentemente in base ai ricordi del
protagonista, che in seguito ad un disastro di portata mondiale rimane l’unico
essere umano sulla terra. Ha abbandonato il suo vecchio nome, Jimmy, per
riferirsi a sé stesso con l’appellativo di Uomo delle Nevi.
Il mondo in cui vive è tossico. Uomo delle Nevi non può
stare al sole per troppo tempo, non può fare il bagno in mare, deve dormire su
un albero a causa degli animali pericolosi creati dall’uomo tramite
manipolazione genetica, e che ora popolano la terra e si stanno inselvatichendo.
Gli unici a far compagnia al protagonista sono i cosiddetti Figli di Crake.
Creati per essere perfetti, copiano
molti dei comportamenti animali e il loro DNA è costruito ad hoc per evitare
tutto ciò che gli umani hanno di ‘sbagliato’. Mangiano solo radici ed erbe, non
conoscono la territorialità se non per proteggere la loro specie, possono vivere solamente trent’anni e, una volta raggiunta
la maturità, si riproducono solamente ogni tre anni. I meccanismi che regolano
la loro società sono costruiti per evitare diseguaglianze razziali, poiché i
Figli di Crake nascono ognuno con un colore diverso di pelle, sessuali, poiché
la loro specie non conosce il desiderio se non in relazione alla riproduzione
in determinati periodi. Dovrebbero essere la specie che salverà il mondo, pensata
per sostituire gli umani e vivere in armonia con la natura.
Uomo delle Nevi ricorda e si interroga.
Come si è arrivati a tanto? C’era un modo diverso da quello escogitato dal suo
migliore amico, Crake, per cambiare le cose o si era giunti troppo in là?
Credo di averne già parlato in relazione
a “L’atlante delle nuvole”, di David Mitchell. La mia idea riguardo alla
tecnologia e di come la stiamo utilizzando può essere definita… forse poco
popolare. Ma credo che sia ciò che l’autrice di questo libro vuole dire: il
fatto che possiamo fare qualcosa non significa che dobbiamo per forza farlo.
Il libro è ambientato in un futuro che,
secondo me, non è poi così improbabile. La manipolazione genetica nel romanzo ha raggiunto
livelli di eccellenza tali da poter creare una nuova specie, quindi nulla di
ciò che potete immaginare è impossibile. Gli scienziati hanno creato degli
animali, i proporci, per tenere in incubazione organi umani da usare nei
trapianti; i bambini si programmano con caratteristiche decise dai genitori;
hanno inventato una macchina che fa nascere e nutre solo il petto del pollo, un
petto fatto di sola carne che succhia nutrimento e non pensa, non sente dolore,
non è chiaro se la sua possa considerarsi vita, ma nutre migliaia di persone e
quindi perché non usarlo?
I cittadini che stanno meglio vivono nei
Recinti, piccole oasi di benessere che crescono attorno alle grandi aziende, che
forniscono ai loro dipendenti tutto ciò di cui hanno bisogno: case, scuole,
centri commerciali, ospedali, e tutto quel che la città deve offrire. Fuori dai
Recinti ci sono le Plebopoli, ossia il resto del mondo. La terra è devastata dal
clima terrestre che si è fatto ostile a causa dello sfruttamento senza
controllo di ogni risorsa naturale, ci sono carestie, criminalità, povertà,
ignoranza.
La cosa che mi ha fatto riflettere è che
il mondo dipinto dall’autrice non mi sembra così strano o incomprensibile.
Laddove la scienza può tenta sempre di fare qualcosa, e quando si pensa di aver
raggiunto un risultato ci si domanda: «Perché non andare oltre?». Tuttavia a
mio parere ci sono dei limiti che non dovrebbero essere superati anche avendo
la possibilità di farlo. A questo punto dovremmo chiederci: chi ha il diritto
di decidere qual è il punto da non superare?
Nel romanzo ci sono alcune cose che di
certo siamo portati ad aborrire, come il petto di pollo fine a sé stesso (fa ridere dirlo così, ma la descrizione è aberrante), o il
fatto che gli esseri umani si fanno trapiantare organi che crescono dentro
fabbriche a forma di maiale. Siamo in un futuro che ha eliminato alcuni dei
tabù che noi conosciamo, utilizzando gli animali a piacimento dell’uomo. Ma non
abbiamo già iniziato questo processo? Facciamo esperimenti sugli animali, li
usiamo come cavie, li cloniamo. La vita stessa dell’animale ha un significato
diverso dalla vita umana, quindi non trovo strano che l’uomo, in un futuro,
possa giustificare qualsiasi mutazione genetica sugli animali in base al fatto
che «tanto sono animali».
Da qui a fare la stessa cosa sulle
persone, quanta distanza c’è? Da qui al futuro che la Atwood dipinge così cupo,
manca davvero tanto?
Mano a mano che il tempo passa stiamo
perdendo molti dei nostri tabù, è già accaduto. Pensiamo di poter disporre del
mondo come vogliamo e solo negli ultimi decenni si sta creando una coscienza
collettiva, perché ci stiamo rendendo conto che la terra non è una fonte
inesauribile di energia e che l’abbiamo danneggiata.
“L’ultimo degli uomini” ci presenta un
mondo già al termine della sua vita. Una società umana priva di morale, una
terra sull’orlo del disastro ambientale. Pensare che possa essere possibile mi
ha un po’ inquietata, per questo vi consiglio di leggere il romanzo. E di
farlo leggere ad altri, che magari lo faranno leggere ad altri.
E così un giorno, chissà, magari
eviteremo di mangiare pollo transgenico.