venerdì 29 dicembre 2017

Cent’anni di solitudine – Gabriel Garcìa Màrquez

Una premessa: le feste non sono il mio forte.
Non odio il Natale, ma lui assorbe tutte le mie energie e il mio tempo. Faccio l’albero, compro i regali, organizzo, cucino, impacchetto, e quindi non faccio nient’altro a parte l’essenziale per sopravvivere. Insomma, tutto questo per dire che non riesco a stare dietro al blog, quindi auguri di Buon Natale in ritardo a tutti e Buone Feste per tutte quelle che verranno (nel caso non riuscissi ad aggiornare fino a dopo la Befana)!

Ma passiamo alla recensione di oggi, per la quale ci vuole una seconda premessa:
Una volta sottolineavo le citazioni sui libri ma, prendendone molti in prestito alla biblioteca, ho cominciato a scrivermi le citazioni più carine su un quadernino. Ho iniziato a farlo anche con i libri comprati, per non rovinarli. Capita spesso che un libro che mi è piaciuto molto sia foriero di molte citazioni. Almeno, fino ad ora era stato così, adesso c’è un’eccezione.
“Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcìa Màrquez è la mia eccezione.

I coniugi Buendìa e altre giovani famiglie partono dal loro paese di origine e si inoltrano nella foresta, in cerca di un luogo perfetto per fondare un nuovo villaggio. E proprio vicino a un fiume, quasi del tutto isolato dal resto della Colombia, circondato da alberi e a qualche kilometro dalle case più vicine, nasce Macondo. Il villaggio è ricco di vita, pace, curiosità, e non fa altro che ingrandirsi e fiorire. Esattamente come la famiglia Buendìa, che dà vita a due maschi che vengono chiamati con il nome del padre, e una femmina.
Inizia così la storia della famiglia, famiglia cui lo zingaro Melquìades legge il futuro all’inizio della loro esistenza, consegnandolo alla memoria di un fascio di pergamene che nessuno riesce a decifrare. Molti ci provano nel corso degli anni, ma la storia di Macondo esige attenzione altrove e le vecchie pergamene che celano il futuro dei Buendìa vengono dimenticate.
Il patriarca dei Buendìa impazzisce di saggezza e per questo viene legato ad un albero. Il figlio maggiore torna dopo una fuga di anni solo per essere ucciso in circostanze misteriose, il minore va alla guerra ed entra nella storia della Colombia, ma termina la sua vita modellando pesciolini d’oro nel suo laboratorio. I tanti figli cui hanno dato vita, legittimi o illegittimi che siano, proseguono la stirpe combattendo per i diritti dei lavoratori nel grande sciopero a danni della compagnia bananiera che si insedierà vicino a Macondo, altri combatteranno per un amore ostacolato dalla famiglia, altri ancora verranno dimenticati, assassinati, esiliati. E pian piano la famiglia che un tempo era impetuosa e forte come le rapide di un fiume, si assottiglierà fino a divenire un rigagnolo fangoso.
Perché qualunque cosa accada le cose andranno in un solo modo, come aveva predetto lo zingaro Melquìades, come le pergamene ammuffite hanno profetizzato, come svelano solo dopo cento anni di infruttuosi tentativi di decifrazione: “Il primo della stirpe è legato ad un albero, l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche”.

Ci credereste che, con oltre trecento pagine di libro, non ho trovato una sola citazione?
E ci credereste che questo libro, nonostante ciò, mi è piaciuto un sacco?
E ci credereste che anni fa lo avevo abbandonato, insoddisfatta?
Ebbene, ci dovete credere perché è così.

I miei genitori sono sudamericani e, come tutti i bravi sudamericani che ho conosciuto in vita mia (tanti) tengono in gran conto gli scrittori di cui l’america latina può vantarsi, esattamente come gli italiani che ho conosciuto (sempre tanti) sono fieri dei loro nobel per la letteratura. Per questo probabilmente ho sempre avuto il nome di questo autore nelle orecchie, da quando ho imparato a leggere.
Almeno tre degli scrittori che pressoché tutti i sudamericani hanno letto almeno una volta nella vita sono Mario Vergas Llosa, Pablo Neruda e ovviamente Gabriel Garcìa Marquez. È come Dante per il Bel Paese, in qualche modo ne vieni impregnato, che ti piaccia o meno, che tu lo capisca o no. Fa parte di te, perché lui fa parte dell’america latina.
Ci ho messo un po’ per compiere questo passo della cultura sudamericana (che a me sembra quasi un rito di passaggio, una specie di battesimo latino, come bere il pisco o mangiare rocoto relleno), ma meglio tardi che mai, no?

Ho iniziato questa recensione, ma in realtà non so bene cosa dire a proposito di Cent’anni di solitudine. Credo di aver capito perché non sono riuscita a trovare citazioni ‘collezionabili’.
Tutto in questo romanzo sarebbe da citare, perché ogni frase è strettamente legata a quella dopo, come una catena indistruttibile. E quando lo si finisce di leggere si capisce che l’inizio è legato alla fine, che l’inizio è esso stesso una fine e la fine è un inizio.
Troppo complesso da spiegare, dovreste leggerlo. Detesto dirlo, ma non c’è modo di parlarne se non lo si ha letto. Potrei raccontarvelo nei dettagli, ma tutto ciò che esiste di magico e incredibile perderebbe la sua magia e la sua incredibilità, e rimarrebbe ciò che rimane di un’eccellente idea in mano ad un lettore entusiasta: occhi brillanti e spiegazioni sconclusionate.


sabato 9 dicembre 2017

Autori autorevoli

Busti di Virginia Woolf, Roma, Collezione privata.
Di recente mi è capitato di leggere autori considerati mostri sacri della letteratura. Alcuni hanno vinto premi ambiti, altri sono considerati fra gli autori contemporanei più interessanti, altri ancora hanno sfornato classici senza tempo. Quelli più famosi e ‘intellettuali’ sono autori cui mi avvicino con fatica e un certo timore, per la loro stazza letteraria. Scopro però che alcuni sono piacevolmente leggeri, più leggeri di quanto mi aspettassi, altri sono incomprensibili. Ma una cosa li accomuna tutti, vengono considerati grandi scrittori. Faccio qualche nome, giusto per capire di cosa stiamo parlando:
L’ultimo libro che ho finito di leggere è di Gabriel Garcia Marquez, ed è arrivato subito dopo Joseph Conrad. Prima ancora ho avuto l’occasione di scoprire Don Delillo, Margaret Atwood, John Steinbeck. Questo è il tenore delle mie letture al momento, anche se intervallate con qualche cosa di più leggero ogni tanto (dopo il viaggio nella jungla di Conrad, ci vuole!).
Non posso dire che tutti i romanzi mi siano piaciuti, ma non posso negare che gli autori siano particolarmente talentuosi. Quindi mi sono chiesta, che cosa fa di un autore un grande autore?

Charles Dickens, Centennials Park, Sydney
Ovviamente non so darmi una risposta, anzi questo post è più un pensare a voce alta, cercare di raggruppare i pensieri per trarne qualche cosa. Scusate se vi tedio con post balordamente pesanti durante le preparazioni per il Natale (sto odiando l’albero, impossibile da collocare in una stanza senza che rompa le palline di Natale), ma nonostante le feste mi faccio questa domanda.
Pensando alla mia esperienza di grande autrice- no, bazinga! Pensando, piuttosto, alla mia esperienza di lettrice, mi è difficile capire quando sono di fronte ad un autore… diciamo autorevole. Uno di quelli che si capiscono bene solo grazie ad una preparazione, e nei cui libri si scoprono sempre nuovi significati sepolti sempre più in profondità. Insomma, autori intellettualoidi, che nel migliore dei casi ti fanno due balle così a forza di leggerli, nel peggiore ti fondono le idee nel cervello e ti lasciano senza sicurezze.
Ma che differenza c’è fra McCourt che racconta la miseria dell’Irlanda del secolo scorso, e Hugo che racconta quella della Francia del secolo ancora prima? Che differenza fra le storie di amore e magia della Allende e le saghe familiari di Garcìa Màrquez?

Io credo che la differenza stia nello scopo. Questi artisti hanno voluto una doppia lettura dei loro romanzi, che può essere sociale, intellettuale, che può essere lo studio dell’animo umano, ma pur sempre un qualcosa di celato dietro pagine appartenente innocue che raccontano una storia. Il messaggio che hanno veicolato arriva allora forte e chiaro ai lettori, mette in discussione verità che oggi o in passato avevano bisogno di essere messe in discussione, questioni lontane dal mero vivere e che siamo tutti troppo occupati per prendere in considerazione.
Poi si può essere d’accordo o meno, si può apprezzare o meno lo stile, la trama e i personaggi che, in questi casi, sono un supporto ad un’idea invece che l’idea stessa. Forse è questa la differenza fra un autore che è un colosso della scrittura e un bravissimo autore di narrativa che è capace, coinvolgente ma non scatena particolare dibattito. Forse bisogna essere un colosso nelle idee, nel pensiero, nel coraggio di esprimere la propria opinione.

E dopo tutto ciò, accenderò il mio albero di Natale.

domenica 3 dicembre 2017

Libri a confronto: USA

Di recente mi è capitato di leggere in rapida sequenza due romanzi che, a giudicare dai commenti e dalle recensioni che avevo letto in giro, avrei potuto anche paragonare. Dopo aver letto il primo ho pensato che sarebbe stato interessante leggere anche l’altro che, per un caso fortuito, mi è capitato fra le mani. Il fatto è che uno mi è piaciuto moltissimo, l’altro non mi è piaciuto affatto.
Sto parlando di “Canto della pianura” di Kent Haruf e “Uomini e topi” di John Steinbeck.
E so che vi state domandando quale mi è piaciuto e quale no, quindi iniziamo.

Ho letto per primo Haruf, incuriosita dalle ottime recensioni che, più o meno da due anni, spopolano nel web. All’inizio non volevo piegarmi, perché la trama non mi sembrava interessante e dopo aver letto un paio di recensioni ho cominciato a evitarle senza nemmeno leggerne un rigo. Mi ha infine convinta l’uscita dell’ultimo romanzo, “Le nostre anime di notte”, e il modo in cui lettori appassionati vi si sono gettati sopra, come se attorno a noi ci fosse solo l’apocalisse letteraria e Haruf fosse l’ultimo faro di speranza in un mondo altrimenti oscuro.
Per chi non fosse al corrente, “Canto della pianura” intreccia le storie di pochi personaggi, tutti abitanti della cittadina di Holt. Non viene specificato l’anno o il luogo, ma è facile riconoscervi quell’America rurale del sud degli Stati Uniti, dove si trovano ancora le fattorie e la campagna sconfinata, un paese dove tutti si conoscono e sanno i fatti altrui, e se da un lato dilaga l’ignoranza dall’altro è uno dei pochi luoghi in cui si può trovare gente caritatevole e genuina.
Lontana dagli scintillanti grattacieli cui siamo abituati a pensare quando si parla di USA, Holt è quadro di diverse storie. Victoria, sedicenne incinta, viene cacciata di casa dalla madre e trova ospitalità da due anziani fratelli che gestiscono un terreno. L’insegnante di storia Guthrie ha da dimostrare la sua buona fede con la famiglia di un suo allievo, poiché i genitori sono convinti che egli maltratti il figlio adolescente con pessimi voti immeritati. I suoi bambini nel frattempo crescono con una madre che, affetta da depressione, passa tutto il tempo in una stanza buia e sono alla ricerca della dolcezza che ella ha smesso di dare.

Non è stato premeditato, ma poco dopo mi sono ritrovata a leggere per la prima volta Steinbeck, sempre titubante in quanto grande classico americano e timorosa di non poterlo comprendere fino in fondo. Era da molto che avevo questo libro in wishlist e, finalmente, sono riuscita a procurarmelo in una vecchia edizione, con la traduzione di Cesare Pavese e libera da introduzioni e commenti di altri, così ho potuto leggerlo a mente sgombra, senza sapere cosa aspettarmi.
Il romanzo, quasi un racconto per lunghezza, ha protagonisti George e Lennie, due lavoranti che si spostano di fattoria in fattoria a cercar lavoro. George è piccolo e astuto, mentre Lennie ha il cervello di un bambino nel corpo di un gigante. Il sogno di entrambi è mettere da parte i soldi per comprare un terreno tutto loro dove alleveranno galline, avranno un orto, dove potranno decidere loro quando lavorare e quando no ma, soprattutto, un posto dove allevare conigli. Infatti Lennie adora gli animali di piccola taglia dal pelo soffice, ma ogni volta che ne trova uno lo carezza talmente tanto che finisce per ammazzarlo. Sembra quasi che il loro desiderio stia per realizzarsi grazie a un socio in affari, quando Lennie uccide senza nemmeno rendersene conto la moglie del padrone, poiché quella prende sottogamba sia la forza che il difetto di intelligenza dell’uomo. Lennie fugge in un luogo tranquillo ma viene seguito da un gruppo di uomini decisi a linciarlo. Il primo a trovarlo però è George che, per farlo scampare alla sofferenza, gli racconta ancora una volta della loro fattoria, lo rassicura sul loro avvenire, e gli spara alla nuca.

Ora che ho finito di scrivere la trama di “Uomini e topi”, avrei voglia di parlare solamente di questo libro…
Nel caso ve lo stiate ancora chiedendo, è stato lui quello che mi è piaciuto.
Ma non credo che ve lo stiate ancora chiedendo.

Ho sentito dire che Steinbeck ha fatto da base ad autori come Haruf, tuttavia in “Canto della pianura” non ho trovato un grammo dell’intensità che invece cattura il lettore in “Uomini e topi”. Capisco perché i due romanzi sono stati a volte paragonati: l’ambientazione simile, lo stile semplice e scorrevole, i dialoghi estremamente chiari e le descrizioni del paesaggio che, secondo me, denotano un grande amore per la terra di cui si parla. È vero, in questo i due romanzi si somigliano grazie a certi dettagli di stile e tematiche, e allora perché Steinbeck mi ha emozionato in modo inversamente proporzionale ad Haruf?
Credo che sia perché le intenzioni di Steinbeck erano più definite ed energiche di quelle di Haruf. Certo, le mie sono solo supposizioni, ma laddove mi sembra che Haruf abbia scritto per amore dell’atto in sé, per amore delle storie e del paese di cui scriveva (tutti motivi bellissimi, è indubbio), Steinbeck ha scritto per scuotere gli animi.
“Uomini e topi” parla di operai agli operai, tutto nel romanzo è progettato per loro, perché il messaggio arrivi forte e chiaro. Il linguaggio semplice, perché spesso i lavoranti non sapevano leggere molto o affatto, i dialoghi squisitamente sbagliati dal punto di vista grammaticale, i personaggi vividi eppure così estremamente umani! Sono tutti tasselli che vanno a rendere la storia particolarmente intensa e che, in Haruf, mancano di una spinta.

Ho trovato i due romanzi molto diversi, e non penso che possano essere paragonati solo in base al fatto che sono ambientati nello stesso territorio. La carica emotiva che Steinbeck infonde al romanzo, prima dipingendo la vita dura e le speranze dei protagonisti per poi distruggerli come unica soluzione alla sofferenza, manca totalmente in Haruf, sia per la natura delle situazioni raccontate che, io credo, per uno stile differente.
I personaggi di “Canto della pianura” sono in balìa della corrente, non sanno cosa vogliono e attendono il futuro con la speranza che sia meglio del presente, eppure non sognano qualcosa in particolare né si rimboccano le maniche per uscire dalla situazione in cui si trovano. Per tutto il libro mi sono parsi apatici, quasi depressi, incapaci di reagire.
In fin dei conti penso che la grande differenza fra questi due romanzi non sia tanto la storia o l’epoca, ma la capacità dell’autore di rendere la drammaticità delle situazioni. Haruf ha messo i suoi personaggi in posizioni difficili, eppure provare pena per loro è quasi impossibile perché ogni cosa viene presentata piattamente. Steinbeck ha concentrato in meno pagine personaggi più intensi, che compaiono anche poco nella storia ma riescono a trasmettere la loro angoscia, e questo emoziona molto più di una vicenda in sé drammatica.
Non posso che concludere consigliando caldamente “Uomini e topi”. È perdurato nel tempo nonostante sia profondamente legato alla sua epoca, perché analizzando ciò che voleva denunciare Steinbeck ha colto le ragioni profonde dell’ingiustizia, dovute alla natura umana più che alle regole ritorte della società.



«Per noi è diverso. Noi abbiamo un avvenire. Noi abbiamo qualcuno a cui parlare, a cui importa qualcosa di noi. Non ci tocca di sederci all’osteria e gettar via i nostri soldi, solamente perché non c’è un altro posto dove andare. Ma se quegli altri li mettono in prigione, possono crepare perché a nessuno gliene importa. Noi invece è diverso.»
Lennie interruppe. «Noi invece è diverso! E perché? Perché… perché ci sei tu che pensi a me e ci sono io che penso a te, ecco perché.»

domenica 19 novembre 2017

La figlia della fortuna – Isabel Allende

Non ricordo quando ho letto per la prima volta Isabel Allende, deve essere stato in terza media o poco dopo (a pensarci adesso infatti non è che capissi proprio tutti i passaggi), ma è una delle autrici che conosco da più tempo, e della quale ho letto molto. Ricordo ad esempio quanto fossi contenta dell’uscita di “La città delle bestie”, dato che già avevo letto “La casa degli spiriti” e mi era piaciuta. Inoltre la trilogia che ne seguì era per ragazzi, ed ero più felice di leggere una storia più leggera.
Il mio rapporto con la Allende dura da parecchio insomma, anche se è una di quelle autrici con la quale non sono al passo e che leggo sporadicamente, nonostante la apprezzi molto. Mi sono ricordata di lei qualche tempo fa e, non appena ne ho avuta l’opportunità, ho recuperato un suo vecchio romanzo e ho iniziato a leggere “La figlia della fortuna”.

Il 1800 è appena iniziato e Vàlparaiso è una delle cittadine più importanti del Cile. Viene scelta come approdo dai fratelli Sommers, che fuggono da uno scandalo che li ha colpiti in Inghilterra, e lì decidono di mettere radici. La famiglia è composta da tre fratelli, il capitano John, che passa più tempo per mare che in terra, l’uomo d’affari Jeremy e dalla solare e bellissima Rose. Quando quest’ultima si trova davanti alla porta una neonata avvolta in un panciotto la adotta e la cresce come una figlia, dandole il nome di Eliza.
La bambina cresce alla maniera inglese, imparando come ci si comporta da signorina e con tutti gli agi di una lady, pur sviluppando un forte legame con la sua terra grazie alle cure della domestica, una india che lei chiama Mama Frésia. L’idillio finisce quando la ragazza si innamora di Joaquin Andieta, un giovane dalle idee rivoluzionarie con il quale intreccia una relazione passionale, fatta di incontri sussurrati, di sogni per il futuro e di piani per fuggire insieme. Almeno fino a quando non accadono due cose: in California scoppia la febbre dell’oro ed Eliza rimane incinta.
Joaquin si imbarca verso l’avventura e l’ignoto, con l’intento di tornare ricco e sposare Eliza, senza sapere che lei aspetta un figlio. Passano poche settimane e la ragazza, che nasconde a fatica la gravidanza, prende una decisione folle, ma ferma: raggiungerà il suo amato in California.
Grazie all’aiuto di un giovane medico cinese riesce a salire su una nave come clandestina, ma durante la traversata perde il bambino. Quando i due sbarcano a San Francisco scoprono un mondo ricco di possibilità, libero dalle regole che conosceva Eliza e bisognoso dell’aiuto che un medico come Tao Chi’en può offrire.
Tuttavia la California si rivela anche molto diversa da ciò che raccontavano. Invece della terra ricca di pepite d’oro che promettevano esiste solo la fatica dei minatori, un dilagante razzismo contro gli stranieri di ogni dove, che i gringos non fanno che fomentare, e terre ignote e sconfinate, pericolosissime se percorse da soli.
Eliza si mette in viaggio alla ricerca di Joaquin Andieta, pur tenendosi sempre in contatto con Tao Chi’en, cheè diventato il suo più caro amico. Per viaggiare più comoda e sicura si finge uomo, e si spaccia per il fratello minore di Andieta, così che i viaggiatori e le compagnie che trova lungo la strada cominciano a chiamarlo ‘el chilenito’. Ma i mesi passano e i ricordi dell’amante si fanno sfocati, i contorni della sua immagine svaniscono fra le terre selvagge della California, che inghiotte tutti i suoi tentativi. Joaquin Andieta si fa sempre più lontano dal cuore e dalla mente di Eliza, occupata da altre avventure e da nuovi affetti, mentre all’orizzonte comincia a profilarsi l’immagine di un bandito la cui storia assomiglia pericolosamente a quella di Joaquin.

Ultimamente con i libri è un periodo un po’ sfigato. Fatico a trovarne uno che mi catturi e ne ho lasciati molti a metà (fortuna che con la biblioteca i rimpianti sono meno!). Circa a metà di questo romanzo stavo per arrendermi e scartarlo come l’ennesimo che non è stato di mio gusto, perché una buona parte è dedicata all’infanzia e all’adolescenza di Eliza.
All’inizio è piacevole, come tutti i libri della Allende. L’autrice immerge il lettore nella storia con una delicatezza e un calore tali che leggerla è come rientrare a casa mentre fuori nevica, e trovare un camino acceso e dei colori vivaci a darci il benvenuto. Si conoscono i personaggi, si apprezza il ritmo della storia, calmo ma inarrestabile. Dopo un po’, tuttavia, forse proprio per chi già conosce la Allende, la storia comincia a perdere di attrattiva.
L’infanzia dorata e sognante della protagonista, in un Chile presentato in maniera estremamente vivida, somiglia molto a quella di altre sue eroine, tanto che ci si chiede quando finirà. Ma se tenete duro e riuscite a superare lo scoglio, il resto è tutto in discesa. Infatti dopo la partenza di Eliza il romanzo diventa più avvincente, abbandona le tinte rosa che ha mantenuto fino a questo momento e il realismo magico tipico dell’autrice si smorza. Ed ecco che il libro diventa speciale, caratteristico: un romanzo d’avventura, ambientato nel selvaggio west di metà ottocento!

Oltre a questo, ho adorato tutti i personaggi, cosa che fino ad ora non mi era mai successo. Tutti, anche quelli che rimangono in secondo piano o quelli più eclettici, sono veri e adorabili e nascondono una natura umanissima dietro cliché studiati, che definirei più che altro preconcetti. Ogni personaggio si comporta come ci aspettiamo che si debba comportare, almeno fino a un certo punto. Mano a mano che li si conosce si scoprono sempre più segreti, si capisce il perché delle loro azioni e del loro carattere, cambiano assieme alla storia e si lasciano alle spalle il personaggio un po’ maschera con il quale avevano iniziato il viaggio.
Il mio preferito è Tao Chi’en, il medico cinese reinventatosi cuoco su una nave. La storia di Tao Chi’en, per buona parte della sua vita noto solo come Il Quarto Figlio, è avvincente, appassionante, dolce e triste al tempo stesso. Sono rimasta conquistata dalla furbizia di Tao, che trova modo più volte di salvarsi la pelle, è avido di apprendere e, anche se ha vacillato in alcuni periodi della sua vita, si è rimesso in piedi e ha infine deciso di dedicarsi vita ad una causa nobile, seppur pericolosa.
I fratelli Sommers sono alcuni dei miei personaggi preferiti, per forza di cose quella che mi è piaciuta di più è Rose, perché è la più approfondita. Una donna elegante, allegra, che ha preso quel nubilato forzato che lo scandalo le ha imposto come l’opportunità per vivere libera. I piccoli segreti della donna, che vengono svelati tutti solo alla fine del romanzo, le conferiscono un’aura di mistero che non si vuole penetrare, per mantenere intatta la figura affascinante di lei.
Anche il gruppo delle tre prostitute, dette Colombe Infangate, capitanate dalla mastodontica Joe Spaccaossa e accompagnate da Babalù Il Cattivo e da un bambino indiano, mi è piaciuto. A completare il gruppo sarà El Chilenito, che metterà le sue doti di pianista a servizio dell’attività della Spaccaossa, creando con gli altri ciò che più si avvicina a un focolare nelle due carrette trainate da cavalli che usano come rifugio.

L’unica cosa che non ho apprezzato è la fine del romanzo, che secondo me si svolge troppo velocemente. Tutto viene spiegato e sistemato (anche se una parte viene totalmente lasciata all’immaginazione del lettore, e molto lo veniamo a sapere da piccole rivelazioni riguardo al futuro, che l’autrice ha sparso lungo la narrazione), ma troppo in fretta per i miei gusti, come se la narrazione dovesse finire in fretta e furia.
Ho letto il libro sul kindle e quando ero alla fine ho cominciato a chiedermi se il file non fosse danneggiato, perché mi segnalava che stavo per terminare il libro, ma mi sembrava ci fossero ancora così tante cose da dire!, e non potevano essere dette in così poco tempo. Invece la Allende le ha dette, con la sveltezza e il rigore di un riassunto, quasi, e la cosa mi è dispiaciuta.

“La figlia della fortuna” rimane un romanzo godibile, che a tratti mi ha appassionata molto, anche se non lo ritengo uno dei migliori lavori di Isabel Allende.
Ovviamente questo non significa che non leggerò altri suoi romanzi! Avrò sempre un occhio di riguardo per quest’autrice, che ha la capacità di incantare con le sue storie.


venerdì 10 novembre 2017

La ballata di Adam Henry – Ian McEwan

Ci sono autori che mi incutono soggezione, al punto da essere dubbiosa se leggerli o meno. Penso che siano difficili, che serva una particolare conoscenza per capirli e apprezzarli, e ogni volta che inizio un loro libro ho paura di non essere all’altezza. Probabilmente sono intimidita dalle critiche positive ricche di paroloni, o dal fatto che abbiano vinto premi importanti, o anche dai temi trattati nei loro romanzi e mi dico, «Sì, adoro leggere, ma lo faccio per svago».
In questo modo ho affrontato Don DeLillo, con “Zero k”, e ne sono rimasta perplessa e un po’ delusa. Questo era lo stato d’animo con cui mi sono avvicinata a Ian McEwan, scegliendo un romanzo la cui trama trovavo interessante, ossia “La ballata di Adam Henry”, credendo che in questo modo avrei avuto meno difficoltà. Ho cominciato a leggere piena di dubbi e, in poco tempo, mi sono scoperta totalmente assorbita da questo libricino sottile.
A voi la trama (completa, quindi se non volete spoiler non leggete oltre, sciocchi!

Il giudice Fiona Maye lavora alla Sezione Famiglia dell’Alta Corte Britannica e, per arrivare dov’è adesso, ha dato tutto. Assieme al marito Jack, docente di lettere all’università, ha raggiunto una vita stabile e tranquilla, fatta di piccoli riti quotidiani, tenerezze, una bella cerchia di amici e parenti. Unico cruccio è stato non aver avuto figli, né essersi decisi per l’adozione, ma per Fiona è ormai un capitolo sorpassato che torna ogni tanto a farsi sentire, ma mai con decisione.
La narrazione si apre una sera, nell’appartamento della coppia. La protagonista sorseggia uno scotch, senza sapere come reagire alla confessione del marito, che le ha appena rivelato di averla tradita con una donna più giovane. Nel bel mezzo della litigata con Jack, che le rinfaccia di essersi allontanata e di essere diventata fredda con lui, Fiona riceve un’urgente telefonata di lavoro.
Il giorno dopo, ancora turbata dalla situazione a casa, incontra i signori Henry, contro i quali l’ospedale che ha ricoverato il figlio ha intentato una causa. Adam Henry è malato di leucemia e solo una trasfusione può salvarlo, tuttavia i genitori la rifiutano in quanto testimoni di Geova. Fiona ascolta le deposizioni dei genitori, dei membri della loro chiesa e degli specialisti che hanno in cura il ragazzo, infine decide di andare a parlare con Adam.
Il giovane che si trova davanti è fermamente convinto dei precetti della propria fede ed è d’accordo con i genitori nel non procedere con la trasfusione. Fiona lo ascolta attentamente, cercando di decidere quanto il ragazzo sia padrone di sé stesso, quanto sia influenzato dai genitori e dalla propria religione. Adam ha quasi diciotto anni e il confine fra la sua volontà e la legge che protegge i minori è più labile. Fiona scorge nel ragazzo un grande entusiasmo per la vita, è intelligente, brillante, divertente e ha un vero talento per suonare il violino. Si pronuncia in favore dell’ospedale e Adam Henry ha salva la vita.
Passano i mesi e la situazione di Jack e Fiona diventa stabile, seppur tesa. Lui ha lasciato l’amante ma non smette di essere adirato con la moglie per essersi allontanata, mentre la situazione rende lei ancora più caustica nei suoi confronti. Nel frattempo Fiona viene a sapere da una lettera di Henry stesso che il ragazzo si è ripreso, inoltre chiede più volte di incontrarla e le parla dei dubbi che ha sulla propria fede. Una sera, mentre Fiona partecipa ad una trasferta per lavoro, il giovane la bracca e la costringe a parlargli, riuscendo a rubarle un bacio a fior di labbra. Fiona lo carica su un taxi e lo rimanda a casa, cercando di dimenticare il prima possibile la faccenda.
Qualche mese dopo viene a sapere che Adam è morto. Ripresentatasi la leucemia il ragazzo ha rifiutato la trasfusione e non è sopravvissuto. È allora che Fiona si rende conto della leggerezza che ha usato con lui, rifiutando l’aiuto che egli chiedeva. Confessa tutto a suo marito Jack, in una serata che li riappacifica e distende finalmente i loro rapporti, permettendo a entrambi di tornare a capirsi.

Questo libro ha l’onore di essere l’eccezione che conferma la regola. Invece di fare come mio solito infatti, e lasciare la trama a metà per farla scoprire ai lettori, l’ho raccontata tutta senza tralasciare dettagli. Era come se avessi bisogno di farlo per poter analizzare il romanzo, e quindi ecco qui! Il fatto è che per parlare di “La ballata di Adam Henry” non si può lasciare la trama a metà, perché è pieno di emozione dalla prima all’ultima pagina.
Intanto cominciamo con il dire una cosa, ho trovato angoscioso come Fiona si accorga alla fine, quando è ormai troppo tardi, di aver rifiutato aiuto al ragazzo. Senza rendersene neanche conto, ha pensato che Adam si fosse preso una sorta di cotta adolescenziale, ha messo subito da parte i suoi dubbi riguardo alla religione, senza capire che quello che lui cercava era un guida, e la stava cercando in lei. I rimpianti di Fiona sono comprensibili e smuoverebbero un cuore di pietra: se fosse stata più attenta, se  si fosse confidata con qualcuno e avesse chiesto consiglio, se avesse incontrato il ragazzo o i suoi genitori, forse lui sarebbe vivo. Invece ha tenuto tutto nascosto e Adam è morto in quello che sembra un suicidio mascherato dietro convinzioni religiose – convinzioni che il ragazzo non condivideva più.
E il personaggio di Adam… non ci sono altre parole, è meraviglioso! McEwan ha dipinto l’età più bella, più luminosa, in maniera vivida e potente. L’entusiasmo, la scontrosità, le disperazioni e le gioie che sembrano non avere mai fine durante l’adolescenza, come se non ci fosse un domani e i ragazzi dovessero rimanere ragazzi per sempre. Ho adorato Adam Henry, mi ha commossa e mi ha fatto tenerezza, come pochi personaggi letterari hanno saputo fare.
Oltre a questo il tema della religione mi ha fatta riflettere molto, ma come al solito non sono arrivata a nessuna conclusione! Tuttavia mi ha colpita l’immagine dei coniugi Henry, che combattono per tener fede alle loro convinzioni, d’accordo con loro figlio, ma piangono di gioia quando il verdetto del giudice lo salva da una morte certa. Piangono perché non verranno espulsi dalla loro comunità per aver optato per la trasfusione, ma allo stesso tempo avranno il loro figliolo salvo perché non possono opporsi alla decisione del tribunale e Adam vivrà. Hanno, come si suol dire, la botte piena e la moglie ubriaca.
L’immagine della coppia devota che, pur costretta ad andare contro i suoi principi, ne è felice, mi ha lasciato destabilizzata. Comprensibilissimo certo, con me poi, che non sono mai stata credente, si sfonda una porta aperta. Tuttavia mi ha colpita come la fede e l’amore per i propri cari entri in conflitto, e come esistano persone che mettono avanti il proprio credo anche alla vita, e non so dire se sia bene o male.

Per concludere, questo romanzo da un centinaio di pagine mi ha tirato fuori considerazioni che libri ben più lunghi non hanno saputo nemmeno stuzzicare! Alla luce di ciò, l’unico modo in cui mi sento di concludere è dicendo: lo consiglio proprio a tutti.

venerdì 3 novembre 2017

Paris – Edward Rutherfurd

Non sono nata con la passione per il viaggio, da bambina non mi immaginavo in terre lontane, vestita da esploratrice, a scoprire nuovi mondi. Fu una gita scolastica a Parigi a insegnarmi la bellezza di scoprire una città nuova, sentire l’atmosfera che vi si respira, fare attenzione ai piccoli dettagli che la rendono diversa da ciò che conosciamo.
Complice il fatto di essere abbastanza grandi e in compagnia di ragazzi più piccoli, cui i professori prestavano più attenzione, invece di una gita sembrò una vacanza fra amici. Ricordo le corse in metro per rispettare gli orari imposti dagli insegnanti, ma anche le soste nei parchi a riposare e guardarci in giro, i musei immensi, i colori vividi della città, le stradine tortuose e i grandi viali. Ricordo la sensazione di serenità, come se tutto corresse veloce attorno a me ma io avessi la possibilità di prendermela con calma e godermi il momento.
Ho sempre una parola buona da spendere per Parigi e da quando l’ho lasciata attendo solo il momento di tornarci (è che ci sono così tanti posti da vedere, e un luogo nuovo suscita sempre più curiosità di uno già visitato). Per questo probabilmente fui così felice quando scoprii un romanzo storico ambientato proprio a Parigi, che ripercorre la storia della città dal medioevo all’illuminismo, dalla rivoluzione francese al periodo dorato della belle epoque, per poi sprofondare nell’occupazione tedesca e nel periodo della resistenza.

La narrazione si apre nel 1885, il giorno dei funerali di Victor Hugo. Come era stato festeggiato il suo ritorno in Francia dopo l’esilio, allo stesso modo la gente scende in piazza per dargli il definitivo addio. La folla si accalca nelle strade della capitale per omaggiare il grande autore seguendo il corteo funebre, ma le persone sono così tante che Thomas Gascon è costretto ad arrampicarsi su un edificio per vedere qualcosa, ed è in quella che vede una ragazza, così bella che decide che un giorno la sposerà.
Ci vuole un po’ per scoprire se Thomas riuscirà o meno nel suo intento. Infatti mentre lui e suo fratello Louis si arrangiano come possono per procurarsi da vivere (chi come operaio per monsieur Eiffel e chi come cameriere al Moulin Rouge), altre vicende e altri personaggi compaiono nella narrazione. I Gascon sono infatti solo una delle famiglie coinvolte, e nemmeno la più antica.
Abbiamo Jaques Le Sourd, discendente di colui che veniva soprannominato Ammazzaratti di Parigi, ed erede di nulla più che un sentimento di odio verso i nobili che hanno assassinato suo padre e il desiderio di vendetta verso uno di loro in particolare. La famiglia De Cygne, nobili con un titolo più importante delle loro finanze, che tuttavia godono ancora di una certa reputazione, nonostante la posizione dei nobili sia sempre più in discussione. Dall’altro lato i tre fratelli Blanchard, borghesi il cui padre ha saputo mettere in piedi un impero e facenti parte della nuova classe di ricchi. Infine la famiglia di Jacob il mercante, ebrei tornati a Parigi da poche generazioni, ignari dei pericoli che il secolo breve ha in serbo per loro.
Queste famiglie sono la rappresentazione di ciò che significava far parte di una determinata classe sociale, in un periodo in cui i contorni delle classi sociali, una volta netti, cominciano a sfaldarsi e mischiarsi. Le vicende principali inoltre hanno luogo in un paese ancora in subbuglio, fra sostenitori della monarchia e della repubblica, fra chi spera in un secondo Napoleone e chi curiosa fra marxismo e leninismo, senza dimenticare le glorie della rivoluzione e gli orrori del terrore.
La storia principale copre un arco di circa cento anni ma, a fare da stacco nei modi e nei momenti giusti, le vicende della Parigi antica, quella dove le famiglie che impariamo a conoscere sono protagoniste di vicende che cambieranno il corso della loro storia futura. La città medievale ci racconta delle origini della famiglia di Jacob ben Jacob e di come si salvò dalla cacciata degli ebrei dalla Francia. Anni dopo scopriamo come i Le Sourd abbiano radici profonde nella storia della città, seppure come ladri e ingannatori. La corte del re Sole invece narra come la famiglia De Cygne si salvò dall’oblio, e prima ancora come una ramo raggiunse il nuovo mondo e lì prosperò, nelle sconfinate terre del Canada.
 
La zona di Parigi denominata Maquis, la Macchia,
dove vivevano le famiglie più povere.
Leggendo “Paris” è subito chiaro che Rutherfurd ha compiuto un grande lavoro di studio, spaziando in ogni campo toccato dalla narrazione. Dalla storia della città e della Francia ai piccoli particolari dei sobborghi di Parigi, come il Maquis abitato dalla famiglia Gascon (che oggi non è più un sobborgo ma fa parte del cuore della città). Da questioni tecniche su come vennero costruite la torre Eiffel e la Statua della Libertà, ai giardini di ninfee di Claude Monet, che egli stesso fece costruire e coltivò nella sua proprietà. Molto spesso si tratta di dettagli che poco hanno a che vedere con la storia, ma che hanno il potere di renderla più reale.
I fatti storici sono veri e verificabili e anche i personaggi che non sono nati dalla penna dell’autore (Monet, Eiffel, Hemingway) hanno un realismo tutto particolare. Mi è capitato di leggere altri romanzi nei quali comparivano figure storiche realmente esistite, e non sono mai sembrati naturali. Gli autori muovevano questi personaggi in modo goffo, intimiditi dalla loro fama. Mi sembrava di avere a che fare con personaggi che l’autore non riusciva a far quadrare, con i quali aveva timore di sbagliare pur essendosi documentato. Rutherfurd invece è riuscito a rendere protagonisti anche pittori, autori e politici di spicco come se fossero personaggi inventati. Non avevano più importanza di altri, non declamavano frasi poetiche, ed era facile immaginarli a Parigi in un bistrot o a passeggio in un parco assieme agli altri protagonisti, dimenticandosi che hanno fatto la storia e vedendoli come semplici persone, esattamente come dovevano apparire all'epoca.

Devo ammettere che è passato un po’ di tempo da quando ho finito di leggere questo libro. Solo ora mi decido a scriverne la recensione e, nel frattempo, è finita una stagione, ho finito di leggere altri romanzi, ho appeso dei quadri in casa e i ricordi di questo libro sono sbiaditi. Per un attimo, prima di iniziare, avevo la tentazione di lasciar perdere perché non ricordavo alla perfezioni tutto e mi dispiaceva non essere precisa, perché l’ho letto con gli occhi che brillavano.
Se avessi scritto subito cosa pensavo di “Paris” ne sarebbe venuto fuori molto di più. Eppure anche così, a qualche mese di distanza, mi scopro a pensare con nostalgia alle atmosfere della vecchia Parigi, e il desiderio di tornarci è sempre più grande.
Leggerò altro di Edward Rutherfurd, questo è certo, a quanto ho capito i suoi romanzi sono più o meno dello stesso stampo, ma tutti in luoghi diversi. Un ottimo modo per scegliere la prossima destinazione delle vacanze!

Parigi, quartiere di Montmartre, oggi.

domenica 22 ottobre 2017

YOU'LL FLOAT TOO

Ieri sera sono andata a vedere IT al cinema.
Ho conosciuto la vecchia miniserie tardi, non l’ho vista come un sacco di gente della mia generazione, appartenente facendosela addosso al buio dopo essere tornati a casa da scuola il pomeriggio. L’ho vista quando ero abbastanza grande da capire che non potevo aspettarmi più di tanto da una serie per la tv, e anche abbastanza grande per capire che l’unica cosa veramente bella era Tim Curry.
Al film darei un 7-, voto di tutto rispetto secondo me, dato che viene da una persona che ha letto e amato l’originale (ed è da ieri sera che ho voglia di rileggerlo).

Un tempo pensavo che le trasposizioni cinematografiche dovessero essere il più fedeli possibile al libro, ma ora non sono della stessa idea.
Un libro può rendere molto più a livello di sensazioni, un film è migliore a un livello immediato. Mentre il libro si insinua sottopelle il film ti colpisce dritto in faccia, è comunque giusto che siano diversi per poter sfruttare al meglio le loro caratteristiche.
Questo non significa che un film possa distruggere un romanzo come e quando vuole, ma deve rispettare l’universo della storia. Ad esempio non mi interessa se ogni scena non riprende esattamente il libro, ma mi infastidisco se un personaggio viene snaturato, eliminato, o una situazione che ne lega altre viene ignorata. In questo IT è stato un film giusto: pur mettendo mano alla storia non ha ‘ucciso’ l’universo che King aveva creato, lo ha semplificato di molto. (C’è solo un dettaglio che non mi è andato giù, attenzione SPOILER: non puoi far morire Henry Bowers, deve comparire da pazzo psicotico nel prossimo!)

Ciò che mi è piaciuto del film è stata la parte più normale e tranquilla, quella che parla dei ragazzini e di come vivono l’estate. Il modo in cui si conoscono, le piccole storielle sentimentali che si vengono a creare, il loro rapporto d’amicizia che si fa più stretto grazie alle avventure cui vanno incontro (e non mi riferisco solo al mostro, ma anche ad esempio alla lotta con i bulli). L’atmosfera più piacevole, quella ricreata meglio, è l’infanzia e l’età strana in cui non sei più bambino ma non sei ancora nemmeno adolescente e più disincantato.
La parte meno riuscita è quella horror. Nulla da dire riguardo all’attore che ha interpretato il clown, inquietante pur con una caratterizzazione diversa da quella di Tim Curry ma, secondo me, voluta. I paragoni sarebbero stati inevitabili e penso che sia stato meglio allontanare le due interpretazioni di IT il più possibile, proprio per rendere il paragone difficile e inutile da fare. Questo Pennywise non è unicamente mostruoso, come quella della miniserie, ma anche a tratti ridicolo in un modo che mette i brividi.
Ciò che non mi è piaciuto è il modo in cui il film tenta di spaventarti: jumpscare, jumpscare ovunque. Credo che con un personaggio del genere, una storia così e degli effetti speciali che non puntavano al realismo, si dovevano usare tecniche più vecchie. Il jumpscare è facile, d’effetto, ma lascia insoddisfatti, non è una paura reale ma una paura d’impatto e inevitabile. La paura vera è quella che non finisce con la fine della scena ma quella che ti accompagna durante tutto il film, che fa salire la tensione poco a poco e la trascina fino alla fine tenendoti con il cuore in gola. Il tipo di paura utilizzata nei vecchi film, dove l’effetto speciale più tecnologico era il sangue finto e quindi si dovevano arrangiare con altri modi.
Un peccato per il film, ma penso che coloro che non hanno letto il libro possano restarne molto soddisfatti. Non lo saranno forse i fanatici di King, però io ad esempio, che accetto di buon grado un compromesso tra film e libro, sono stata abbastanza contenta e l’ho guardato con piacere.

Detto questo (e mi rendo conto che ho scritto più di quanto volessi in realtà) ecco il vero motivo del post. Dato che dovranno fare una seconda parte ho immaginato quali potessero essere gli attori che andranno ad interpretare i protagonisti. Non sono riuscita a basarmi più di tanto sulla fisicità degli attori ragazzini, ho pensato più ai personaggi adulti che dovevano diventare e ho scelto attori che apprezzo.

Bill Denbrough: Ryan Gosling
Ho appena visto “Blade runner 2049” e forse è stato quello il punto. Mi ero ricordata dell’esistenza di Gosling dopo aver visto “Drive” ma soprattutto “Veloce come un tuono”.
Riesco ad immaginarlo come capo della banda dei Perdenti, come quello che più di tutti è rimasto un po’ bambino e, proprio per questo, è la forza del gruppo. L’unico che crede ancora genuinamente nella magia di cui il gruppo è capace, che sa che superando i loro terrori e credendo in loro stessi potranno battere IT.

Ben Hanscom: Badley Cooper
Anche questa è una scelta dettata dall’ispirazione, e anche dal fatto di aver visto Bradley Cooper in alcuni film molto belli, a recitare parti complesse.
Penso che sia adatto a portare sullo schermo l’interiorità di uomo che ha una sorta di rivincita sulla vita. Da ragazzino grasso e preso in giro ad architetto benestante e richiesto. Tuttavia rimane un uomo timido, che non ha dimenticato il primo amore della sua vita.

Beverly Marsh: Jessica Chastain
E va bene, questa l’ho scelta perché ha i capelli rossi. Inoltre so che è un’attrice molto capace e può recitare ruoli intensi (vedi “The help” o “Interstellar”).

Richie Tozier: Joseph Gordon-Levitt
Adoro questo attore, lo conosco da anni e ho visto molti dei suoi film, sia commedie che film d’azione. Lo trovo bravo e per qualche motivo riesco ad immaginarlo benissimo a interpretare Richie ‘Boccaccia’ Tozier, lo smaliziato del gruppo, quello che ha sempre la battuta pronta e alleggerisce ogni situazione, ma che è forse il più fedele degli amici di Bill e lo seguirebbe fin nell’inferno – o nelle fogne.

Eddie Kaspbrak: Ben Whishaw
Adoro anche quest’attore, l’ho visto in diversi film e ho sempre trovato impressionante come riesca ad essere versatile. Non penso di poter paragonare nessuno dei ruoli in cui l’ho visto, perché in ogni personaggio in cui si è calato è stato completamente diverso, tanto da non sembrare la stessa persona.
Anche per questo lo ritengo adatto a fare Eddie, il ragazzino ipocondriaco oppresso dalla madre e, poi, un uomo oppresso dalla moglie. Condizionato dalle proprie fisime al punto da farvi ruotare attorno la propria vita, riesce nonostante questo a trovare il coraggio di combattere quando la situazione lo richiede, per l’appunto quasi trasformandosi in un altro.

Mi mancano Stan Uris, Mike Hanlon ed Henry Bowers, per i quali non ho trovato nessuno che mi convincesse e non volevo scegliere attori a caso.

Ammetto di essere curiosa di vedere la seconda parte, ma mi hanno già detto che uscirà nel 2019, quindi aspetterò. Non che sia un problema, è da quando avevo diciassette anni, cioè quando ho visto la versione vecchia, che attendo che ne facciano un remake. Sono paziente. Pazientate con me, e prima o poi galleggerete anche voi.


giovedì 5 ottobre 2017

Penna alla mano #6: Non perdiamoci in lungaggini

Molto spesso sento dire che la cosa peggiore per un romanzo è avere uno stile troppo ricercato o essere molto lungo. L’utilizzo di parole poco in uso, una sintassi arzigogolata, periodi lunghi cui si deve prestare molta attenzione e, nel complesso, un romanzo con tante pagine, è da evitare, soprattutto se si è uno scrittore alle prime pubblicazioni.
Certo, uno stile complesso richiede una lettura attenta e un editore può avere dei dubbi e dei ripensamenti nello scommettere su un autore semisconosciuto che gli porta un romanzo difficile da mandare giù, ma queste sono questioni editoriali, che hanno poco a che vedere – o dovrebbero averlo – con ciò che l’autore sceglie di scrivere e come lo scrive.

Esistono libri più difficili di altri, con uno stile unico e a volte proprio ostico, che piacciono comunque. Si pensi a tutti i classici che continuano a sopravvivere al tempo – anche a questi tempi, dove tutto è meglio quanto più è svelto – e anche ad alcuni autori moderni che si perdono in mezzo a periodi kilometrici o a flussi di coscienza incomprensibili. Non è facile leggere romanzi di questo calibro, ed è giusto che ci sia varietà nella scelta e che si possa anche avere una vasta fetta di libri scorrevoli, piacevoli e leggeri. Però mi chiedo se sia giusto dire agli autori che più semplificano, meglio sarà per i loro libri.
Frasi corte, sintassi basica, parole del parlato di tutti i giorni, non esagerare con le pagine, queste sono le regole per scrivere un libro. Un libro che vende. Forse è giusto, se la vediamo da un punto di vista prettamente editoriale. Il compito di un editore è quello di vendere libri. Sa che ne venderà di più con un certo tipo di storia e uno specifico stile, perché anche quel settore segue delle regole di mercato. Tuttavia non apprezzo che si diffonda l’idea della semplicità a tutti i costi, la necessità di modificare il proprio stile per piacere ai lettori. Chissà in quanti ci sono cascati! Penso che appiattisca il panorama librario. Ogni autore ha uno stile personale, non è corretto chiedere loro di produrre ciò che il mercato vuole, si dovrebbe chiedere loro di produrre e basta.
Se un autore modifica uno stile costruito negli anni, grazie a ore di pratica con la penna in mano e di teoria con un libro in grembo, per fare colpo su un editore, forse dovrebbe chiedersi perché scrive. Sono convinta che chi scrive solo per pubblicare ha bisogno di dare una rinfrescata alla memoria e ricordarsi perché ha iniziato. Perché di solito la cosa migliore dello scrivere è scrivere. Tutto quello che viene dopo può essere piacevole, ma superfluo alla passione per la scrittura.

Quindi, se c’è una conclusione a questo post, eccola: non modificate il vostro stile per piacere agli altri, modificatelo purché piaccia a voi!

lunedì 25 settembre 2017

Igiene dell'assassino - Amélie Nothomb

Ogni tanto decido di cambiare la citazione di inizio colonna, a sinistra del blog. Perlopiù sono frasi che hanno a che vedere con l’argomento principale del blog, quindi scrittura, libri, lettura e tutto ciò che vi ruota attorno.
Non appena ho iniziato a leggere questo libricino di poche pagine, qualche settimana fa, ho pensato subito che avrei trovato delle citazioni che potevo utilizzare, e in effetti non si è smentito. “Igiene dell’assassino”, di Amélie Nothomb, regala perle che valgono la citazione, e inoltre ve ne sono parecchie collegate all’argomento del blog, essendo uno dei protagonisti uno scrittore. Ma a inizio lettura non potevo indovinare quanto sgomento e malessere avrei provato leggendolo. E nemmeno quante risate mi sarei fatta, almeno fino ad un certo punto.

 L’autore premio nobel Pretextat Tach ha ancora un mese di vita e, in barba all’odio che prova per il mondo e il genere umano, ha deciso di concedere la sua prima intervista in una carriera durata almeno sessant’anni.
Il vecchio intimidisce già prima di incontrarlo, si tratta infatti di uno scrittore di grande fama e di una figura tanto lontana dai riflettori, tanto peculiare, che nessuno sa cosa aspettarsi. A prima vista si rimane sconvolti. Pretextat Tach è talmente obeso che per muoversi ha bisogno di una sedia a rotelle, è calvo, ma ha la pelle liscia, luminosa e morbida come quella di un neonato. L’incanto si spezza quando apre bocca.
Il divertimento unico dell’autore sembra essere quello di ridicolizzare i giornalisti che vogliono intervistarlo. Li sciocca con descrizioni dettagliate della sua dieta malsana e rivoltante, ribalta le loro stesse parole ingannandoli con la sua dialettica raffinata, allenata da anni di scrittura, li deride sottilmente e rende vano ogni tentativo di avere una conversazione logica. Almeno fino a che non arriva l’ultimo giornalista.
La giovane donna che comincia l’intervista a Tach prende in mano la situazione immediatamente, avendo intuito che il vecchio non ha la minima intenzione di essere intervistato, piuttosto desidera un passatempo crudele. Una volta messo in chiaro che lei non è lì per intervistarlo la giornalista gli svela il vero motivo per cui ha voluto incontrarlo: ha scoperto il suo segreto più grande, rivelato al mondo intero e quindi automaticamente celato nel migliore dei modi, e ha intenzione di farglielo confessare.

Mentre stavo scrivendo la trama ragionavo sul fatto di raccontarvi o meno svolgimento e finale ma poi, per rimanere fedele al mio principio di far scoprire i bei libri ai lettori, ho deciso di tacere. Per la prima volta ammetto che è stato difficile, perché vorrei parlarvi di molti degli aspetti di questo romanzo, che mi ha stupita e a tratti angustiata.
Il romanzo è quasi del tutto dialogato. Pochissime descrizioni, quasi tutte per inframmezzare il discorso e descrivere i movimenti dei protagonisti, o il loro tono di voce. Non c’è introspezione dei personaggi, ma questi si descrivono da soli, parlando. Così sembra proprio di conoscerli come si conosce una persona nella realtà: parlandole. Una persona ci può nascondere i suoi veri pensieri, si può tradire con certe espressioni, che valutiamo in base a cosa dice e come lo dice, e qui sta la forza del dialogo. Da questo punto di vista trovo che la Nothomb abbia fatto un lavoro eccellente. Non è facile far intendere la natura di un personaggio lasciando allo stesso la propria descrizione e solo con dei dialoghi, soprattutto se è un personaggio eclettico, ma lei ce l’ha fatta.
Ciò che ho preferito del romanzo è stato il lessico. Alto, ricercato, oscuro. Mi è capitato persino di dover usare il dizionario qualche volta, e ho l’impressione che l’autrice abbia scelto apposta vocaboli desueti o molto precisi, un po’ per caratterizzare il personaggio, un po’ per arricchire la storia e costringere il lettore all’attenti. Infatti si deve seguire con attenzione ogni passaggio per poterlo comprendere, ogni frase è un capolavoro di complessità grammaticale. Leggere questo libro è stato un piacere anche perché ogni singola virgola sembrava ponderata, ogni parola soppesata e ogni frase piena, ricca, essenziale in ogni sua particella. Mi viene in mente una citazione di “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery, che mi è sempre piaciuta:
Io credo che la grammatica sia una via d’accesso alla bellezza. Quando parliamo, quando leggiamo o quando scriviamo, ci rendiamo conto se abbiamo scritto o stiamo leggendo una bella frase. Siamo capaci di riconoscere una bella espressione o uno stile elegante. Ma quando si fa grammatica, si accede a un’altra dimensione della bellezza della lingua. Fare grammatica serve a sezionarla, guardare come è fatta, vederla nuda, in un certo senso. Ed è una cosa meravigliosa, perché pensiamo: “Ma guarda un po’ che roba, guarda un po’ com’è fatta bene! Quanto è solida, ingegnosa, acuta!”
Questo è, grossomodo, quello che ho pensato lungo tutta la lettura di “Igiene dell’assassino”.
 
L'autrice, Amélie Nothomb

Ma non c’è solo forma in questo libro, c’è anche una storia agghiacciante dietro. Il protagonista narra di una situazione inverosimile, quasi fantastica tanto è irreale, che suscita disgusto e quella morbosa curiosità di cui, chi più chi meno, tutti siamo dotati e che forse è insita nel genere umano. Il finale lascia interdetti, personalmente non l’ho apprezzato perché mi è parso cinico. Tuttavia ammetto che è d’effetto, coglie impreparati e lascia di stucco.
Altra cosa che mi ha stupita è che questo è il primo romanzo della Nothomb, pubblicato nel 1992 quando aveva solo ventisei anni.


Che altro dire di “Igiene dell’assassino”? Solo che vale la pena leggerlo, perché nessuna descrizione, recensione, riassunto, commento, potrebbe mai spiegare l’ingegnosa astuzia di questo libro, che cattura sin dalle prime pagine e non molla neanche una volta finito.