sabato 18 febbraio 2023

L'inevitabile leggerezza della lingua

  Qualche anno fa era molto il voga il discorso sulla lingua italiana, prima per via del femminile professionale e poi per i tentativi di introdurre la neutralità di genere in una lingua che, neutra, non lo è. Tutti ne parlano e dappertutto, dai professionisti ai politici, dai giornali ai social. Non è più un argomento caldissimo ma io ho di recente letto il saggio di Vera Gheno al riguardo, “Singolari femminili”, che si occupa proprio dell’introduzione del femminile professionale nel parlato di tutti i giorni.
   Ho letto questo saggio in parte perché immaginavo quale fosse la sua posizione, e magari volevo solo un po’ di sostegno da parte degli esperti. Avevo già sentito parlare dell’autrice, di professione sociolinguista, in un podcast se non ricordo male, e da allora è sempre rimasto un nome che ricordo. Quindi in parole povere, sì, io dico sindaca, assessora, architetta, e chi non desidera essere chiamata in quel modo può semplicemente dirmelo e mi correggerò.
   Non ho intenzione di sviscerare tutte le motivazioni che mi portano ad essere d’accordo con questa evoluzione della lingua, anche perché sono sempre le stesse che di certo avrete già sentito se avete chiacchierato dell’argomento anche solo una volta. Vorrei parlare di qualcosa di diverso su cui il saggio di Vera Gheno mi ha fatta riflettere.
  Coloro che si ergono a difesa dell’italiano, affermando che termini come portiera per indicare un portiere donna, non esistono, sono davvero convinti di fare il bene della nostra lingua. Io mi definisco femminista ed è uno dei motivi per cui sono d’accordo con questo cambiamento e non vedo né come possa essere contrastato, né perché dovremmo farlo (al contrario, credo dovremmo incoraggiarlo). Riconosco comunque che non tutti coloro che si battono per mantenere l’italiano com’è adesso sono maschilisti. Penso che ci sia una fetta di persone genuinamente devota alla lingua, che la vedono come qualcosa di sacro e immutabile, e per loro il modo in cui ci esprimiamo non ha nessuna relazione con il nostro credo politico o sociale.
   È questa fetta che, secondo me, non ci ha pensato più di tanto alla propria posizione.
  Oltre alle questioni sociali, sono d’accordo con il cambiamento proprio per una questione di lingua, perché mi piace la lingua. Le lingue, in generale, mi divertono. Mi piace scoprire l’etimologia di certe parole che vengono dal latino o dal greco. A volte mi capita di confrontare alcuni dialetti con lo spagnolo e ci sono tante parole che sono proprio uguali, come chicle, che significa gomma da masticare sia in spagnolo (quello sudamericano del Perù, che è quello che conosco per via dei miei genitori) che, a quanto pare, in provincia di Torino – così mi disse una ragazza torinese una volta. Oppure è divertente scoprire che alcune parole italiane di uso comune, come ad esempio bistecca, vengono da una modificazione dell’inglese beef steak, ossia ciò che chiedevano i soldati inglesi stanziati in Italia nelle osterie quando volevano vedersi servire una fiorentina.
   La lingua è in perpetuo cambiamento, basta pensare alle vecchie edizioni dei romanzi. Vi sarà capitato di avere per le mani un libro stampato negli anni ‘50, magari un classico straniero, e di confrontare il linguaggio utilizzato con quello dell’edizione aggiornata. Molte parole risultano desuete (un po’ come la parola desueto, se è per questo), e a volte la costruzione della frase pare macchinosa. Non è a causa del libro, è per via della traduzione. I traduttori hanno il compito di far comprendere al meglio ciò che un romanzo vuole comunicare, e se settant’anni fa era comune utilizzare la parola ‘figliuolo’ per riferirsi ad un giovane, oggi non avrebbe senso perché suonerebbe anacronistico, e il traduttore preferirebbe magari sostituirla con ‘ragazzo’, che rende meglio l’idea ad un lettore contemporaneo. Questi sono solo esempi, dato che non sono traduttrice, ma era giusto per rendere l’idea.
   La lingua cambia ad ogni generazione, ad ogni nuova invenzione, ad ogni contatto sempre più stretto che le nazioni hanno fra loro. Cambia al bisogno perché è viva, come noi. Solo le lingue morte hanno delle regole grammaticali granitiche, lingue che nessuno usa più. Ha senso dire che in latino non esisteva la parola pantaloni, perché non avevano bisogno di nominare qualcosa che non avevano. Ma quando qualcuno ha poi inventato la calzamaglia hanno avuto bisogno di introdurre questa nuova parola, perché avevano un indumento che non era una tunica e avevano bisogno che avesse un nome. Le lingue si reinventano perché i tempi cambiano, per aiutarci ad andare avanti. In realtà, magari senza rendercene conto, siamo noi a reinventarle perché ne abbiamo bisogno. Non dobbiamo cercare di fermare lo sviluppo linguistico, sarebbe come cercare di fermare la crescita di una persona. Non si può e soprattutto non si deve.
  Coloro che si dicono amanti della lingua italiana, e che quindi non vogliono usare il femminile di sindaco, ci pensino un secondo. Che cosa succederebbe se ci fermassimo qui? Se decidessimo che da ora in poi ogni nuova parola verrà bandita dal vocabolario? Come chiameremmo le nuove scoperte? O, dopo una rivoluzione e la formazione di un nuovo paese, come ci potremo riferire a quel paese e ai suoi abitanti? Se in un futuro ci fosse un contatto alieno, come dovremmo rivolgerci a loro, senza inventare nuove parole?
   Le parole sono vive perché la nostra cultura è viva. Quando le regole grammaticali saranno scolpite sulla carta sarà perché ci siamo estinti e i popoli del futuro studieranno l’italiano come noi studiamo il sanscrito, senza nemmeno esser certi di averlo capito appieno. Parlare italiano sarà un mero esercizio senz’anima, senza poter comprendere e apprezzare appieno la sua forma e la sua bellezza. Ecco perché dobbiamo incentivare il cambiamento, andare avanti. In realtà è molto facile andare avanti: basta seguire il flusso. Basta comunicare.
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giovedì 26 gennaio 2023

Riflessione in ritardo: L'amica geniale di Elena Ferrante

   Ho terminato da qualche giorno di leggere il primo romanzo della serie di Elena Ferrante, L’amica geniale. Come al solito arrivo molto tardi a parlare dei romanzi di successo, quindi questa sarà più una mia riflessione.

   Sono grande fan della serie tv e ho visto tutte le stagioni uscite fin ora. Non appena terminai la prima decisi che avrei letto i romanzi, ma li lasciai indietro perché conoscevo già la storia e volevo leggere altri libri. In effetti la trama non si discosta di una virgola, cosa che apprezzo. Troppo spesso capita che la trama di un romanzo venga stravolta nella trasposizione televisiva, anche se non ce ne sarebbe bisogno o, peggio, anche se le modifiche vanno a rovinare la logica della trama, dell’universo creato dall’autore o dei personaggi.
  Il motivo per cui ero estremamente curiosa di leggere il libro è che la serie mi piace moltissimo. Adesso che ho ‘provato’ lo stile della Ferrante devo ammettere di essere felice di aver visto prima la serie tv perché, incredibile ma vero, l’ho preferita al romanzo.


   La storia è ambientata nei sobborghi di Napoli e inizia alla fine degli anni ‘50, in un quartiere cui non viene dato un nome e che conosciamo come ‘il rione’. Narrato in prima persona, racconta la storia di Elena, chiamata Lenù, e del suo rapporto con una bimba del vicinato, Raffaella, soprannominata Lila.
   Le due crescono nella povertà del dopoguerra e la loro infanzia è segnata dalle difficoltà che accomunavano molte famiglie prima della ripresa economica degli anni ‘60. Non sono informata riguardo allo stile di vita dell’epoca, ma immagino che la violenza raccontata dalla Ferrante fosse effettivamente all’ordine del giorno se unita all’ignoranza e alla povertà. Lila, figlia minore del calzolaio, è spesso vittima degli abusi verbali e fisici del padre che, mal sopportando quelli che lui considera capricci o provocazioni, spesso picchia la figlia. Tuttavia è chiaro che, sebbene l’uomo sia particolarmente violento, nessuno interviene perché la situazione non è considerata abbastanza grave da farlo. Inoltre vige la legge non scritta che ognuno a casa propria fa quello che desidera, specialmente gli uomini. Lenù combatte in casa una guerra silenziosa contro la madre, che scarica senza motivo apparente le proprie frustrazioni sulla figlia maggiore, spesso lasciandosi andare a urla e schiaffi. Il rione stesso è cresciuto grazie alla violenza, infatti una delle personalità più in vista è Don Achille, un uomo che si è arricchito durante gli anni della guerra grazie alla borsa nera, e verso cui tutti portano un rispetto venato di paura. Altra famiglia in vista sono i Solara, i quali sono benestanti probabilmente perché parte della camorra, anche se in questo primo romanzo rimane un suggerimento più che una certezza.
   Questo è il mondo in cui si crescono Lenù e Lila. Tutto in loro è opposto, dal carattere alla famiglia d’origine, dalle prospettive alle speranze che ripongono nel futuro. Lenù è la narratrice della storia e si racconta come una ragazzina semplice, volenterosa e non dissimile da molti altri ragazzini del rione. È orgogliosa di essere una delle più brave alle scuole elementari, una volta cresciuta sogna un fidanzato, i meriti scolastici, l’approvazione dei genitori e degli insegnanti. Molti dei ragazzini del rione smettono di studiare alla fine delle elementari senza crucciarsene più di tanto, invece Lenù ha l’opportunità di continuare e frequentare le medie, il ginnasio e poi il liceo classico. È grazie ai suoi studi e agli ottimi risultati, conseguiti con grande fatica, che comincia a sognare qualcosa oltre al rione, alla povertà e all’ignoranza. Si immerge nei libri e nella conoscenza, il che le permette di scoprire l’esistenza di un mondo diverso rispetto a quello stretto del rione. Più entra in contatto con nuove idee, più desidera allontanarsi dalle persone che fino a quel momento hanno plasmato la sua vita. Non solo i genitori, orgogliosi ma diffidenti nei confronti di questa figlia istruita che non riescono più a comprendere, ma anche le persone del rione, con la loro memoria lunga per i meschini litigi di anni prima, il loro eccessivo orgoglio e le rappresaglie violente di cui macchiano. Tuttavia anche in questo desiderio di fuga così personale ha l’impressione di non essere indipendente dalla sua amica.
   Al contrario di Lenù, a Lila non è permesso proseguire gli studi poiché il padre non lo ritiene necessario. Dopo qualche anno di frustrazione in cui cerca di imparare da autodidatta ciò che l’amica studia in classe, rinuncia di fronte alla scoperta di un potere nuovo, che all’inizio le fa paura: la propria femminilità. All’inizio dell’adolescenza Lila guarda con sospetto e vorrebbe poter rifiutare il cambiamento del corpo e le attenzioni sgradevoli dei maschi che questo cambiamento si porta dietro. Antepone le proprie passioni all’interesse verso i ragazzi e si dedica a disegnare scarpe, alla lettura, al ballo. Tuttavia sembra essere proprio questa indifferenza – o meglio diffidenza – che la rendono una delle ‘prede’ più ambite dagli adolescenti del rione. Non aiuta la sua genialità fuori dal comune. Ciò che traspare dalla narrazione di Lenù, infatti, è che Lila riesce in tutto ciò cui si applica, e con risultati eccellenti. Ha un carisma dal quale le persone rimangono loro malgrado affascinate e, una volta cresciuta, la bellezza spigolosa ma fresca della giovinezza la rendono una ragazza desiderabile. L’acume, la bellezza e i suoi modi difficili la rendono l’unica ragazza che vale la pena conquistare, piegare, il che la porta ad avere molti ammiratori. Alla fine di questo primo romanzo Lila, che fin da bambina aveva instillato in Lenù il desiderio latente di allontanarsi dal rione, si rassegna a non uscirne. Però capisce di poter migliore la propria posizione al suo interno, nell’unico modo che ha una ragazza per farlo: un buon matrimonio. La scelta di un pretendente, il che implica l’automatico rifiuto di altri ragazzi, crea non poche tensioni all’interno delle famiglie e del rione stesso.
  Lenù assiste alle peripezie dell’amica dalla sua posizione tranquilla, provando un misto di invidia e colpa nei suoi confronti e sentendosi una frode: tutti la considerano l’amica geniale, la ragazza che studia e va al liceo, ma lei sa bene che il genio fra le due è Lila. Eccellente in ogni ambito, un genio stretto dalle regole ferree della povertà e dell’ignoranza, che se avesse avuto le stesse possibilità di Lenù avrebbe brillato ancora più splendente.


   Il tema centrale del romanzo è il rapporto fra le due ragazze, anche se abbiamo solo il punto di vista di Lenù. La ragazza passa la vita a rincorrere quest’amica dalla personalità magnetica, invidiandone l’intelligenza e la bellezza, e senza riuscire a non paragonarsi a lei. La protagonista appare meschina ai nostri occhi, ma riusciamo a perdonarla almeno un po’ perché dall’altra parte abbiamo Lila, che in diverse occasioni la deride, abbattendo con un solo commento tutti i suoi sforzi. Le fa notare di essere migliore di lei in ogni cosa, con uno sforzo minimo e senza le agevolazioni che Lenù ha dalla sua.
   Non è chiaro fino a che punto le due si rendano conto che il loro è un rapporto tossico, fatto sta che di fronte a tutti sono amiche. Si difendono a vicenda, si tengono informate sulle rispettive vite e si fanno confidenze, si aiutano e si supportano come fanno gli amici, puntellando questi atti di affetto con atteggiamenti scostanti di malignità. L’evolversi di questo rapporto è ciò che incuriosisce il lettore, ma ho come l’impressione che le due ‘amiche’ non arriveranno mai ad avere un’amicizia sana, priva di competizione e invidia. L’introduzione del romanzo presenta una Lenù sui sessant’anni circa, che decide di raccontare la loro storia dopo un fatto curioso che accade a Lila. L’idea che siano ancora in contatto e che la protagonista racconti la storia con tale acredine, mi fa pensare che il loro rapporto non si sia evoluto affatto, il che è un peccato.

  La serie tv emana un senso di tensione costante. In ogni episodio pare debba succedere qualcosa di incredibile e anche i fatti più banali vengono caricati di angoscia – quella buona, quella che ti fa venire voglia di guardare l’episodio successivo. Nel libro questo non succede, e non credo sia perché conosco già la trama (ho visto la serie quando è uscita e, francamente, ricordavo solo a grandi linee la prima stagione). Credo sia lo stile dell’autrice e il taglio che è stato dato alla sceneggiatura.
   Lo stile della Ferrante è scorrevole e nel complesso piacevole. Per una volta non mi è pesato leggere una narrazione in prima persona, cosa che solitamente mi riesce difficile. Tuttavia le pagine erano prive di suspense. Magari sbaglio ad aspettarmi dal libro la stessa aria che tira nella serie, ma ammetto di essere rimasta delusa.
  Nonostante questo penso che andrò avanti a leggere anche i romanzi, e ovviamente sto aspettando per l’anno prossimo l’ultima stagione della serie tv. Quindi nonostante gli elementi che non mi hanno entusiasmata, la Ferrante ha colpito nel segno anche con me: devo sapere che cosa ne sarà di Lenù e Lila, degli altri personaggi che abitano il rione, che lo rendono un luogo vero e vivo. 
   Qualcuno di voi lo ha letto i libri o ha visto la serie? Ho sempre sentito opinioni contrastanti al riguardo, quindi sono molto curiosa di sapere cosa ne pensano sia i fan che i detrattori della storia.

lunedì 9 gennaio 2023

La montagna

   Dopo tanti anni di assenza è difficile trovare un modo per iniziare. Mi pare di essere in uno di quei film indipendenti dalla comicità un po’ particolare, in cui i personaggi si guardano in silenzio per un attimo e non sanno cosa dire. Perché dopo quattro anni, cosa si può dire?
   Fortuna che scrivere è diverso da parlare. Intanto il primo paragrafo è scivolato fuori dalla tastiera con facilità disarmante.
   Da qui non può che essere tutto in discesa.

   Questo blog è sempre stato il mio piccolo angolino libero, in cui fare ciò che più mi aggrada. Non ci sono regole prestabilite, se ci sono le ho decise io e se non riesco più ad adattarmici le cambio. Da qualche mese ormai sentivo la tentazione di ricominciare a scrivere, nonostante possa non sembrare il momento più adatto. Di tempo per leggere ne avrò poco, per scrivere ancora meno, e avrò così tanti di quei pensieri che potrebbe essere complicato tirare fuori la matassa dalla mente e svolgerla a beneficio di una persona esterna – o a mio beneficio, se è per questo.
   Le novità son presto dette: Il Fidanzato ha ricevuto una promozione a Il Marito e Noi Due stiamo per diventare Noi tre. A breve. Brevissimo. Da un momento all’altro, tanto che mi sento come una bomba a orologeria. Nonostante questo, o forse – chissà – proprio per questo, il desiderio di scrivere e di leggere e di parlare di libri si è amplificato fino a raggiungere proporzioni elefantiache ed eccomi qui. Magari, in un momento in cui tutto sta per cambiare, ho bisogno di fare qualcosa per me, di ricordarmi che è mio dovere ritagliarmi un pezzettino che è solo mio.
   Da qui non può che essere tutto in salita, ma per fortuna mio marito mi ha fatto conoscere le meraviglie della montagna – a me, che sono un’amante del mare – e le salite non fanno più così orrore.

   Quindi parliamo di libri.
   Non avevo un’idea precisa di ciò che avrei detto quando ho iniziato a scrivere questo post, ma le parole si srotolano da sole sulla pagina e ora è come guardare una vallata dall’alto: non se ne capisce la portata quando si è in fondo, ma sulla cima se ne gode il panorama e si notano le forme, i sentieri già percorsi e la strada per ridiscendere, ed è subito chiaro che cosa si debba fare.
   Negli ultimi anni ho ricominciato a rileggere libri già letti, cosa che prima evitavo con cura. Ho scoperto che non mi dispiace e vorrei dedicarvi un post a parte. La rilettura è un argomento che va trattato con i dovuti modi, si merita un suo post.
   Un’altra abitudine che ho preso è quella di leggere saggi. Prima non leggevo saggi. Non sapevo su cosa buttarmi, temevo che fossero noiosi, o complessi, o forse non avevo ricevuto la spinta necessaria a uscire dalla mia comfort zone, ovvero i romanzi. Be’ non so come è iniziata, non ricordo, fatto sta che adesso metà della mia wishlist è composta da saggi e mi sembra di non averne mai abbastanza.
   Come al solito comunque sono molto severa con ogni libro che ha la sventura di capitare sotto il mio scrutinio (è una fortuna che io non faccia l’insegnante o sarei quella stretta di voti che tutti gli studenti odiano) e, dando un’occhiata alle lettura degli ultimi anni, quelle che mi sono rimaste impresse a distanza di anni sono davvero poche.

   Ho lasciato con Steinbeck e riprendo con Steinbeck: La valle dell’Eden. Autore per me ormai collaudato, non ha deluso neanche questa volta. A distanza di anni del romanzo ricordo le atmosfere, più che la trama: un’America soleggiata, calda, una famiglia che basa la sua esistenza sui valori di una volta, su delle sicurezze stoiche che, di lì a qualche anno, verranno smembrate, soppiantate dalla rivoluzione culturale e sessuale degli anni ‘60. Mi ricordo un’America che non scende a patti, che vede le cose bianche o nere, e sono in pochi coloro che accettano un mondo fatto di compromessi, di sfumature e di verità relative. Il protagonista è uno di loro, bollato come ragazzo ribelle dall’animo oscuro, si scontra con il padre e il fratello, entrambi troppo attaccati al sogno americano, alla patina che lo riveste, per accettare che il mondo non è così semplice. Eppure, legati indissolubilmente, i due fratelli incarnano uno la cecità di fronte al cambiamento, l’altro la curiosità per lo stesso.
   Una lettura che ricordo sempre con piacere è Nel guscio di Ian McEwan. Storia di un Amleto senza nome che assiste impotente al complotto della madre e dello zio per uccidere suo padre. Impotente perché assiste a tutto ciò dall’interno del proprio guscio: il grembo della madre. Il suo unico potere? Venire al mondo. Di questo libro ho anche visto la trasposizione teatrale, un lungo monologo recitato benissimo da Marco Bonadei. Ora, non mi intendo di teatro, ma essere soli sul palco, parlare per due ore e non annoiare è certamente una sfida. Consigliatissimo il libro e, a chi piace, anche lo spettacolo.
   Un romanzo cui sono legata più da un punto di vista sentimentale, probabilmente, è They both die at the end, di Adam Silevera. Forse perché l’ho comprato a New York, durante il viaggio del matrimonio/luna di miele. Visitare un paio di librerie storiche era nelle tappe del viaggio e, alla Strand, ho comprato questo YA di cui avevo già sentito parlare e che ancora non era arrivato in Italia (ora c’è, con il titolo L’ultima notte della nostra vita, mi pare). Storia godibile e, come si nota dal titolo, dal finale tragico ma che in qualche modo va bene così. Uno di quei finali amari che vorresti fosse diverso ma, allo stesso tempo, sai che quel finale è quello giusto – purtroppo.
   Altra autrice che per me è già intoccabile e di cui leggerei anche la lista della spesa è Amélie Nothombe, di cui ho scoperto Sabotaggio d’amore. Uno dei suoi libricini sottili, che rischiano di passare inosservati o incompresi. Personalmente è un’autrice che mi mette in soggezione, forse per la misura immensa del suo ego, o forse per il fatto che può addirittura permetterselo, un ego così smisurato. Una volta ragionai sul fatto che alcuni degli artisti più bravi sono quelli che, di persona, sembrano più antipatici. La Nothombe sembra così. Perché avere la presunzione di scrivere un romanzo su un periodo della propria infanzia durato pochi mesi e che, a posteriori, può essere considerato irrilevante, richiede una fortissima convinzione di essere interessanti. E ci vogliono tanto fegato ed egocentrismo per farlo. E tanto talento anche.
   Uno dei primi saggi su cui mi sono lanciata è stato un classico di un tema a me caro, il femminismo. Ho pensato di iniziare dalle basi e leggere Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir. Una pietra miliare, posso dire a posteriori, che tuttavia va collocata nel suo tempo. La Beauvoir è decisamente all’avanguardia sulla maggior parte dei temi trattati, ma ancora figlia sul tempo per altri. Nonostante questo ritengo che sia una lettura base per chiunque voglia affacciarsi su questo tema, o sarebbe come voler correre ancor prima di aver imparato a camminare.
   Per rimanere in tema saggi, uno di tutt’altra natura ma considerato un classico di quella tematica è Armi, acciaio e malattie, di Jared Diamond. L’autore, geografo e antropologo, illustra come l’evoluzione delle popolazioni sia intrinsecamente legata al luogo in cui si sono sviluppate. Le popolazioni dell’Eurasia hanno avuto uno sviluppo più veloce rispetto a quelle isolate dell’Oceania, o a quelle dei climi meno favorevoli come l’Africa e le Americhe. Diamond spiega cosa ha favorito questo sviluppo e cosa lo ha ostacolato, con un linguaggio estremamente chiaro. L’unica critica che si può muovere al libro è che, verso la fine, diventa un poco ripetitivo: le cause che secondo l’autore vanno a inficiare sullo sviluppo tecnologico sono sempre le stesse, e sebbene ci siano differenze fra un continente e l’altro, ovviamente, il succo della questione rimane lo stesso e la lettura si fa monotona negli ultimi capitoli.
   Avevo accennato tempo fa al fatto che la cultura giapponese mi affascina. È difficile trovare romanzi di autori giapponesi che non siano i soliti due o tre che vengono citati da vent’anni, così mi sono informata e ho deciso di iniziare dai classici moderni. Ho scovato Yukio Mishima, un personaggio particolare la cui vita è stata una fitta rete di contraddizioni, ma la cui penna mi ha conquistata. Ho letto Confessioni di una maschera, romanzo d’esordio in cui sceglie di rivelare le proprie passioni omosessuali e, in alcuni casi, particolarmente estreme (un interesse anche troppo entusiastico nei confronti del sangue, dei martiri e delle ferite), insieme alle proprie insicurezze adolescenziali, alle paure e alla brama contraddittoria di vivere per sempre e allo stesso tempo di morire gloriosamente. Si intravede la figura di un giovane che, nonostante le stranezze, suscita tenerezza e in alcuni casi compassione. Non so se abbia scritto altri libri autobiografici, in ogni caso sono curiosa di conoscere questo autore un po’ folle e un po’ timido in queste pagine si rivela con sincerità e coraggio.
   Per tornare ai saggi ho letto qualcosa che non mi sarei mai aspettata di leggere, anche solo un paio di anni fa. L’unica regola è che non ci sono regole, intervista dell’autrice Erin Meyer a Reed Hastings, fondatore di Netflix. Ho fatto l’abbonamento a Netflix, cedendo alle pressioni, poco prima dell’inizio della pandemia – quindi una decisione che si è rivelata fortuita nei lunghi mesi di reclusione – e quando ho visto questo titolo ho pensato che sarebbe stato interessante leggere la storia dell’azienda. Peccato che non si tratti della storia dell’azienda, ma della sua politica. Se lo avessi capito prima probabilmente non lo avrei letto, ma per fortuna non l’ho capito e ho scoperto una cosa nuova su di me: mi interessa questo argomento. Hastings racconta delle strategie che utilizza con i suoi collaboratori per fare in modo di avere un’azienda di successo. Alcune possono sembrare bislacche a noi italiani visto che la cultura del lavoro negli USA è molto diversa, ma i principi su cui si basa sono universali e molti sono applicabili anche qui. Sono abbastanza convinta che da qualche parte il signor Hastings voglia mettere in buona luce il suo prodotto, e che forse ci sono alcune cose non dette, ma non si può ignorare il fatto che egli ha, effettivamente, fondato un’azienda di videonoleggio e, mentre Blockbuster affondava, Netflix faceva il botto. Il libro offre anche uno spaccato su com’è lavorare negli Stati Uniti, il che fa venire un po’ voglia di tenersi alla larga da quel posto, ma rimane comunque una lettura interessante.
   Per avvicinarmi alle lettura più recenti, infine, ecco Cecità di José Saramago. L’autore non ha bisogno di presentazioni, e forse la storia è arrivata nel momento giusto: né troppo addentro alla pandemia da non permettere di concentrarsi sulla narrazione, né troppo al di fuori da non ricordare la situazione come fosse ieri. Durante i mesi di lockdown vedevo sul web tanta gente, una volta passata la fase di shock iniziale, cominciare a consigliare alcuni libri da leggere a tema ‘malattia’, alcuni dei più gettonati erano La peste di Camus e L’ombra dello scorpione di King. Mi chiedo ora perché nessuno abbia parlato di Cecità. La trama è semplicissima, nel mondo si diffonde una malattia che rende ciechi dall’oggi al domani e la società collassa nel giro di un paio di settimane. È impressionante il fatto che Saramago abbia descritto alcune delle situazioni che si vengono a creare senza aver vissuto in prima persona una pandemia (almeno, non credo che l’abbia vissuta, ma avrà sicuramente sentito storie sull’influenza spagnola e magari, chissà, si è rifatto a quelle). Prima l’incredulità, la sensazione che non possa capitare a noi, poi il panico quando inizia a diventare virale. La costruzione di centri di raccolta per i malati, la paura dei sani nei confronti degli infetti, che si trasforma in vera e propria violenza pur di scampare al contagio. Le misure insufficienti che vengono prese dal governo e la gestione inefficace di fronte a una situazione così grave e sconosciuta. Infine – e qui per fortuna sfociamo nella pura ipotesi perché non siamo arrivati a tanto – la violenza senza quartiere che si genera in una situazione disperata, ciò che si è disposti a fare per sopravvivere, quanto si può scendere a patti con la propria umanità per conservare la propria vita. Ancora non mi sento di consigliare questo romanzo a tutti, proprio per la vicinanza con un fenomeno che ha così radicalmente cambiato le nostre abitudini e concezioni, e che per il resto della vita segnerà uno spartiacque. Non leggetelo, se ancora non avete preso le distanze.
   Appena qualche mese fa, infine, ho letto La vegetariana, di Han Kang. Anche questo libro è stato scelto per curiosità nei confronti della letteratura estera. Leggo molti autori americani e inglesi, che si prendono larga fetta del mercato, e ovviamente italiani. Gli europei poi arrivano più facilmente in Italia, per una questione puramente geografica immagino, ma ci sono dei luoghi che rimangono nel lato oscuro della luna. Di libri di autori sudamericani, ad esempio, si parla pochissimo, di romanzi di autori di origine africana ancora meno, e gli autori asiatici si devono andare a cercare per trovare qualcosa. Fortuna che oggi la ricerca è più semplice, così ho deciso di leggere La vegetariana, ricordando il successo che aveva avuto e pensando che, dato che non ho mai letto nulla di un autore coreano, potevo iniziare da lì. Ho avuto un graditissima sorpresa, tanto che ho già in wishlist il prossimo libro della Kang nella sua traduzione inglese (perché non è edito in Italia). La cosa che più mi ha rapita è lo stile secco dell’autrice, in linea con la storia che racconta. Il modo spoglio e pacato di raccontare la storia di una donna che sceglie di spogliarsi di tutto ciò che è inutile, e mentre lo fa si rende conto che ogni cosa, in fondo, è inutile. Abbandonate le convenzioni, a iniziare dal modo di mangiare, la protagonista decide di lasciarsi andare solo a ciò che veramente desidera, senza pensare alle conseguenze o ai giudizi altrui. Ogni piccola libertà che si prende è come togliere uno strato alla realtà e scoprire che c’è un altro strato che può levare, un altra usanza irragionevole di cui, si rende conto, può fare a meno. E così avanti fino a raggiungere il nocciolo, fino a spogliarsi completamente di ciò che ritiene superfluo.

   Dopo questa che era decisamente una scalata di titoli, vi lascio in pace ad ammirare la vallata, sperando che magari abbiate trovato qualche titolo di vostro gradimento. Non c’è molto altro da dire, se non che spero di tornare presto a scrivere con regolarità, anche se la vita ci mette sempre in mezzo lo zampino. E questa volta non posso che esserne felice.

domenica 11 novembre 2018

Furore - John Steinbeck


“Non è se possiamo, è se vogliamo. […] Perché se è ‘possiamo’, allora non possiamo niente, manco andare in California né niente; ma se è ‘vogliamo’, be’, allora facciamo come vogliamo.”

Lo so, questa frase infonde speranza. Ma non fatevi ingannare, la speranza è l’ultima cosa che si trova in “Furore”. O meglio, si trova, ma appena appena, giusto un goccio e solo dopo che ti è stata strappata via. Te la ripropongono solo per sadismo, immagino, perché è come se Steinbeck te la infilasse a forza sotto le unghie, assieme al sale grosso.
Dopo aver capito l’andazzo del romanzo ho cominciato a leggerlo aspettandomi il peggio in ogni pagina, e neanche così è stato abbastanza.

Negli anni ’30 molte zone del centro degli Stati Uniti vennero colpite da quella che chiamarono Dust Bowl, una serie di tempeste di sabbia che per anni impedirono agli agricoltori di coltivare la terra. La maggior parte delle famiglie finirono per indebitarsi e persero le proprietà, così buona parte della popolazione migrò in California, dove si diceva cercassero moltissimi braccianti.
Il romanzo narra del viaggio della famiglia Joad, che parte dall’Oklahoma carica di tutti gli ultimi loro possedimenti, su un vecchio furgoncino vendutogli a un prezzo disonesto. Macinano un kilometro dopo l’altro, in un viaggio estenuante, che si porta via gli anziani nonni a causa del dolore di lasciare la propria terra, unite alla fatica della traversata. La famiglia inizia così a disgregarsi, soprattutto quando le voci che cominciano ad arrivare alle loro orecchie dicono che di lavoro, in California, non ce n’è. I Joad non vogliono crederci – perché dovrebbero prendersi la briga di stampare volantini e far girare la notizia, se di braccianti non hanno bisogno? – e raggiungono la California.
È dura scoprire che le voci sono vere. Che le persone come loro, che hanno dovuto abbandonare le loro case, vivono ai margini della città, in baraccopoli sporche e miserabili, che procurano vergogna al solo vederle, per lo stato in cui sono ridotte e in cui si sono ridotti coloro che abitano. È dura scoprire che le persone che abitano le città li disprezzano, li chiamano okie, li credono fannulloni, ladri, agitatori di masse. Tutti pensano sempre il peggio di loro, che vivono nella sporcizia per scelta, e non perché non possono comprarsi neanche del sapone, che non vogliano lavorare ma piuttosto mangiare a sbafo, che desiderano paghe più alte per vivere nella bambagia, quando la verità è che con trenta centesimi al giorno non possono neanche sfamarci la famiglia.
I Joad si ritrovano insieme a moltissimi altri, centinaia, forse migliaia, a lottare per ottenere un lavoro. Lavori duri, malpagati, lavori che dai più disperati vengono accettati solo per un pasto caldo e un luogo dove dormire all’asciutto – sia anche un vagone abbandonato del treno o un baracca. Ed è allora che la rabbia cresce, quando i bambini hanno fame e gli uomini sono costretti a umiliarsi e non rispondere agli insulti per non finire in prigione, quando si abbassa la testa per non perdere il posto e ci si fa chiamare “maledetti okie”. La rabbia cresce ed esplode quando i grandi proprietari tacciono sullo stipendio e ti fanno pagare anche il sacco che usi per raccogliere il loro cotone. E quando chi ha il coraggio di alzare la voce viene ucciso e sul giornale annunciano solo di aver trovato l’ennesimo barbone morto a causa del freddo; e i campi dove sono montate le tende vengono dati alle fiamme; e i colpevoli non vengono mai trovati; e la polizia arresta invece chi vuole formare un sindacato con falsa accusa di vagabondaggio.
È allora che i grappoli del furore sono maturi.

Penso di aver parlato talmente tanto di questo romanzo, con così tante persone e così spesso, mentre lo leggevo, che adesso che mi trovo a scriverne la recensione non so più cosa dire.
…sul serio.
Vediamo cosa viene fuori con un po’ di flusso di coscienza.

La prima cosa che mi viene mente riguarda il linguaggio. Ne avevo avuto già un bellissimo esempio, di questo tratto di Steinbeck, con “Uomini e topi”. Un linguaggio semplice, grezzo, ma che arriva dritto al punto. Sapevo che quel breve romanzo era scritto per adattarsi in seguito a spettacolo teatrale indirizzato soprattutto alla classe medio/bassa, con un’istruzione piuttosto limitata, e pensavo fosse quella la ragione di tanta semplicità, ma non è così.
Essendo “Furore” un romanzo di più ampio respiro sono stata in grado di cogliere lo stile dell’autore, in questa scelta. Il linguaggio di Steinbeck si può definire ‘terra terra’, se vogliamo, grossolano, a volte proprio grammaticalmente sbagliato. Nei dialoghi è normale, essendo i protagonisti mezzadri che hanno un’istruzione minima, che venga utilizzato un linguaggio di questo genere, o il romanzo risulterebbe non veritiero, artificioso e forse addirittura fastidioso. Ma anche nel narrato Steinbeck sceglie di allinearsi a questo modo di parlare, limandolo appena, un modo spiccio ma estremamente schietto e diretto.
La cosa che mi è piaciuta di più di questo modo di scrivere è come contrasta con la profondità degli argomenti trattati. Esposte con questo linguaggio le lunghe dissertazioni che spesso occupano interi capitoli, creano una contrapposizione netta e quasi paradossale, eppure bellissima da leggere proprio per questo motivo. Credo di aver trovato, in questo romanzo, gli argomenti più profondi e toccanti di cui io abbia mai letto, come la vita e la morte, la colpa, il peccato, la povertà e ciò che si è disposti a fare per i propri cari, il dolore non fisico ma spirituale. In breve, la natura umana, che è ciò che Steinbeck riesce a tirare fuori in ogni occasione, in ogni storia, anche quella che ad una prima occhiata può sembrare unicamente un romanzo sociale. E togliere quella patina di sacralità da argomenti tanto complessi, che mai a mio parere riusciremo a comprendere fino in fondo, li rende in qualche modo più accessibili, più comprensibili. E ci fa anche rendere conto che è il pensiero fine a se stesso ciò che accomuna tutti gli uomini, che non importa il ceto sociale, la cultura, l’intelligenza. Ogni persona, in ogni epoca, è proprietaria di un mondo interiore immenso.

L’avete mai visto un fagiano, che vola tutto teso, bello con quelle penne disegnate e tutte dipinte, e pure gli occhi dipinti? Poi, bum! Lo raccattate, ed è solo un cencio insanguinato, e allora capite che avete sfasciato qualcosa che era meglio di voi; e manco mangiarlo vi cambia niente, perché avete sfasciato qualcosa che stava dentro di voi, e non la potrete riaggiustare.

E dopo questo stralcio non mi sento di dire più niente. Non c’è più niente che io possa dire che vada oltre, dopo questa frase (Steinbeck è riuscito a uccidere qualsiasi tentativo di spiegare il suo romanzo, con un estratto come questo).
Una delle più meravigliose del libro, per me, e che volevo condividere.

domenica 21 ottobre 2018

Libri per uccidere il furore


A volte quando cerco il titolo di un post mi sento una che cerca una strategia di marketing. Il titolo di un post dovrebbe incuriosire, spingere le persone ad aprire la pagina, a voler scoprire cosa nasconde l’articolo. In questo caso mi sento un po’ di aver toppato, perché sembra che stia per parlare di manuali di auto aiuto (“Problemi a controllare la rabbia? Non uccidere il tuo vicino, uccidi il furore!”).
Eppure non mi sentirei di intitolarlo in altro modo, non mi viene in mente nulla di più veritiero in questo post, perché sto per dirvi con quali libri ho schiacciato nello stomaco ‘i grappoli di furore’ che John Steinbeck ha prima seminato con cura (forse da quando l’anno scorso lessi “Uomini e topi”), ha guardato germogliare uno dopo l’altro, come germogliava il mio desiderio di avere tra le mani il suo romanzo, ha guardato i fiori sbocciare mentre giravo le pagine e, infine, ha visto il frutto nascere. E questo frutto era troppo amaro per essere mangiato tutto in una volta, ti faceva sul serio arrabbiare ed era meglio, decisamente meglio, intervallarlo con un sapore meno acre.
(L’introduzione non intendeva essere così lunga, è solo che quando parlo di “Furore”, di qui a qualche giorno – settimana – non riesco a essere breve. Merita un post tutto suo ovviamente, l’unica domanda è se riuscirò a scriverlo o mi dilungherò nell’intento.)


Longbourn House – Jo Baker

Non appena ho scoperto dell’esistenza di questo libro, ho pensato che sia una fortuna che Jane Austen sia una delle scrittrici i cui lavori suscitano ancora curiosità. I suoi libri e quelli di pochi altri (Arthur Conan Doyle, Shakesperare e Lewis Carroll sono i primi che mi vengono in mente) nonostante gli anni trascorsi continuano ad essere oggetto di ricerca. Ma non solo, le loro opere sono spunto per raccontare le stesse vicende in altro contesto. Così è nato il film “Romeo + Giulietta” (che personalmente trovo geniale, nella sua semplicità), per non parlare di tutti i rimaneggiamenti in chiave horror/comica/psicologica/quant’altro che ha subito “Alice nel paese delle meraviglie”, ad esempio.
In questo concetto nasce “Longbourn House”, dell’autrice inglese nonché studiosa di Jane Austen, Jo Baker. Longbourn è la casa nella quale vivono i Bennet, la famiglia protagonista di “Orgoglio e pregiudizio”. Questo romanzo viene venduto come la stessa storia, ma dal punto di vista dei domestici della casa (una sorta di “Downton Abbey” alla Jane Austen), ma dopo averlo letto mi sento di dire che non è affatto così.
Sarah lavora sin da bambina a Longbourn, sorvegliata dalla severa ma gentile Mrs Hill, ma proprio perché non ha conosciuto altro dalla vita se non il lavoro e pochissime soddisfazioni, ha il desiderio di conoscere di più. Un desiderio che a noi può sembrare scontato ma che, all’epoca, non lo è affatto. I ruoli a casa Longbourn sono decisi, i confini ben tracciati – così come nel resto della società – e la gente comune si accontenta di ciò che ha perché non le viene mai detto che potrebbe avere di più. All’arrivo del valletto James, gli orizzonti di Sarah si allargano: lui ha viaggiato, anche se non vuole dire perché, dove e in quale occasione. E quella consapevolezza di volere di più dalla vita, di poterlo pretendere per se stessa e di dover solo raccogliere il coraggio necessario per ottenerlo, cresce in lei di pari passo con lo svelarsi dei segreti che Longbourn House nasconde.
In caso siate fan di Jane Austen, o di “Orgoglio e pregiudizio”, mi sento di consigliarvi questo libro, nonostante i protagonisti della Austen non ne escano con un ritratto lusinghiero come nell’originale. Anche in caso vi piacessero i libri storici, o questa particolare ambientazione, ve lo consiglio. Inizia come un romanzo tranquillo, in cui sembra di sapere a cosa si va incontro – una tresca o due con nulla più che un bacio come frutto della colpevolezza, un segreto riportato alla luce dopo anni – ma non è così. “Longbourn House” dà vita a personaggi profondi, a legami che durano anni e che vanno oltre le convenzioni. Dà spazio alla natura umana nella sua fragilità più grande e non si può fare a meno di affezionarsi ai personaggi, anche quelli che Jane Austen ha nominato solo una volta, nel suo romanzo.


Resta con me fino all’ultima canzone – Leila Sales

Sì, lo so, questo è un titolo del cavolo. Non so proprio perché lo abbiano intitolato così, un libro che in origine si chiamava “This song will save your life”. Preferisco ricordarlo con il suo nome originale.
Allora, piccola premessa: ho la nomea, fra gli amici, di amare le storie drammatiche. Sono quella che si guarda film/legge libri solo se c’è un morto, un malato terminale, una qualunque situazione drammatica possibilmente angosciante. Non è così, lo giuro. Cioè, forse, ma penso sempre che se non c’è un nodo da scogliere la narrazione non può farmi traboccare il cuore di arcobaleni, e quindi tanto vale non leggerlo/guardarlo.
Questo libro prometteva di essere tranquillo, divertente, leggero. Uno YA senza pretese, che arrivava dritto a quell’angolino del petto che l’adolescenza ha lasciato dentro di me, facendomi sognare per un po’. Prometteva. Ma ha infranto qualsiasi promessa. Una mia cara amica si è messa a ridere quando le ho detto che lo stavo leggendo perché sembrava leggero, e nel primo capitolo la protagonista tenta il suicidio… (“La tragedia ti perseguita anche quando non la vuoi, è un cane vagabondo a cui hai dato del cibo.” Queste sono state le sue parole.)
Elise è sempre stata timida e ha difficoltà a fare amicizie. Questo l’ha allontanata moltissimo dai suoi coetanei e a scuola si sente invisibile. In pochi le parlano, se lo fanno molte volte è per prenderla in giro, e quando è al centro dell’attenzione è per via di scherzi architettati a suoi danni. Elise vorrebbe solo avere degli amici, vorrebbe smettere di essere invisibile, vorrebbe sapere cosa dire quando si trova insieme ad altri ragazzi. Cosa che inizia a fare quando per caso, durante una passeggiata notturna di nascosto dai suoi genitori, trova lo Start, una discoteca di musica rock/alternative. Lì incontra persone che hanno i suoi stessi interessi, ragazzi più grandi che riescono a capire come a volte il liceo possa essere crudele, e si trovano bene con lei in quanto Elise è molto intelligente e matura per una ragazza della sua età. Allo Start, Elise diventa amica del dj, un ragazzo che all’inizio la affascina, ma più di tutto scopre che le piace fare la dj. Un padre musicista e una vita ad ascoltare musica rock la aiutano sicuramente nell’impresa, e rimboccandosi le maniche Elise scopre una passione che davvero la può salvare. E scopre anche come muoversi in mezzo al marasma di problemi che un’adolescente timida e un po’ stravagante, come lei, può avere.
Niente di più. Niente di meno. Un libro che affronta tematiche profonde, che non è scontato, dotato di una prosa leggera. Il libro perfetto per perdersi un po’, anche se all’inizio è stato un po’ scioccante – dopo un titolo del genere – sapere che una delle tematiche affrontate è il suicidio adolescenziale. Warning: explicit content.


A presto con un post su “Furore”. Sì, perché in tutto ciò io ancora sto pensando a quello.