mercoledì 6 gennaio 2016

Una strada perigliosa per un luogo più bello

Questo post sarà piuttosto ingarbugliato, perché ho delle osservazioni da fare che già nella mia testa hanno una forma confusa. Metterle per iscritto, in un modo comprensibile per altro, potrebbe essere più complicato del previsto.
Vi è mai capitato di leggere un libro bellissimo, di cui vi siete innamorati, ma di voler cambiare qualche dettaglio nella trama o nei personaggi? Magari per far finire bene una vicenda triste, o per rendere meglio giustizia al protagonista.
A me è capitato moltissime volte. Mi immergo così tanto nel libro da affezionarmici, e desiderare che tutto vada bene. Purtroppo non sempre è così, e mi ritrovo a pensare che vorrei tanto avere il numero di telefono dell’autore (o, in caso di autore scomparso, avere un passaggio per l’aldilà) per chiedergli di cambiare una o due cosine, giusto per non far terminare il tutto in una valle di lacrime, o anche solo per cambiare quel particolare che proprio non mi va giù.
D’altro canto mi domando: il libro che ho amato funzionerebbe allo stesso modo? Forse sarebbe troppo perfetto, soprattutto per me che detesto i finali troppo rose e fiori (coerenza mode: ON). Quando mi soffermo a pensarci mi dico che in fondo so benissimo anche io che quello è il modo giusto di far andare avanti la narrazione. Non sarebbe altrettanto potente altrimenti. Mi viene quindi di pensare che esistono storie che hanno un’anima propria, che quasi vivono di vita propria. Per quanto un lettore o un autore stesso vogliano cambiarla c’è sempre qualcosa che non li convince nella versione edulcorata e magari più ottimista o con una fine più allegra che ne hanno nella loro testa.
 
Per quanto riguarda le mie esperienze da lettrice posso dire che ci sono moltissimi romanzi che avrei voluto cambiare.
Il primo che mi viene in mente è “I mille autunni di Jacob De Zoet”, di David Mitchell, nel quale alla fine il protagonista (attenzione, spoiler in arrivo!) in un modo o nell’altro perde l’amore della sua vita. Ecco, Jacob De Zoet mi piaceva così tanto che avrei tanto voluto che potesse rimanere assieme alla sua bella, perché la loro storia d’amore mi emozionava. Tuttavia finendo il libro, seppur con grande rammarico, mi sono resa conto che non sarebbe potuta andare diversamente. Non sarebbe stato altrettanto onesto, immediato, di pancia, se fosse finita in un altro modo. Per quanto mi riguarda la storia deve seguire quel corso.
Oltre a quello mi vengono mente “22/11/‘64” di Stephen King, che ha una storia analoga, o “Il profumo” di Patrik Suskind. Sicuramente ce ne sono moltissimi altri, che però adesso non mi sovvengono.
La penso allo stesso modo riguardo a certe storie che ho scritto. Vi dirò di più! Certe volte pianifico la storia perché prenda una certa piega ma, ad un tratto, mi rendo conto che anche se da un punto di vista tecnico la trama non è malaccio, deve comunque prendere una strada differente. Vuoi per i personaggi, che altrimenti verrebbero snaturati, vuoi per le atmosfere, vuoi per quello che la storia comincia a trasmettere e per ciò che vi ho riversato, ma ora è come se gli fossero cresciute le sue gambette e stesse decidendo da sola dove andare.
Forse è una strada più perigliosa, ma è quella che alla fine porterà in un luogo più bello.

lunedì 21 dicembre 2015

Il nome della rosa - Umberto Eco

Buondì! Non sono scomparsa, né mi sono data alla macchia o sono stata rapita dagli alieni. Semplicemente mi sono presa le ferie, quindi ho deciso di staccare da tutto. Anche da internet.
Non so proprio come ho fatto ma è stato quasi automatico. L’altroieri mi sono accorta che era da un sacco che non guardavo gli altrui blog, non sbirciavo twitter né facevo molto altro in realtà con cellulare e pc. Non è stato un male. Mi sono fatta una vacanza completa e ora sono pronta a ripartire meglio di prima, di sicuro senza il nervosismo che avevo accumulato prima di queste vacanze.
 
Ho finalmente colmato una mia lacuna letteraria. Per la verità non tengo molto conto delle mie lacune letterarie, perché mi sono resa conto che tutti pensano che le abbia. Dato che le persone sanno che leggo molto, sembra che debba aver già letto tutto! La gente è tipo: «Non mi dire che non hai letto “L’antologia di Topolino”!, una che legge tanto come te.»
Tuttavia ammetto di essermi sempre sentita un po’ fuori dai giochi quando si parlava di Umberto Eco (o, come lo chiama il Fidanzato “Umberto-erto-erto!”), perché non ho mai letto niente di suo. E soprattutto ammetto di aver covato moltissima curiosità per questo romanzo, perché ne ho sentito parlare da… sempre.
Quindi sono stata molto fiera di me quando ho iniziato a leggere “Il nome della rosa”. E per la verità sono stata ancora più fiera quando l’ho finito.
 
Ebbene, questa non è una recensione, anche se vorrei ardentemente che lo fosse. La verità è che non tutti i libri si possono recensire. Alcuni semplicemente perché ci sono piaciuti troppo, e più che una recensione ne scriviamo un’adulazione, altri perché sono al di là delle nostre capacità.
Questo è uno di quei romanzi che ritengo ‘al di là’. Forse a causa di tutto quel latinorum, o per le dissertazioni filosofiche, religiose, politiche e storiche, ma sento di avere troppe carenze per recensirlo come si deve – finirei per fare un pasticcio.
Mi limito a dire che l’ho apprezzato molto, non solo in quanto giallo perfettamente costruito ma anche e forse soprattutto per la ricostruzione storica. A partire dal linguaggio, che ho adorato e al quale mi sono affezionata sin troppo, tirando fuori addirittura qualche frase anticheggiante con gli amici – che si sono affrettati a chiamare la neuro. Per quanto riguarda lo studio storico che è stato fatto per scrivere questo romanzo, non posso che essere sbalordita. Leggerlo è stato interessantissimo e mi sono soffermata con piacere sulle discussioni dei personaggi, che ho sempre trovato molto interessanti. Meno interessanti, per me, sono stati i racconti dettagliati delle vicende dei frati eretici, ma ho letto d’un fiato la parte in cui compaiono gli inquisitori, anche se mi faceva ribollire di rabbia, e avrei voluto poter entrare nel libro e strangolare tutti gli inquisitori (che probabilmente mi avrebbero additato come strega).
Oltre a questo ho provato a scoprire chi fosse il colpevole perché ero curiosissima. Mi era anche balenata in testa l'idea di farmi uno schemino, ma ha prevalso la pigrizia e poi spesso e volentieri i personaggi ripercorrevano le vicende accadute, fosse anche per fare il punto della situazione - un espediente che ho trovato molto astuto da parte dell'autore - quindi nonostante tutto perdersi nelle congetture non era poi così facile. Alla fine su qualcosa ci avevo azzeccato, anche se non nella maniera giusta (sto per spoilerare, attenzione): avevo previsto che sarebbe finita con un incendio, minimo con qualcuno bruciato, e il fatto che fosse in effetti così mi ha riempita di orgoglio! D’altro canto non mi dispiace aver toppato alla grande, perché anche il protagonista lo ha fatto, quindi mi sento scagionata.
 
Detto ciò adesso dovrò assolutamente guardare il film del “Nome della rosa”. Un po’ perché me ne hanno sempre parlato tutti benissimo, un po’ perché sono curiosa di vedere come sono state affrontate nel film le situazioni che durante la lettura mi hanno catturata.
E allora vado, miei prodi. E se qualcuno di voi conosce altri romanzi simili a questo si faccia avanti, orsù!
 
 

giovedì 3 dicembre 2015

Caffé su bianco

Parliamo spesso dei libri che ci piacciono, dei nostri autori preferiti, del genere che prediligiamo, di ciò che amiamo in un libro. Ma che ne dite di ciò che non ci piace?
Dalla prima occhiata in libreria alla fine del romanzo, ecco cosa non piace a me.
 
In libreria, cercando un bel romanzo da leggere senza richieste particolari, ciò che di sicuro mi fa allontanare dallo scaffale è una copertina trita e ritrita. Non mi attraggono le copertine troppo simili al bestseller del momento, perché in automatico penso ad un romanzo-copia di ciò che è di moda in questo periodo. Quindi scarsa qualità, idee già utilizzate, personaggi ‘predefiniti’ e, in generale, storia scontata che non lascia nulla. Forse mi sbaglio, ma come avrò modo di saperlo se le copertine che mi vengono proposte non hanno nulla di nuovo?
Stessa cosa accade con il titolo. Avevo già parlato dei titoli in un precedente post. Purtroppo vengono tradotti in maniera barbara e seguendo la moda del momento. Un titolo non originale mi allontana decisamente, è l’unica cosa che riesce ad annoiarmi prima di aver aperto un libro.
 
Passiamo quindi all’incipit. Il romanzo prescelto ha superato i rigorosi test estetici iniziali di cui sopra, mi accingo a leggere giusto l’inizio per vedere se mi va. Mi deve catturare in fretta. Su questo, lo ammetto, sono superficiale, lascio perdere senza sforzarmi se non mi interessa da subito. Per piacermi deve avere qualche tratto di originalità, nello stile o nel personaggio che presenta, o anche solo nel contesto in cui vuole portarmi. Magari inizia con un piccolo conflitto che possa subito catturare la mia attenzione. Tanto per capirci, non va bene:
 
Marco viveva in un piccolo appartamento al quarto piano, dal quale la vista era grigia dello smog della grande città. Era un ragazzo tranquillo, lavorava in una caffetteria e aveva un gatto nero che aveva chiamato Luke, con il quale aveva litigato appena prima di uscire di casa. Luke si era arrampicato sull’armadio e ci erano voluti dieci minuti buoni per tirarlo giù. Marco era uscito in ritardo quella mattina, probabilmente la caffetteria aveva già aperto.
 
Non funziona, non mi interessa sapere che Marco è uno qualsiasi che ha un gatto qualsiasi. Sarebbe meglio, magari:
 
L’orologio segnava già le sette meno venti e Luke muoveva la coda ritmicamente da sopra l’armadio. Miagolava ogni tanto, come facendosi beffe del suo padrone che, in ritardo per il lavoro, cercava di riacciuffarlo con mille lusinghe. Aveva provato con la promessa dei croccantini, poi aveva cercato di farlo saltare giù brandendo un piumino per la polvere contro di lui, ma non aveva funzionato. Aveva anche esclamato ‘Luke, io sono tuo padre!’, ma il gatto non era parso impressionato.”.
 
Un po’ meglio, mi sembra. Presenta il personaggio principale dandogli subito un accenno di carattere, fa capire che tipo di vita conduce senza sbandierare che è normale e forse monotona, e mette già un pochino di carne al fuoco facendo notare che avrà un contrattempo arrivando in ritardo al lavoro, e questo potrebbe dare spunti per l’infittirsi della trama. Forse un lettore non analizzerà tutto così a fondo come ho fatto io adesso, ma percepirà queste informazioni inconsciamente.
 
Okay. Marco e il suo gatto mi hanno conquistata, compro il libro e inizio a leggerlo non appena posso (conoscendomi non aspetto neanche di arrivare a casa, probabilmente lo leggerei direttamente in libreria, sull’autobus, in attesa dentro un bar, insomma subito).
Quando ancora il romanzo deve ingranare, presentare i personaggi principali, la situazione in cui si trovano e introdurre il conflitto che porterà avanti la trama, una delle cose che più noto sono gli errori ortografici o di revisione. Forse il libro che ho comprato li ha, ma andando avanti scopro che è un buon romanzo, quindi posso passarci sopra. Purtroppo però non dimenticherò mai che ho trovato questi errori. Se il romanzo è autopubblicato diciamo che posso chiudere un occhio, se invece è pubblicato da una casa editrice continuerò a guardar male tutte le pubblicazioni della CE in questione, ricordando vita natural durante quel romanzo pieno zeppo di errori.
In queste cose sono come un elefante. Non dimentico… mai.
Eccomi, mentre cerco di dimenticare i refusi di un libro.
 
Continuando a leggere, altre cose che mi danno fastidio sono personaggi scontati che non hanno uno sviluppo e una trama inconsistente.
Per i primi se non sono come piacciono a me comincio a dare i primi segni di squilibrio a metà libro. Non apprezzo i personaggi che si presentano in un modo all’inizio del romanzo e, quando questo finisce, non hanno subìto nessuna evoluzione o non si è visto che un solo lato del loro carattere. Non sopporto quelli ‘assoluti’, ossia assolutamente perfetti, simpatici, gentili, affermati, intelligenti e tutte le qualità che si possono immaginare. Così come non amo quelli troppo cattivi, che vogliono conquistare il mondo, non hanno mai amato nessuno, rubano le caramelle ai bambini e vogliono sterminare tutte le creature coccolose sulla faccia della terra.
Ecco, no, personaggi così sono da bollare completamente. Intanto perché non potrebbero mai esistere, e poi perché sono prevedibili e noiosi. Se qualcuno è buono fino all’osso farà sempre la scelta giusta, e se invece è cattivo fino all’osso farà sempre ciò che è peggio. Non c’è divertimento, nei libri, con personaggi del genere.
Riguardo alla trama invece non mi piacciono le trame troppo semplici. Quando un libro presenta un semplice scorrere di eventi senza nessun gioco di intreccio, nessuna azione e reazione, allora quasi certamente non mi piace.
 
Infine, parliamo della fine. La fine di un libro è delicata quanto il suo inizio, se non di più. Perché se arriviamo alla fine di un romanzo ci siamo fatti delle aspettative, vogliamo che la storia si concluda in maniera adeguata.
Personalmente sono parecchi i finali che non mi piacciono ma penso di poter riassumere in generale le mie preferenze così: non amo i finali affrettati. Non voglio che nell’ultimo capitolo venga risolto tutto e tanti cari saluti, voglio dire addio ai luoghi e ai personaggi che ho amato con calma, scoprendo tutto ciò che hanno fatto dopo la fine dell’avventura che ci è stata narrata. Ci sono sempre conseguenze alla fine di un romanzo se questo ha narrato una bella storia, e io come lettore voglio conoscerle tutte, vorrei sapere che fine hanno fatto i personaggi, anche quelli meno importanti, e come si sono risolte tutte le magagne della storia.
E mi sento così.
 
Mi sono resa conto di tutte queste piccole preferenze innanzitutto leggendo come se non ci fosse un domani, e poi soprattutto recensendo libri. Così facendo mi sono soffermata ad analizzare parecchi libri in maniera molto più approfondita del semplice “mi è piaciuto” o “non mi è piaciuto”. In questo modo è stato automatico scoprire quali libri erano più interessanti per me e quali non lo erano.
Inizialmente questo post doveva parlare dei generi che mi piacevano di meno. Alla fine però mi sono resa conto che, almeno per me, non è questione di generi. Ho trovato, scavando nella memoria, almeno un libro letto per ogni genere, persino quelli che effettivamente mi attraggono di meno, come i libri di fantascienza o romantici. Ne ho letto e apprezzato diversi in vita mia, quindi ho pensato che non posso completamente bollare nessun genere. Inoltre non c’è nulla, in termini di canone, che proprio detesto in questi generi. Ad esempio non odio la tecnologia né lo spazio o gli alieni che potrei trovare nei romanzi di fantascienza, e non odio di per sé le situazioni romantiche, anzi tutt’altro, ogni tanto mi fa piacere avere qualche scena romantica nella quale potermi crogiolare.
La verità è che vado molto a periodi. Ci sono giorni che smanio per leggere di cavallereschi duelli, altri che vorrei solo immaginare filosofici dibattiti fra pittoreschi personaggi, e altri ancora che vorrei sentirmi nei panni della ragazza corteggiata romanticamente da un tipo misterioso e sexy. Insomma, a periodi è proprio il modo giusto per definire le mie abitudini di lettura.
Giunta a questa conclusione mi sono detta che non è un genere a non piacermi, sono solo dei dettagli, e da qui è nato questo post.
E voi? Che mi dite dei dettagli che vi balzano subito all’occhio e che possono compromettere seriamente un libro? Come una macchia di caffè su un vestito bianco.

venerdì 20 novembre 2015

Carta straccia #2: Noi siamo grandi come la vita – Ava Dellaira

Quando vedi una copertina come quella di “Noi siamo grandi come la vita”, di Ava Dellaira, ti affascina. Quando leggi di cosa parla, te ne innamori. Quando infine porti a termine la lettura… è allora è che capisci che era una gran fregatura (ed in quanto fregatura, vi farò degli spoiler).
 
La storia è raccontata dalla protagonista Laurel attraverso delle lettere che inizia a scrivere per un compito in classe assegnatole dalla sua professoressa: «Scrivi una lettera a una persona che non c’è più.» Laurel, che ha da pochi mesi perso la sorella maggiore May, scrive a Kurt Cobain, che era stato il suo idolo. Comincia così una fitta corrispondenza fra lei e molti personaggi famosi scomparsi. In queste lettere la ragazza racconta le sue esperienze, i suoi desideri, le paure, e più volte fa riferimento alla morte della sorella, parlandone come se fosse sua responsabilità.
In quell’anno di lettere mai spedite Laurel fa amicizia con due ragazze che, fra timori e gioie, si scoprono innamorate, con una coppia di giovani più grandi in cui ognuno dovrà imparare a seguire la propria strada, e si innamora di Sky, un ragazzo misterioso di cui nessuno sa molto. Vive con rabbia l’abbandono di sua madre che, dopo la morte della figlia più grande, ha cambiato città e abita lontano, e vede con rammarico il padre soffrire per la perdita della figlia maggiore.
Capiamo subito che l’amore di Laurel per la sorella era così grande da sconfinare nella cieca ammirazione. Voleva essere bella come lei, tosta come lei, avere il suo coraggio, il suo stile, ed entrare un po’ in quel mondo di adulti – o quasi – di cui May iniziava a fare parte, mentre a Laurel sembrava di rimanere fuori, piccola e insignificante.
Solo alla fine del romanzo la protagonista ha il coraggio di raccontare alla famiglia ciò che è successo veramente. Sua sorella frequentava di nascosto un ragazzo più grande e, con la scusa di andare al cinema con la sorellina, si vedeva con il fidanzato lasciando Laurel con un amico di lui, che la molestava. Il giorno in cui Laurel glielo confessa, May, ubriaca e triste a causa della sua relazione, ha un incidente e cade da una scarpata. Laurel porta per molti mesi con sé il peso di quell’incidente, poiché pensa che se non fosse stato per la sua rivelazione, forse May non sarebbe mai caduta.
Laurel infine ammette con sé stessa che sua sorella non era perfetta e non era forte come si mostrava davanti agli altri, ma decide di accettarla per quello che era, ricordandola solo con gioia.
 
Non so bene come cominciare questa recensione. Magari inizio col dire che questo romanzo mi ha fatta arrabbiare. Non gli trovo nemmeno un dettaglio che vada bene, né dal punto di vista stilistico né da quello morale.
In primis lo stile, non la cosa peggiore che ci sia nel romanzo ma una di quelle. Se pensiamo che le lettere sono scritte da una ragazza di quindici anni possiamo capire come mai sia semplice, senza troppe pretese, e i concetti di per sé infantili. Mi sta bene. Però deve essere coerente, proseguire nello stesso modo per tutta la narrazione. Verso la fine, momento di maggior coinvolgimento emotivo, l’autrice ha deciso di inserire in ogni pagina lunghe diserzioni dal taglio poetico e profondo, paragoni arditi, frasi ad effetto. Intanto mi domando perché prima non c’erano se a scrivere è sempre la stessa persona (per carità, si può maturare uno stile, ma deve essere graduale), e poi devo ammettere che dopo un po’ perdevano di qualsiasi funzione, diventavano addirittura fastidiose. Non perché a scriverle fosse una quindicenne, ma perché ne scriveva una ogni due righe.
Ava Dellaira
I personaggi sono quasi tutti senza spessore, prevedibili e in alcuni casi irrazionali. Laurel ad esempio si comporta per tre quarti del libro in maniera stupida, irresponsabile, a volte odiosa. Stiamo parlando di una ragazza che passa un momento difficile, oltretutto durante l’adolescenza. Ha perso la sorella, la sua famiglia si è disgregata, ha la sua prima cotta e deve affrontare tutti i giorni la scuola e le sue piccole battaglie. Da questo punto di vista è comprensibile che sia irresponsabile e a volte odiosa. Però ha quindici anni. E alla fine del libro ne ha sedici. Quindi spiegatemi perché all’improvviso Laurel ha questa illuminazione pazzesca e comincia a ragionare e comportarsi come un’adulta responsabile, passando in una settimana scarsa da una maturità di sedicenne ad una di una ventiseienne.
Ma non è questa la cosa che mi ha infastidito più di tutte. Credo che ci sia stata una grande mancanza di sensibilità da parte dell’autrice. Sono convinta che quando si trattano argomenti delicati sia giusto dare loro lo spazio necessario, l’importanza giusta. Lo spazio che nel romanzo viene dedicato ai soprusi che Laurel subisce sono una minima parte, e nessuno reagisce da normale essere umano quando lo scopre. Capisco che lei stessa non sappia come reagire, in fondo parliamo di una ragazzina e penso che in una situazione come quella anche molte donne non saprebbero cosa fare, ma quando lo dice ai genitori questi si limitano ad un «mi dispiace che ti sia accaduto questo». Poi la mandano dallo psicologo. …voglio dire, are you fucking kidding me? In quale universo un genitore reagisce così mollemente nel sapere di terribili traumi e ingiustizie perpetrati a danni dei propri figli?!
A meno che non lo faccia consapevolmente, apposta per turbare o per far pensare, un libro non può liquidare una faccenda importante come un molestatore di ragazzine in due pagine. La Dellaira ha preso una faccenda delicata come l’abuso e l’ha liquidata rendendola una macchietta trascurabile e apparentemente un ostacolo facilmente aggirabile della protagonista. Ha messo a posto la faccenda in due parole, tanto Laurel va dallo psicologo ed è di nuovo felice, i suoi genitori le chiedono scusa per non essersi resi conto di niente e lei diventa adulta e responsabile. Tutto sistemato no?
Mmmm.... no.
 
 
Ero convinta di questo libro. Un po’ per la copertina, lo ammetto (anche l’occhio vuole la sua parte, lo dico sempre al Fidanzato quando guardo Daryl di TWD), un po’ per le lettere a tutti quei personaggi famosi scomparsi, un po’ per il mistero della morte che aleggiava in tutta la storia, ma alla fine sono rimasta più che delusa, arrabbiata.
L’unica cosa che mi ha spinta a terminarlo è stato scoprire il famoso mistero sulla morte di May che, alla fine, mi ha fatta arrabbiare ancora di più.
Lo sconsiglio a chiunque e non mi sento di salvarlo sotto nessun punto di vista.

giovedì 5 novembre 2015

Abbasso la sezione per ragazzi!

Quando ero ragazzina e mi trovavo nella mia fase fantasy a livello acuto, in libreria gironzolavo sempre nel reparto dedicato ai ragazzi. Lì ho trovato moltissimi libri che ho amato e tutt’ora adoro e conservo gelosamente nella mia libreria – o per meglio dire nei mobili che si sono ritrovati loro malgrado ad essere librerie, dato che non so più dove mettere i libri.
Poco tempo fa mi è capitato di vedere, nella biblioteca dove vado di solito, il terzo libro della saga “Abarat”, di Clive Barker, negli scaffali dedicati a bambini e ragazzi.
Non conoscete questo titolo? Lo sapevo. Non lo conosce quasi nessuno, non ho mai incontrato nessuno che lo conoscesse, anzi di solito sono io a consigliarlo a tutti (se qualcuno di voi lo conosce me lo dica, lo lovverò).
Vi basti sapere che è dello stesso autore che ha scritto “Hellraiser”. Nel libro ci sono mostri con dieci occhi sparpagliati sulla faccia, altri con tre bocche che possono parlare con gli insetti e ci vivono pure, personaggi malvagi che schiavizzano bambini e altri che uccidono gente con i propri incubi. Non so di cosa fosse fatto Barker quando lo ha scritto, ma di certo era roba potente. E vi parlo solo del primo libro. Nelle sue intenzioni “Abarat” dovrebbe essere un pentalogia che, mannaggia a lui!, non è ancora finita. Comunque sia ho già letto l’ultima uscita in inglese e vi confermo che segue lo stesso andazzo del primo e del secondo libro.
Quindi la mia domanda è: perché si trova nel reparto bambini?
A questa domanda ne sono seguite altre, e da queste è nato il post che state leggendo.
 
 
Fino a quando abbiamo nove o dieci anni è giusto che i libri abbiano un’età consigliata. Quando i bambini sono piccoli anche due o tre anni fanno la differenza e magari si rischia di comprare un libro troppo semplice o troppo complesso.
Credo che si possano dividere per età fino alla preadolescenza, quando poi nei bambini vengono sparati ormoni come si aprono gli idranti su una folla. Spuntano i brufoli, i ragazzini cominciano a chiudersi in camera e a dire che i genitori gli fanno due palle così (posso appurarlo con la mia dolce nipote, che a volte desidero lanciare fuori dalla finestra, e non ha nemmeno quindici anni).
Quando si cominciano ad avere undici o dodici anni, allora mettere dei paletti sulle letture può essere più complicato. Ci sono romanzi con temi delicati che vengono però trattati con un’ottica comprensibile, ci sono libri dalla trama semplice e una prosa complessa. Inoltre si deve prendere in considerazione la maturità che un ragazzino di quell’età sta conquistando, che è del tutto soggettiva.
 
In un’intervista un signore che aveva letto, da bambino, “Lo hobbit”, ricorda la recensione che ne scrisse per suo padre, che aveva una piccola casa editrice ed era amico di Tolkien. Da bambino, lo consigliava ad altri bambini di circa nove anni. Rimasi basita quando vidi questa intervista perché io avevo letto “Lo hobbit” alle medie e lo avevo trovato un bel mattoncino, per quanto piacevole.
Questa è la prova che un ragazzino può leggere, comprendere e apprezzare molto più di quel che immaginiamo. Chiudere la loro immaginazione e la passione per la lettura nella ‘sezione per ragazzi’ non è giusto. Dovremmo solo informarci prima sui che libri vogliono leggere e, nel caso non siano adatti, non comprarglieli. Se non parlano di argomenti troppo adulti per la loro età, è un problema che siano faticosi da leggere? Davvero dobbiamo proteggerli dai classici perché sono pesanti, dai romanzi di formazione perché potrebbero avere qualche contenuto che li porta a farsi delle domande?
A volte mi sembra che dividere la sezione ‘per ragazzi’ dalle altre sia come dare un fermo alla lettura. Prima o poi questi ragazzi si stuferanno delle letture consigliate che, per l’80%, sono tutte abbastanza simili le une alle altre. Inoltre proteggerli dai libri brutti e cattivi non adatti a loro non è compito della libreria, bensì dei genitori o di chi vuole comprare loro un libro. Dando un’occhiata veloce queste persone possono capire subito che va bene “Harry Potter” e un po’ meno “Trono di spade”.
Cosa c’è di meglio di leggere un libro un poco ostico ma che ci piace, arrivare alla fine e vedere che ce l’abbiamo fatta? Più facciamo fatica a ottenere qualcosa, più siamo soddisfatti quando arriviamo al traguardo. Perché rendere la lettura qualcosa di facile? Qualcosa di scontato, senza emozione di per sé? Se diamo ai ragazzi libri facili non gli stiamo rendendo più comoda la vita, li stiamo allontanando dalla lettura. Leggere qualcosa che un team di esperti ha considerato adatto alla loro età significa fargli leggere qualcosa su concetti già assimilati. Vuol dire non scoprire. Mentre invece i libri servono proprio a quello, fare esperienze su qualcosa di nuovo.
 
 
Non mi aspettavo che questo post uscisse così ricco di contenuti, ma alla fine così è stato. Almeno, a me sembra ricco – forse è un’idea mia.
Le conclusioni che ne traggo sono le seguenti: Rivoluzione! Aboliamo le sezioni per ragazzi!
A parte gli scherzi, credo che sarebbe un buon modo per rendere la lettura più interessante per chi vi si avvicina da molto giovane. Forse farebbe bene anche ad alcuni adulti, pieni di libri seri e impegnativi, prendere in mano un romanzo e scoprire che si tratta di un libricino semplice, di poche pretese, che tuttavia li conquista.