Quando vivevo con mia madre leggere era
scontato.
Tornavo a casa e mi mettevo a leggere, studiavo
con qualche amico, mi mettevo a scrivere e poi giù a leggere di nuovo. Era
facile, era automatico. Ora che devo pensare alla mia sopravvivenza e
inventarmi ogni giorno almeno due consistenti pasti che non si assomiglino
troppo, leggere è diventato qualcosa per cui devo essere nel mood giusto. A volte è così facile, dopo
una giornata stancante, mettersi semplicemente di fronte alla tv e guardare la
prima cosa che ti capita davanti agli occhi, fosse anche la televendita dello
chef Tony.
Solo ora mi rendo conto della quantità
assurda di tempo libero che avevo quando studiavo o anche solo quando già lavoravo
ma ero ancora a casa dei miei. Se all’epoca mi avessero detto che in sola una
mattinata si potevano fare un mucchio di cose (andare a correre, fare la
doccia, la spesa e cucinare il pranzo, tanto per dirne qualcuna) non ci avrei
creduto.
Comunque sia, adesso prendo in mano un
libro soprattutto prima di andare a dormire – a prescindere dall’ora in cui
vado a dormire – e leggo per prendere sonno. Se il libro non è particolarmente
interessante allora mi aiuta, se il libro è bello… be’, io sono disposta anche
a dormire un po’ meno, pur di continuare a leggere.
Tutte le sere, immancabilmente, è
successo così con il libro di Eric Emmanuel-Schmitt, “Ulisse da Baghdad”. Lo
iniziavo dicendomi: «Solo un capitolo poi spengo», e invece finivano per
diventare uno e mezzo, due, e perché non tre? Non solo il libro è interessante
e ti spinge a proseguire, ma è anche uno di quei libri che ti accompagnano anche
dopo che li chiudi.
Io lo chiudevo e spegnevo la luce, e mi
addormentavo pensando a Saad.
Saad nasce in Iraq sotto il regime di
Saddam Hussein. Da bambino impara a relegare in un angolo il dittatore che
governa il paese, onnipresente ma invisibile al tempo stesso. Crescendo, impara
che Saddam non poi così innocuo come lo credeva da bambino. Comincia a vedere
il lato oscuro del regime, i poliziotti che arrestano persone senza valide
accuse e le pestano per far loro confessare colpe mai avute, i libri proibiti
unicamente perché inglesi, e la difficoltà di vivere in un paese che l’embargo
ha reso povero.
Nonostante questo la sua vita continua,
mentre la famiglia si allarga e le sue sorelle maggiori prendono marito, e suo
padre è costretto a vendere sottobanco qualche libro proibito per pagare parte
del matrimonio. Saad si iscrive all’università e lì conosce Leila, di cui s’innamora
pazzamente, raccontando incantato alla famiglia che avrebbero capito il perché
di quella infatuazione «se solo vedeste come fuma una sigaretta.»
Intanto il paese si fa sempre più
povero, in balia degli estremisti islamici e con la minaccia di un monarca da
un lato e dell’invasione/liberazione americana dall’altro. Il popolo non sa più
che cosa sperare quando, ad un tratto, accade: arrivano gli americani, il
governo di Saddam Hussein cade e forse è proprio questo che l’Iraq aspettava
per rifiorire.
O forse no.
Incompresi e incomprensibili, gli
americani si limitano a rimanere a guardia delle loro fortezze, e Saad smette
di credere in loro quando un uomo si fa esplodere in mezzo al mercato a
Baghdad, mettendo in moto una serie di eventi che lo porterà a fuggire dal suo
paese.
Non vi dico di più, ma solo perché il
libro è talmente bello che non voglio rovinarvelo, nel caso lo leggiate. Di
solito non mi preoccupo troppo di spoilerare, ma ci sono libri in cui lo
spoiler è vietato.
Eric Emmanuel Schmitt |
Sinceramente, non ho una particolare
opinione in merito al problema dell’immigrazione. Un po’ perché non sono
informata e un po’ perché non sono poi così interessata, lo ammetto (ma dopo
aver letto questo libro lo sono un po’ di più).
Mi viene in mente un cartellone che ho
visto almeno cinque anni fa sotto elezioni, di non ricordo quale partito (anche
se un’idea ce l’avrei…). C’era un indiano d’America disegnato e sotto la
scritta “Loro hanno subìto l’immigrazione.
Ora vivono nelle riserve.”
…voglio dire… sul serio?
Chi è l’idiota che ha paragonato l’immigrazione
in Italia di quelli che sono destinati a diventare vucumprà con l’invasione degli
europei nei territori indiani?! Insomma, non mi ero accorta che i barconi che
arrivano a Lampedusa fossero carichi di aitanti militari che imbracciano fucili
e vogliono invadere il paese. Inoltre,
se ci paragoniamo agli indiani del 1400 ci stiamo davvero svilendo!
Una volta una mia insegnate delle medie
disse che tutti quelli che dicevano: «Tornatene al tuo paese!» erano dei
cretini. A rigor di logica, posso solo darle ragione. Spero che nessuno di voi
lettori pensi seriamente cose del genere, perché altrimenti vi avrei appena
dato del cretini, ed è una cosa che tendo a non fare con i (pochi) lettori del
mio blog.
Lasciamo perdere la questione del lavoro
e dell’illegalità solo per un momento e concentriamoci su questa frase:
«Tornatene al tuo paese.» Sto parlando con te, sproloquiatore seriale: ma se un poveraccio ha usato i risparmi di
una vita per attraversare il Mar Mediterraneo assieme ad altre trenta persone
in un gommone che ne può contenerne dieci, sarà perché nel suo paese non ci può
più stare no? Chi mai si sottoporrebbe a viaggi estenuanti, continui pericoli e
futuro incerto per poi arrivare in un paese dove ti disprezzeranno, così, per
sport?
Le persone amano il proprio paese, tutte
quante. Chi ostentatamente e chi senza nemmeno accorgersene, ma ognuno ama il
posto dove è cresciuto, il luogo del quale conosce le tradizioni, la cucina, la
politica, la storia, le persone. Lasciare il proprio paese non è mai del tutto
piacevole, nemmeno per chi lo fa come scelta di vita o per lavoro. Quante volte
sentiamo italiani che vivono all’estero che spergiurano sulla nonna che un
piatto di semplice pasta nessuno lo fa sa fare come lo facciamo qui in Italia?
Se una persona fugge dal proprio paese è proprio questo che fa: fuggire. E si
fugge solo quando non si ha altra scelta.
“Ulisse da Baghdad” mi ha fatto pensare
a tutte queste cose e a molte altre ancora, ma soprattutto mi ha regalato una
bella storia. Reale, attuale, cruda, ma intrisa di speranza.
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