Non guardo moltissima tv, nella maggior
parte dei casi la accendo quando stiro/stendo/attento alla mia massa grassa
facendo addominali, quindi non la guardo che per qualche minuto, e nemmeno
tutti i giorni. È stato proprio un caso, quindi, che trovassi su La5 un
documentario sugli autori irlandesi.
Ovviamente si è parlato anche di Joyce e
della tecnica del flusso di coscienza e, anche se non ne so moltissimo,
immagino che si possa definire un monologo interiore estremizzato.
Ho iniziato a pensare a questa tecnica e
da qui è nato il post.
Prima di tutto, perché un autore
dovrebbe usare il monologo interiore?
A mio parere è un modo per far conoscere
meglio il protagonista. Questa tecnica esplora i suoi pensieri ma non solo, ci
dà una visione del suo carattere per mezzo di molti fattori. Ad esempio il modo
in cui parla a sé stesso, un linguaggio che sicuramente è più colloquiale, più
svelto di come invece parla con gli altri. L'autore può anche farci capire cosa il personaggio pensa di sé stesso, come si considera, se ha dei problemi o è relativamente in pace con la sua vita. Capiamo di più sulla
sua psiche, cosa che può essere utile anche ai fini della trama ma, oltre a
questo, arricchisce il personaggio.
Un altro modo in cui il monologo
interiore può esserci utile è per spezzare la narrazione, in una scena
descrittiva ad esempio. Se usata con ingegno può essere un puntello ad una
scena d’azione, in cui alternare azione e pensiero frenetico del personaggio
che si trova a rischio. L’arma risulta comunque a doppio taglio,
perché spezzare la narrazione troppo spesso può renderla frammentaria,
difficile da seguire, quindi penso che sia una tecnica da usare con parsimonia.
Non amo dover lasciare ‘in sospeso’ ogni due minuti ciò che accade per
conoscere il pensiero del protagonista, quindi penso che si debba usare solo se necessario.
Una delle cose più interessanti del
monologo interiore, cui ho pensato scrivendo questo post, è la sua versatilità. Può essere usato in moltissimi modi e
dare quindi il taglio che preferiamo ad un romanzo. Il più classico dei metodi
prevede una frase rifinita, un pensiero del protagonista confezionato per
renderlo fruibile al lettore, di solito scritto in corsivo o fra virgolette, ma il documentario su Joyce mi ha fatta riflettere.
Il monologo interiore più onesto, se
vogliamo, è quello che viene utilizzato in “Finnegan’s wake”, una sfilza di
parole, pensieri, canzoni, immagini una dietro l’altra senza un apparente
ordine logico, ma che costituiscono in effetti i nostri pensieri. Non esiste,
in realtà, un modo concreto per illustrare un ragionamento, e questo significa
che un autore può sbizzarrirsi per cercare di metterlo su carta.
Si tratta di un modo estremo, che poco ha a che vedere con la narrativa e molto con la letteratura, a mio parere, quindi ho deciso di restare dell'idea di conciliare un
pensiero ad una frase comprensibile da un ipotetico lettore.
Potremmo comunque interrompere la narrazione all'improvviso e scrivere una sorta
di mini flusso di coscienza, ignorando le regole grammaticali più elementari
per dare l’idea di un pensiero volatile, appena percepito,
sarà
chiaro?, forse dovrei cercare qualche esempio sui libri o chi legge non capirà, questo post
è confuso lo dovrei rileggere, oddio ma quando mi ci metto? E prima lo finisco
e poi lo rileggo o lo rileggo subito? Libri, libri in cui cercare esempi... oddio un sacco dei miei libri sono ancora negli scatoloni, come faccio?
Questo solo per farvi un esempio, e non molto distante dalla realtà.
Un metodo che non interrompe la
narrazione è quello di rendere il pensiero del personaggio un personaggio
stesso, il che introduce anche un discorso riguardo alla doppia personalità,
che l’autore può utilizzare come meglio crede, ovviamente in un romanzo che vi si adatta, o per un personaggio che necessita di questa sfumatura. Ad esempio Gollum nel Signore
degli anelli parla con Smeagol, ma altro non è che un monologo interiore. Un
altro esempio è quello del protagonista del film “The lady in the van”,
adattamento di un’opera teatrale di Alan Bennett, in cui l’autore stesso parla
con un altro sé, poiché divide l’uomo dallo scrittore.
Questi sono i modi che conosco io per
usare il monologo interiore. Forse ce ne sono altri, nel caso sarei molto
curiosa di conoscerli!
E
voi, come lettori e/o come scrittori, che ne pensate di questa tecnica? Vi piace
o vi infastidisce trovarla in un romanzo? La usate o cercate di evitarla a
tutti i costi?
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