martedì 3 gennaio 2012

Tagliata in due da Dexter, il Vendicatore

   È l’una e tredici del mattino, e queste sono le prime impressioni a caldo che ho avuto del primo romanzo di Jeff Lindsay, “Dexter, Il vendicatore”.
   Pubblicato per la prima volta nel 2004 con il titolo “La mano sinistra di Dio” (“Darkly dreaming Dexter”, in inglese), il libro ha avuto successo immediato, diventando un best seller. Questo ha fatto sì che nel 2006 ne venisse prodotta una serie dalla Showtime, che è diventata, oserei dire, più famosa del libro stesso. Ho conosciuto infatti per prima la serie televisiva “Dexter”, che mi ha oltremodo affascinata, e così dopo parecchio (all’alba della sesta stagione) mi ritrovo a leggere il libro.
   Essenzialmente ci troviamo di fronte alla stessa trama, e per chi ha visto la serie non è più una sorpresa così grande. Tuttavia nessuno gli risparmia la mia critica, perché, ahimè mi duole ammetterlo, ma questo è uno dei rarissimi casi in cui lo show televisivo ha fatto un lavoro migliore del libro.
   Non voglio però confrontare le due cose, assolutamente, perché la carta stampata ha meccanismi del tutto diversi da quelli della pellicola, ma se, nel loro ambiente, dovessi votare i due lavori, darei a questo libro un sei e mezzo, mentre la serie si prende come minimo un nove.
   Perché?
  
   Ovviamente non posso che ammirare la scelta del protagonista: un uomo orribile, un mostro, come lui stesso si definisce, un malato mentale, un serial killer! Se lo vedessimo al telegiornale lo chiameremmo in questi e molti altri modi, anche poco lusinghieri, ma di certo non: il fichissimo protagonista dell’ultimo libro che ho comprato. Non che io ammiri il lavoro dei serial killer, ma ammiro Jeff Lindasy per averci provato (ed esserci riuscito!) e aver preso come protagonista, come ufficiale “bravo ragazzo”, un assassino della peggior specie!
   Esistono già, nella storia della letteratura moderna e contemporanea, personaggi negativi protagonisti. Tuttavia credo che oggi l’immagine del serial killer sia il cattivone per antonomasia. L’idea di poterlo trovare affascinante, provare simpatia per lui, addirittura stare dalla sua parte, era qualcosa che non balenerebbe in testa a nessuno se non fosse per la bravura di un autore. E qui torno ad ammirare Lindsay, che ha reso un personaggio socialmente inaccettabile il nostro eroe.
   A questo punto sorge spontanea una domanda: «Come ha fatto?». Purtroppo non ho nessuna teoria al riguardo, perché qui arriviamo al nodo negativo di questa recensione, ovvero lo stile.
   Dire che non mi è piaciuto non è del tutto vero. La narrazione in prima persona rende possibili certe… confidenze, certe frasi che usiamo nel parlato ma che solitamente non useremmo per uno scritto, ed è proprio questo che a volte non mi piace: credo che lo scrittore si prenda troppe licenze con questo escamotage. E in “Dexter” di licenze ne sono state prese parecchie! È una questione di gusti, me ne rendo conto, ma credo che in questo Lindsay abbia esagerato.
   Passiamo ad un altro punto che mi ha fatto riflettere. Il tono del romanzo è di certo leggero, il protagonista tende a buttare tutto sul ridere anche nelle situazioni più cupe, e questo è di certo un bene secondo me, perché altrimenti il tutto sarebbe troppo serioso, e allora sì che ci renderemmo conto che il nostro amato protagonista è un brutale serial killer che ode voci che lo incitano ad uccidere! Il che lo renderebbe piuttosto spaventoso, per nulla simpatico, no no… Quindi in pratica mi è piaciuto questo andare avanti in maniera divertente, ironica.
   Arriviamo al punto dolente, perché ce ne sono un paio belli grossi.
   Questo romanzo manca di particolari, e i momenti di tensione svaniscono quando dovrebbero essere al loro picco.
   Punto primo: i particolari. L’autore si è dilungato molto a parlare di quanto Dexter si senta inumano, di quanto sia privo di sentimenti (la cui cosa poi viene smentita continuamente nel corso della narrazione, e soprattutto per come si risolve alla fine la storia), ma non ha dato alla trama e a certi aspetti della sua vita lo stesso spessore, cosa ingiustificata data la prima persona. Il protagonista avvia una ricerca quasi da detective, ma le intuizioni, il ritrovamento di prove e l’articolazione di ipotesi (queste ultime due poi sarebbero il suo lavoro) semplicemente non ci sono. Dexter va avanti a intuizioni, quasi a tentoni, e con una fortuna sfacciata riesce a risolvere la situazione! Inoltre la sua vita privata, già quasi inesistente, ha quel poco di slancio con la storia di Rita, che lui afferma essere importante per la sua facciata da persona normale, ma sembra che non appena Lindsay raggiunge il suo scopo (ossia, appunto, la scopa inteso come verbo) ci dimentichiamo di Rita, e dei passi avanti in una relazione che, mostro o non mostro, anche Dexter deve compiere, o per lo meno fingere.
   Infine i momenti di maggior tensione, verso la fine del romanzo, semplicemente scompaiono, anche se io ancora non ho capito il perché. Forse è solo perché già sapevo come andava la storia. Ma davvero, la parte che doveva emozionarmi di più mi ha lasciata quasi indifferente, anzi peggio! Ero in uno stato da «Ma quando la finiamo?» Mi sono ritrovata ad apprezzare di più tutto il resto del racconto, che il nodo cruciale della trama.
   Il finale, poi, è semplicistico. Non viene neanche spiegato per bene. Ecco, questo mi ha talmente indignata che non ho voglia neanche di spenderci parole. Dev’essere stato lo stesso stato d’animo di Linsday quando ha scritto quel maledettamente corto epilogo.

   Alla fine? Alla fine questo libro mi trova impreparata a dargli un voto finale. Probabilmente è a causa di Michael C. Hall, che nei panni di Dexter mi ha fatta affezionare a lui. È tutta colpa sua…
   Sono talmente divisa che sono certa di due cose: la prima è che mi è piaciuta più la serie, la seconda che continuerò a leggere i romanza di Dexter. Eh sì, possiamo dire che, alla fine, in modo piuttosto intricato, Lindsay ha vinto anche su di me.

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