È l’una e tredici del mattino, e queste sono le prime
impressioni a caldo che ho avuto del primo romanzo di Jeff Lindsay, “Dexter, Il
vendicatore”.
Pubblicato per la prima volta nel 2004 con il titolo “La
mano sinistra di Dio” (“Darkly dreaming Dexter”, in inglese), il libro ha avuto
successo immediato, diventando un best seller. Questo ha fatto sì che nel 2006
ne venisse prodotta una serie dalla Showtime, che è diventata, oserei dire, più
famosa del libro stesso. Ho conosciuto infatti per prima la serie televisiva
“Dexter”, che mi ha oltremodo affascinata, e così dopo parecchio (all’alba
della sesta stagione) mi ritrovo a leggere il libro.
Essenzialmente ci troviamo di fronte alla stessa trama, e
per chi ha visto la serie non è più una sorpresa così grande. Tuttavia nessuno
gli risparmia la mia critica, perché, ahimè mi duole ammetterlo, ma questo è
uno dei rarissimi casi in cui lo show televisivo ha fatto un lavoro migliore
del libro.
Non voglio però confrontare le due cose, assolutamente,
perché la carta stampata ha meccanismi del tutto diversi da quelli della
pellicola, ma se, nel loro ambiente, dovessi votare i due lavori, darei a
questo libro un sei e mezzo, mentre la serie si prende come minimo un nove.
Perché?
Perché?
Ovviamente non posso che ammirare la scelta del
protagonista: un uomo orribile, un mostro, come lui stesso si definisce, un
malato mentale, un serial killer! Se lo vedessimo al telegiornale lo
chiameremmo in questi e molti altri modi, anche poco lusinghieri, ma di certo
non: il fichissimo protagonista
dell’ultimo libro che ho comprato. Non che io ammiri il lavoro dei serial
killer, ma ammiro Jeff Lindasy per averci provato (ed esserci riuscito!) e aver
preso come protagonista, come ufficiale “bravo ragazzo”, un assassino della
peggior specie!
Esistono già, nella storia della letteratura moderna e
contemporanea, personaggi negativi protagonisti. Tuttavia credo che oggi
l’immagine del serial killer sia il
cattivone per antonomasia. L’idea di poterlo trovare affascinante, provare
simpatia per lui, addirittura stare dalla sua parte, era qualcosa che non
balenerebbe in testa a nessuno se non fosse per la bravura di un autore. E qui
torno ad ammirare Lindsay, che ha reso un personaggio socialmente inaccettabile
il nostro eroe.
A questo punto sorge spontanea una domanda: «Come ha
fatto?». Purtroppo non ho nessuna teoria al riguardo, perché qui arriviamo al
nodo negativo di questa recensione, ovvero lo stile.
Dire che non mi è piaciuto non è del tutto vero. La narrazione
in prima persona rende possibili certe… confidenze, certe frasi che usiamo nel
parlato ma che solitamente non useremmo per uno scritto, ed è proprio questo
che a volte non mi piace: credo che lo scrittore si prenda troppe licenze con
questo escamotage. E in “Dexter” di licenze ne sono state prese parecchie! È
una questione di gusti, me ne rendo conto, ma credo che in questo Lindsay abbia
esagerato.
Passiamo ad un altro punto che mi ha fatto riflettere. Il
tono del romanzo è di certo leggero, il protagonista tende a buttare tutto sul
ridere anche nelle situazioni più cupe, e questo è di certo un bene secondo me,
perché altrimenti il tutto sarebbe troppo serioso, e allora sì che ci
renderemmo conto che il nostro amato protagonista è un brutale serial killer
che ode voci che lo incitano ad uccidere! Il che lo renderebbe piuttosto
spaventoso, per nulla simpatico, no no… Quindi in pratica mi è piaciuto questo
andare avanti in maniera divertente, ironica.
Arriviamo al punto dolente, perché ce ne sono un paio belli
grossi.
Questo romanzo manca di particolari, e i momenti di tensione
svaniscono quando dovrebbero essere al loro picco.
Punto primo: i particolari. L’autore si è dilungato molto a
parlare di quanto Dexter si senta inumano, di quanto sia privo di sentimenti
(la cui cosa poi viene smentita continuamente nel corso della narrazione, e
soprattutto per come si risolve alla fine la storia), ma non ha dato alla trama
e a certi aspetti della sua vita lo stesso spessore, cosa ingiustificata data
la prima persona. Il protagonista avvia una ricerca quasi da detective, ma le
intuizioni, il ritrovamento di prove e l’articolazione di ipotesi (queste
ultime due poi sarebbero il suo lavoro) semplicemente non ci sono. Dexter va
avanti a intuizioni, quasi a tentoni, e con una fortuna sfacciata riesce a
risolvere la situazione! Inoltre la sua vita privata, già quasi inesistente, ha
quel poco di slancio con la storia di Rita, che lui afferma essere importante
per la sua facciata da persona normale, ma sembra che non appena Lindsay
raggiunge il suo scopo (ossia, appunto, la
scopa inteso come verbo) ci dimentichiamo di Rita, e dei passi avanti in
una relazione che, mostro o non mostro, anche Dexter deve compiere, o per lo
meno fingere.
Infine i momenti di maggior tensione, verso la fine del
romanzo, semplicemente scompaiono, anche se io ancora non ho capito il perché.
Forse è solo perché già sapevo come andava la storia. Ma davvero, la parte che
doveva emozionarmi di più mi ha lasciata quasi indifferente, anzi peggio! Ero
in uno stato da «Ma quando la finiamo?» Mi sono ritrovata ad apprezzare di più
tutto il resto del racconto, che il nodo cruciale della trama.
Il finale, poi, è semplicistico. Non viene neanche spiegato
per bene. Ecco, questo mi ha talmente indignata che non ho voglia neanche di
spenderci parole. Dev’essere stato lo stesso stato d’animo di Linsday quando ha
scritto quel maledettamente corto epilogo.
Alla fine? Alla fine questo libro mi trova impreparata a dargli un voto finale. Probabilmente è a causa di Michael C. Hall, che nei panni di Dexter mi ha fatta affezionare a lui. È tutta colpa sua…
Sono talmente divisa che sono certa di due cose: la prima è
che mi è piaciuta più la serie, la seconda che continuerò a leggere i romanza
di Dexter. Eh sì, possiamo dire che, alla fine, in modo piuttosto intricato, Lindsay ha vinto anche su di me.
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